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Viaggio nelle fabbriche cinesi di Babbo Natale

La Città internazionale del commercio a Yiwu, in Cina, il 17 dicembre 2018. (Lyu Bin, VCG via Getty Images)

I Babbi Natale sono decine, di tutti i tipi: alcuni sono dei manichini di dimensioni umane che si muovono a scatti diffondendo canzoncine natalizie, altri sono invece gonfiabili e più imponenti. Un pupazzo meccanico indossa una giacca di tartan scozzese invece della solita giubba rossa, ma a ipnotizzarmi è soprattutto una composizione corale: da un grande uovo esce Shengdan Lao (Babbo Natale in cinese) e abbraccia un pupazzo di neve con bombetta e mantello che lo aspetta lì fuori. Il tutto grande come un paio di frigoriferi, il tutto gonfiabile, il tutto in loop.

Una cacofonia di Jingle bells si contende lo spazio sonoro con altrettanti adattamenti di Feliz Navidad; sullo sfondo, l’ininterrotto ronzio dei motorini elettrici che gonfiano i Santa Claus pneumatici. Insomma, un baccano pazzesco. Nel negozio della signora Yu Qiaofang non c’è che l’imbarazzo della scelta. Le chiedo come mai tutti i pupazzi abbiano gli occhiali: “Babbo Natale è vecchio e deve indossarli”, mi risponde.

Alla fine ne scelgo uno gonfiabile che, attaccato alla presa di corrente, cresce in pochi secondi fino a un’altezza di due metri e dieci: è come avere in casa Dino Meneghin, largo però come due Bud Spencer. Il mio non ha gli occhiali, ma due occhi sgranati da manga giapponese. Qui tutto si contamina, ma il tocco creativo resta invariabilmente cinese.

A Yiwu si trova la più grande rivendita all’ingrosso di merci a basso costo del mondo

Yu Qiaofang descrive la filiera di Babbo Natale: “I vestiti li facciamo produrre in sartoria, proprio come per gli esseri umani. E anche Babbo Natale ha un cuore, ma elettrico: i chip, le cinghie, gli ingranaggi, sono tutti molto piccoli. Poi c’è il corpo, simile a quello delle persone normali. Noi facciamo gli stampi e poi ci sono delle fabbriche che producono gli accessori”.

Siamo a Yiwu, nella provincia del Zhejiang, 350 chilometri a sudest di Shanghai. In estesi mercati coperti, che secondo le autorità locali ospitano complessivamente 50mila negozi per 300mila articoli dei più diversi generi, si trova la più grande rivendita all’ingrosso di merci a basso costo del mondo. Al terzo e quarto piano del mercato di Futian – ribattezzato “Città internazionale del commercio” – si vendono gli articoli natalizi.

Non è così originale scrivere una storia su “Yiwu e il Natale” proprio nei giorni di Natale. Ogni anno qualcuno lo fa. Ma questa volta, i grossisti della città si trovano per la prima volta ad affrontare qualcosa più grande di loro: la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina.

Se Yiwu esporta nel mondo il 70 per cento dei gingilli natalizi, ben il 30 per cento prende la direzione degli Stati Uniti, il paese dove anche il Natale diventa occasione per competere. Fatevi un giro in qualche “America profonda” di villette monofamiliari, se non ci credete. Percepirete alla svelta quanto sia importante decorare la propria casa più sfarzosamente di quella del vicino e avrete la sensazione netta che, in un certo momento dell’anno, le renne luminose degli stand di Yiwu migrino tutte in California, come anguille del mar dei Sargassi. Se il mercato statunitense si chiude, che faranno nella città cinese?

Il nuovo corso
Zhao Futao e suo padre hanno una fabbrica che produce decorazioni natalizie. Lui è un ragazzone poco più che trentenne. “Quando ero giovane, mi piaceva un po’ troppo fare a botte. Allora papà mi ha spedito per due anni in Xinjiang: vai, vai – mi ha detto – chissà che non metti la testa a posto”, racconta. “La guerra commerciale non ha un grande impatto sui miei affari, ma comunque influisce sulla mia vita. Sappiamo tutti che è cominciata e questo ci provoca ansia. Ci chiediamo se avrà conseguenze. Apri il computer e guardi gli ordini dei clienti statunitensi, pensi che con i dazi i costi d’esportazione e i prezzi delle materie prime saranno sempre più alti”.

Negli ultimi anni, per lui gli affari non sono andati più tanto bene: “Prima i clienti erano soprattutto russi, ma più o meno dal 2014 il rublo si è svalutato e quel mercato si è dimezzato”. A Zhao poco importa che la causa sia stata il calo del prezzo del petrolio o le sanzioni della comunità internazionale contro Mosca; per lui si tratta molto semplicemente di rimpiazzare un cliente con un altro. Prima il problema con i russi, adesso forse con gli americani. “Per ora teniamo bene in America Latina e in Europa meridionale”.

