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Tutte le domande sulla rivolta nel carcere di Opera

Nel carcere Opera di Milano, novembre 2016. (Clara Vannucci)

La notte del 9 marzo, mentre buona parte del paese aspettava il discorso con cui Giuseppe Conte avrebbe messo l’Italia in quarantena, qualche decina di persone era davanti al carcere Opera di Milano. Da qualche ora, sui loro telefoni girava la voce che nell’istituto fosse scoppiata una rivolta e che fossero in corso delle violenze. Dicono che qualcuno della zona gli aveva spedito un video dove si vedeva del fumo uscire dalle sbarre delle finestre. E che qualcun altro aveva ricevuto delle telefonate dai detenuti in cui si diceva che la situazione era precipitata.

Come sempre quando succede qualcosa, le prime ad arrivare sono state le donne: le mogli, le figlie e le madri dei detenuti. Quel giorno avevano fatto in tempo a vedere il sole spegnersi su Opera prima di notare che le luci dell’istituto non si accendevano. Fuori, ad aspettarle e a impedire che si avvicinassero troppo, c’erano le forze dell’ordine. Per ore si sarebbero confrontate con loro, chiedendogli cosa stava succedendo. A mezzanotte anche le ultime se ne sarebbero tornate a casa. Nessuna di loro avrebbe ottenuto delle risposte.

Tra le decine di proteste e sommosse avvenute nelle carceri di tutto il paese in quei giorni per via della sospensione dei colloqui con i familiari, delle condizioni invivibili delle galere e della paura del contagio, quella di Opera è una delle meno raccontate. Di San Vittore si sono viste le foto dei detenuti sui tetti, di Poggioreale i video dei familiari davanti all’ingresso, di Modena si sono lette le notizie terribili sulle persone morte. La rivolta in una delle prigioni più grandi d’Italia – aperta nel 1987 per accogliere 900 persone, oggi ne ospita più di 1.300 – non sembra invece avere lasciato tracce. Eppure le donne che erano lì la sera del 9 marzo, e altre che ci sono andate nei giorni successivi perché preoccupate, dicono che quelle tracce ci sono e parlano di violenze. Per farsi ascoltare hanno raccontato quello che sanno al Garante nazionale dei diritti dei detenuti e all’associazione Antigone.

Gli esposti
In casi del genere il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, e il suo gruppo raccolgono quante più testimonianze possibili all’interno di un carcere, e cercano la collaborazione del dipartimento di amministrazione penitenziaria. Ma in un mondo in cui tutto è stato sospeso, il sistema carcerario italiano è diventato ancora più impenetrabile. Dal 7 marzo, una delle misure per arginare la diffusione del nuovo coronavirus ha lasciato fuori i familiari, i volontari e le associazioni.“Questo impedisce il nostro solito lavoro, è una situazione del tutto eccezionale”, dice Gonnella, “ma il numero delle persone che si sono rivolte a noi e la concordanza nei loro racconti, ci ha spinto a fare un esposto alla procura della repubblica di Milano”.

Anche il garante ha scelto di farlo. Oltre alla “sostanziale omogeneità” delle denunce, a convincere Mauro Palma a rivolgersi al procuratore Francesco Greco è stato un particolare insolito. “Io ho accesso alla raccolta degli eventi critici che i singoli istituti comunicano al dipartimento di amministrazione penitenziaria”, dice Palma. “Di solito in casi del genere ci sono sempre segnalazioni che riguardano i detenuti. Spesso trovi un rapporto che magari sminuisce quello che è successo, qualcosa tipo: ‘I detenuti non volevano rientrare nelle celle e così abbiamo dovuto usare la forza’. Da Opera però sono arrivate solo segnalazioni sulle ferite degli agenti. Altro non è menzionato”. È un fatto che insospettisce, dice Palma.

Gli esposti sono atti formali, hanno una loro lingua e un loro codice, si può inciampare spesso nella loro lettura. Ma in un sistema a tenuta stagna come quello della galera – e specialmente di una galera in cui è avvenuta una rivolta – aiutano a ricostruire un puzzle difficile da ricomporre.

Il cortile del carcere Opera, Milano, dicembre 2016.

In quello presentato dall’avvocata Simona Filippi per Antigone si legge che “nel tardo pomeriggio e nella serata del 9 marzo, a seguito della protesta messa in atto da un gruppo di detenuti del primo reparto, vi sarebbero stati due differenti interventi da parte delle forze dell’ordine (polizia di stato, polizia penitenziaria e carabinieri)”. Uno tra le 18 e le 18.30 “per fermare i detenuti in rivolta e per riportarli nelle loro celle” e uno dopo le 20.30. Il secondo “sarebbe stato attuato all’interno delle diverse celle ove le forze dell’ordine sarebbero entrate per colpire i detenuti che avevano effettuato la rivolta ma anche quelli che non vi avevano preso parte”.