Le difficoltà hanno costretto lui e suo padre a innovare: la fabbrica, che cumuli multicolorati di festoni natalizi fanno sembrare un’installazione diffusa, pulsa al ritmo delle macchine. “Sono tutte nuove e tutte made in China”, assicura Zhao. Ricerca di nuovi mercati, ridefinizione continua del prodotto e riduzione dei costi di lavoro attraverso l’automazione. Adesso nell’impianto ci saranno una decina di operai, che a seconda dei periodi possono diventare di più. “Sono tutti in regola e guadagnano tra i quattromila e i cinquemila yuan al mese (500-630 euro): guarda che non è poco per dei migranti rurali”, assicura Zhao. Tra non molto ci sarà la lunga pausa del capodanno cinese. Potranno tornare a casa, nei villaggi, e fare bella figura portando regali ai parenti.

Bisogna mantenere i volumi di vendita. A complicare le cose ci si è messo di recente anche il governo: “Il mercato domestico rappresenta per noi solo il 10 per cento – spiega Zhao Futao – ma dall’anno scorso le autorità scoraggiano la celebrazione pubblica di feste non autenticamente cinesi”. Proprio come il Natale. E parlando sempre di governo, sono aumentati i controlli anti inquinamento. “Per avere le montagne verdi e i fiumi puliti, le materie prime devono essere a norma e i costi sono aumentati di parecchio”. Quest’anno, i rossi, i blu, i fucsia dei festoni natalizi sono un po’ più smorti. Non è cambiato il gusto del pubblico, ma si usano coloranti meno nocivi.

Pur di mantenere quote di mercato, i commercianti di Yiwu preferiscono ridurre al massimo i margini di profitto. “Se l’anno scorso guadagnavo cinque, quest’anno guadagno tre, ma comunque continuo a vendere”, racconta la signora Yu, immersa come una regina nella sua corte di Babbi Natale. “Mi sacrifico per la felicità del genere umano. E non faccio altro per 365 giorni l’anno”, dice ridendo Zhao Futao. E ride anche suo padre, Zhao Guoqiang. Fuori, nel cortile del complesso industriale, qualcuno ha steso il cavolo cinese a essiccare di fronte all’ingresso della palazzina che ospita gli uffici.

Bisogna vendere, punto.

In Cina si dice che la gente del nord – come a Pechino – produce automobili inservibili; quella del sud – come a Yiwu – cerniere e bottoni utili, anzi indispensabili. Il senso è che quelli del nord fanno solo ciò che dà mianzi – “faccia”, prestigio – o soddisfazione personale; a sud, invece, producono ciò che chiede il mercato, senza particolari investimenti emotivi personali, basta che si venda.

Così è per i festoni natalizi di Zhao Futao e anche per i Babbi Natale di Yu Qiaofang, nonostante l’indubbia creatività ruspante che trasmette il negozio della donna. Abbiamo parlato tante volte di “resilienza”, nel caso degli imprenditori cinesi: è quella capacità di diventare flessibili fin quasi a spezzarsi, assottigliare i profitti fin quasi ad annullarli; purché si veda la luce in fondo al tunnel; solo in questo caso ne vale la pena.

Per riuscire in questo processo di adattamento, ci vogliono risorse ben precise, che a Yiwu appaiono chiare. La prima, imprescindibile, è la famiglia. I grossisti di Yiwu sono in realtà sia produttori sia commercianti. Le due funzioni sono incorporate nelle loro piccole imprese a gestione familiare. Della loro attività si dice che sia 30 per cento manifattura, 30 per cento prova campioni e 30 per cento rivendita: davanti il negozio, dietro l’officina, una filiera corta che è garanzia di flessibilità, prezzi bassi e personalizzazione del prodotto.

Il sistema è forse ancora più chiaro in un altro settore: quello dei fiori finti. Perché osservare una merce così sottovalutata, sinonimo di cattivo gusto? Perché dietro ai fiori artificiali – attenzione, non sono solo “di plastica” – c’è intelligenza applicata. La loro banalità è solo apparente. Basti dire che, nel 2017, la Cina ne ha esportati in tutto il mondo circa 263mila tonnellate, per un valore di oltre tre miliardi di dollari, secondo dati delle dogane.

Sheng Jiyuan è nel business con suo marito, Wang Baoying. Lei sta nel negozio alla Shangcheng (“città del commercio”), giusto due piani sotto i prodotti natalizi; lui si occupa del magazzino e della distribuzione.

Questa macchina è in grado di rispondere in tempo reale alle richieste del mercato

Davanti a un camion dove alcuni magazzinieri caricano una partita diretta nelle Filippine, lui ci spiega la geografia della filiera:“Abbiamo una fabbrica a Tianjin, dove venti-trenta operai costruiscono il modello, applicano la tintura e producono i pezzi. Poi spediamo tutto nelle montagne dello Shandong per l’assemblaggio, che coinvolge centinaia di lavoratori intermittenti. Lì, la manodopera costa meno”. Quindi i fiori artificiali arrivano a Yiwu, dove ci sono la showroom e il magazzino, e da lì partono per il porto di Ningbo. La signora Sheng aggiunge una pre-tappa al tour de Chine dei suoi fiori: “Il design migliore viene da Guangzhou”.

Guangzhou, Tianjin, Shandong, Yiwu, Ningbo, mondo: una filiera apparentemente lunga che però diventa corta grazie ai legami familiari. “Dal mio negozio dove passano i compratori, io capisco se in un certo paese piace di più un certo tipo di fiore”, spiega Sheng Jiyuan. “Quindi mando il disegno a mia nipote a Tianjin, lo produciamo in breve tempo e così abbiamo un vantaggio competitivo”.

La diffusione geografica permette di localizzare ogni anello della catena dove il rapporto qualità-prezzo è più vantaggioso; la famiglia permette di capirsi al volo e offre quella fedeltà assoluta data dai destini comuni.

Questa macchina è in grado di rispondere in tempo reale alle richieste del mercato. Intorno allo stand di Shen Jiyuan, altre piccole imprese replicano all’infinito lo stesso schema. Una famiglia di Yiwu – gli autoctoni non sembrano essere la maggioranza – produce alberi e di fronte al loro stand spicca un meraviglioso ciliegio in fiore; un’altra viene dallo Hebei ed è specializzata in foglie ed erba, la commessa indossa un pellicciotto rosa su sfondo completamente verde; quelli del Guangdong fanno invece fiori in vaso, finti i primi e finto anche il secondo. Tutte specializzate in un prodotto, tutte con una filiera che hanno personalizzato negli anni.

Di fronte allo showroom di una famiglia dello Shandong specializzata in “fiori natalizi”, una giovane commessa di Chongqing stende il prodotto sul pavimento a beneficio di alcuni compratori indiani. Sono fiori ostentatamente innaturali, petali enormi corredati di perline. Chiedo al signor Shubham Hans perché importi in India proprio quel manufatto: “Piacciono molto, soprattutto nelle grandi occasioni, come i matrimoni”. Il suo intermediario, Brighu Dhall, vive a Yiwu da diversi anni e ha un’idea piuttosto precisa del perché l’India non riesca ancora a competere con la Cina in questo settore: “Solo i cinesi riescono a produrre questa qualità a questo prezzo”, dice. “Ci vorranno almeno altri cinque-dieci anni prima che la produzione vada altrove, perché la Cina ha una economia di scala che è ancora vincente”. Il signor Hans lo guarda un po’ storto e lo corregge: “Ma anche noi ci stiamo arrivando. Il nostro governo sta facendo molti investimenti”. “Ah sì sì, sta facendo investimenti”, si affretta a rettificare Dhall.

Yiwu appare come un sistema integrato estremamente reattivo. Comprende piccole imprese familiari molto flessibili, la logistica, trasporti, l’accoglienza per i compratori. Nell’hotel dove alloggio, il saluto ricorrente è assalamu alaikum. Qui tutto il mondo viene a rifornirsi di tutto. In giro si vedono soprattutto mediorientali, centroasiatici, qualche russo. E la città si plasma a loro beneficio, in un proliferare di ristoranti halal. Vedi all’opera il decoupling – l’idea di scambi che prescindano dall’occidente – che ti fa pensare come, tutto sommato, gli Stati Uniti non siano il centro del mondo. Il lavoro vivo di Yiwu troverà una propria soluzione anche alla guerra commerciale; o chissà, forse l’ha già trovata.

La signora Shen conosce il mondo attraverso i fiori: “Questi colori autunnali vanno molto in Europa, in Brasile è più o meno dai Mondiali che il giallo ha sostituito il viola”, dice mostrando le sue ultime creazioni. “Puoi star certo che se in Brasile va un certo colore, nel giro di poco tempo fa tendenza anche nel resto del mondo”. La sua felicità è un girasole: “Questo è il fiore di cui sono più orgogliosa. L’ho fatto io su disegno di un cliente e l’ho sempre venduto benissimo”.

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