Il testo del garante va ancora più a fondo e mette insieme una serie di testimonianze. La madre di un ragazzo di 24 anni aveva parlato con il figlio domenica 8 marzo. Sembrava tranquillo. “Lunedì 9 marzo, intorno alle ore 17, ha iniziato a ricevere chiamate dall’interno dell’istituto di persone che dicevano ‘questa sera da qui non usciamo vivi’”. La donna è corsa verso il carcere, ma invece di unirsi a chi si trovava davanti alla struttura, ha raggiunto il “campo che si trova davanti alle finestre del primo reparto ed è riuscita a comunicare direttamente con il figlio”. Il ragazzo “le avrebbe detto che gli agenti sono entrati in dieci nelle celle (…) e che a lui hanno dato un calcio fortissimo nei testicoli e lo hanno colpito con forza sulla testa”. Il garante ha sentito anche il suo avvocato, a cui “la polizia ha detto di avere dato ‘qualche ceffone’ ma che poteva stare tranquillo”.

Un racconto ancora più dettagliato è quello fatto a Mauro Palma e alla sua squadra da una donna che ha cinque parenti a Opera. Il 14 marzo il marito l’avrebbe chiamata intorno alle quattro del pomeriggio e le avrebbe detto: “Il lunedì sera (il 9 marzo, ndr) tutti facevano la battitura in rivolta e qualcuno dei detenuti ha dato fuoco a dei materassi. Dopo un po’ sono entrati degli agenti antisommossa, hanno spento le luci e hanno picchiato tutti senza distinzioni. Ci sono dei ragazzi messi molto male”.

Le parole dei familiari
A un certo punto dell’esposto del garante c’è un passaggio su una frase che colpisce. La riferisce la madre di un ragazzo italiano detenuto nel primo reparto di Opera. La donna dice di aver sentito il figlio il 9 marzo. Durante la telefonata, il ragazzo le avrebbe detto che “se gli fosse successo qualcosa, avrebbe dovuto tenere presente da subito che non si sarebbe trattato di suicidio e nemmeno di assunzione di metadone”.

È una frase che mi è stata ripetuta più o meno nella stessa forma da diverse donne con cui ho parlato nelle settimane successive alla rivolta nel carcere milanese. Per capirne i riferimenti bisogna tornare a quel 9 marzo. Da un paio di giorni le galere incendiavano l’aria già satura di incertezze di inizio marzo. Le notizie sulle proteste e sulle violenze in decine di istituti aprivano i telegiornali. A Foggia erano scappati diversi detenuti. A Modena le autorità avevano dichiarato che nove persone erano morte dopo aver assaltato le infermerie e aver preso troppo metadone.

“Sentire mio figlio parlare di suicidio e metadone mi ha gelato il sangue”, dice al telefono la madre del ragazzo italiano. La donna preferisce restare anonima, ma vuole aggiungere la sua storia a quella di altre. Il figlio è stato condannato a dieci anni per rapina ed estorsione ed è in cella dal 2015. “Era irrequieto, aveva smesso di studiare e ha commesso degli errori. In galera ha fatto un suo percorso, ha ricominciato a studiare e prenderà il diploma”, dice. “L’ho risentito dopo una settimana e mi ha detto che hanno provato a dargli una manganellata in faccia, ma è riuscito a pararla con il braccio. È successo mentre lo stavano riportando in cella, poi l’hanno picchiato anche lì”. La donna dice di non aver chiesto al figlio se abbia partecipato alla rivolta, “ma di sicuro non è andato a nascondersi”. Sa che ci sono state violenze anche da parte dei detenuti e che gli agenti hanno dovuto usare la forza per fermarle, quello che non capisce è “perché picchiare mio figlio anche dopo”.

Le famiglie dei detenuti lasciano il carcere dopo l’orario delle visite. Dicembre 2016.

Anche Federica, una ragazza di Milano che ha trent’anni e il fratello a Opera, parla delle violenze che avrebbe subìto il suo familiare e aggiunge che dopo la rivolta a lui come agli altri “hanno tolto la tv, il fornello, le ciabatte, le mutande e le magliette, qualsiasi cosa fosse infiammabile”. Sia lei sia altre donne sostengono che “gli fanno comprare solo acqua, sigarette e caffè, per il resto si devono accontentare del vitto, per questo dalle finestre gridavano di avere fame”. La madre del ragazzo in carcere per rapina ed estorsione racconta che “gli stanno trattenendo i soldi perché dicono che servono per risarcire i danni che hanno causato, ma prima bisognerebbe stabilire chi ha fatto cosa, e quantificare questi danni”.

Ci sono diversi audio in cui si sentono i detenuti urlare di avere fame. Alfonsina Passariello ne ha il telefono pieno. Passariello ha 27 anni, è di Caserta ma vive a Milano. Nell’aprile 2019 ha sposato il marito proprio mentre lui era a Opera. Ci era finito l’anno prima per spaccio di droga. “Ha 33 anni, è da tempo che entra ed esce, sempre per spaccio”, dice Passariello. La donna sostiene di aver parlato con il marito più o meno due settimane dopo e che “la linea cadeva in continuazione. Mi ha detto che l’hanno picchiato il 10 marzo”.

Sia lei sia la madre del ragazzo condannato per rapina ed estorsione fanno poi riferimento a un’altra presunta violenza che sarebbe avvenuta giorni dopo la rivolta. È l’unico caso, finora, in cui un detenuto ha scritto nero su bianco cosa gli sarebbe successo e ha presentato una denuncia al tribunale di Milano. Per questo vale la pena osservarlo da più vicino.

Una denuncia
“Il giorno 21 del mese di marzo (…) dopo aver avuto un diverbio verbale con un agente intorno alle 13 per dei miei chiarimenti in proposito sui miei diritti per fare la spesa settimanale l’agente mi risponde in modo provocatorio”, si legge nella denuncia. “Alle 14:50 lo stesso agente entra in sezione in compagnia di 5-6 agenti (…) prendendomi sottobraccio e indirizzandomi verso la mia camera, il mio concellino viene rinchiuso nel bagno ed io vengo bloccato, e allo stesso tempo mi vengono ripetutamente dati calci e pugni”.

Eugenio Losco, l’avvocato dell’uomo, dice che “ci sarebbero anche dei testimoni dalle celle vicine e dei referti”. A contattarlo è stata la moglie. La donna, che preferisce rimanere anonima, racconta di aver sentito il marito la mattina del 9 marzo: “Mi aveva detto che c’era malcontento, che si vociferava di alcuni contagiati”. Le voci erano state registrate anche da un’agenzia Ansa del 7 marzo, e non è difficile immaginare che ci abbiano messo poco a rimbalzare da una cella all’altra di Opera.

“Voglio essere oggettiva. Io so che mio marito ha partecipato alla rivolta e che quando il magistrato di sorveglianza è andato a visitare il carcere gli ha mostrato i segni viola delle manganellate sul corpo”. La donna l’ha poi sentito al telefono il 17 marzo: “Mi è sembrato molto provato, ma mai come dopo il 21, quando l’hanno picchiato di nuovo. A me l’ha confermato lui stesso in una telefonata”. È in occasione di quella chiamata che torna il riferimento a quello che era successo a Modena. “Se ti dicono che mi sono suicidato o che sono morto per il metadone, non gli credere”, avrebbe detto l’uomo alla moglie. “Ho paura per lui. Ha una storia legata alla tossicodipendenza, è detenuto da dieci anni per rapina. In tutto questo tempo non ha mai denunciato le botte che ha preso, ma ora non ce la fa più. Vivo con l’ansia che mi chiamino e mi dicano che è successo qualcosa di brutto. Spero che sia trasferito subito”.

Contattato per email e telefonicamente attraverso la segreteria del carcere, il direttore di Opera non ha risposto alle domande che sollevano questi racconti. Le parole dei familiari dei detenuti ora sono al vaglio della magistratura milanese. Gli inquirenti dovranno pesarle a una a una e decidere se aprire un’indagine o no. “Bisognerebbe agire il prima possibile, perché in casi del genere, più passano i giorni e più è complicato ricostruire cosa è successo”, dice Patrizio Gonnella di Antigone.

Il problema è che in questa emergenza globale l’etichetta di normalità che vorremmo ritrovare su ogni aspetto delle nostre esistenze svanisce. Gli ingranaggi si inceppano, i rinvii si moltiplicano, il tempo si ferma. Tutto questo vale anche per la giustizia. In Italia giudici e tribunali devono rispettare delle restrizioni per evitare la diffusione del contagio. Fino all’11 maggio vanno avanti le convalide d’arresto e i processi chiesti dai detenuti in custodia cautelare, mentre tutto il resto è ridotto all’essenziale. Bisogna capire se per la procura di Milano le domande su una vicenda come quella di Opera rientrano nel concetto di essenziale.

Le foto pubblicate in questo articolo sono state realizzate da Clara Vannucci, che dal 2009 segue una serie di progetti sulle carceri italiane e statunitensi.

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