In Concorso a Venezia 80, con Adagio Sollima sorprende molto. Regista più identificabile con le fiction televisive, fa qui del vero cinema di genere al tempo stesso estremamente ancorato alla realtà, realizzando un grande noir sociale con un’opera che sembra proseguire quanto delineato con Suburra.

Tre poliziotti corrotti, un archetipo del film poliziesco più in sintonia con quest’era prosaica dal volo basso, sembrano voler sostituire tre uomini anziani, malandati e stanchi della vecchia banda della Magliana, relitti umani, vestigia di un mostro di Frankenstein malavitoso creato e gestito dai nostri servizi segreti nel contesto della guerra fredda che il regista aveva già trattato con la serie tv di Romanzo criminale, figlia dell’omonimo libro di De Cataldo e del film di Michele Placido. In mezzo, un adolescente espressione del sottoproletariato urbano, come si diceva un tempo. Si è prostituito con un politico ricattato dai tre agenti e non vuole che il video circoli poiché è riconoscibile.

Una Roma trasfigurata

Sollima si cita, fa autoreferenzialità gratuita? Al contrario, plasma invece meticolosamente un organismo unico, una sorta di continuum in cui rilegge la storia recente e quella meno recente del secondo dopoguerra dal prisma della metropoli più marginale, delle borgate, e lo fa davvero bene, meglio delle altre volte. Il lungo segmento iniziale notturno rivela un’altra Roma, rivela che questa può essere filmata, guardata, come New York, rivela che la capitale è piena di luoghi insieme malfamati e degradati e nondimeno suggestivi.

Una pompa di benzina dall’alto pare quasi un’emanazione a metà tra film di fantascienza e visione alla Edward Hopper trasfigurata. Nel finale la stazione Tiburtina pare Hong Kong (al cui cinema di azione rimanda in parte). Ma anche nella parte diurna la camera scava negli interstizi rimossi della città. C’è una perdita di punti di riferimento certi. È una questione di sguardo.

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È miracoloso soprattutto come Sollima si muova in perfetto equilibrio su fili sottilissimi riguardo a ogni elemento costitutivo del film, regia (direzione degli attori compresa), montaggio, fotografia, sceneggiatura. E non solo gli elementi citati sono tutti perfettamente calibrati ma questo è altrettanto vero anche all’interno di essi. Per esempio sul piano della sceneggiatura, i dialoghi che ne conseguono rendono credibili i personaggi, che devono essere veraci, volgari ma facendo affiorare pian piano l’essere umano per non cadere nella caricatura: particolarmente riuscito il personaggio di Favino, irriconoscibile, che ci regala una grande prova d’attore interpretando un ex membro della banda della Magliana che pare un Bruce Willis macilento, anzi un Marv del Sin city di Frank Miller, sia graphic novel sia film: è come se il Marv interpretato da Mickey Rourke fosse uscito dalla trasfigurazione negli inferi dell’oscurità e fosse stato sbattuto nell’inferno della realtà diurna più assolata e, disincarnato, rivelasse l’essere umano sofferto, sbagliato, in tutta la sua fragilità. E quindi vero.

Questo confronto/scontro su tre generazioni assume il profilo di un futuro degno per chi è giovane, mentre nel nero dell’orizzonte, sempre restituito per piccoli tocchi che si fanno crescenti, si profila l’incendio, indefinibile quanto inquietante, di un’apocalisse (molto) prossima ventura.

Un carnevale superficiale

Origin di Ava DuVernay, invece, naufraga nelle sue grandi ambizioni. Nel mettere in scena le tesi ardite ma estremamente stimolanti della giornalista e saggista Isabel Wilkerson, vincitrice del premio Pulitzer, realizza un film piatto nella regia, fotografia e scrittura. E secerne purtroppo una melassa didascalica logorroica alla lunga estenuante.

Quando ci si sposta in India invece dello straniamento verso l’altro abbiamo un superficiale carnevale dei colori esotici, e in tutto il film la noiosa ripetizione dei medesimi concetti ha sullo sfondo la stessa musica grandiloquente quanto sciropposa, incessante quanto indefinibile, che fa rimpiangere Vangelis. I film e i libri a tesi, come pure i pamphlet, possono essere interessanti e non ci disturbano, o quantomeno non per forza, ma questo è semmai un noioso e ridondante Bignami delle tesi espresse da Wilkerson nel suo saggio Caste: the origins of our discontents (2020). E che rischia anche di essere controproducente perché in gran parte si rivolge a chi è già d’accordo, oltre che per il suo oscillare continuo tra il frastornante e il pedante.

Prigioni dorate e gotiche

Dopo alcune prove deludenti, Sofia Coppola firma un biopic – l’ennesimo di questa Mostra dopo Ferrari, di cui abbiamo già scritto, e il diseguale ma fine Maestro, sul compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein – che è una delizia, incentrato, come evidenziato fin dal titolo, su Priscilla che è stata prima giovanissima fidanzata, poi moglie e infine madre dei due figli di Elvis Presley. Chiaramente pensato come sorta di antitesi minimalista al fastoso Elvis di Baz Luhrmann, potremmo dire che si svolge quasi per intero in una stanza.

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Di volta in volta diversa, perché cambiano luoghi e contesti, la bambolina è segregata, confinata, in una perenne prigione dorata quanto angusta: grande il lavoro di illuminazione per rendere questo ambiente al contempo appariscente e ristretto. Come nel film di Garrone di cui parliamo più sotto, vi è una notevole purezza di racconto, un’asciuttezza invidiabile, in cui per piccoli ma sapienti tocchi continui viene restituita appieno una solitudine esistenziale (lei sola in una stanza stavolta immensa che gioca con un barboncino).

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Povere creature! del greco Yorgos Lanthimos è un capolavoro assoluto, ma rimandiamo all’uscita in sala per un’analisi compiuta. Qui diciamo che questo racconto, dove ogni capitolo corrisponde a una prigione della protagonista e che fonde il romanzo gotico (Frankenstein), quello di formazione, quello femminista di emancipazione, la commedia, in una sontuosa opera psichedelica piuttosto visionaria e molto stratificata, non somiglia a nessun altro film mai fatto finora. Un exploit.

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È intanto in sala Io capitano, il nuovo film di Matteo Garrone che è probabilmente, insieme a Povere creature!, il capolavoro del Concorso, forse del festival. Certamente il più importante della sua carriera, già così ricca e originale, e diremmo il più riuscito sul tema delle migrazioni africane (e non solo). Ecco un’opera che sa illustrare perfettamente una situazione – il percorso, inteso in senso letterale, di due ragazzi senegalesi che sognano un’Europa lontana dalla realtà e partono per un viaggio a dir poco periglioso – nella rappresentazione di situazioni mai viste prima al cinema per quanto a nostra conoscenza, ma dove lo sguardo sul mondo è così potente che se anche questi tragitti per deserti e per mari già li conoscessimo, rimarrebbe la forza di una messinscena che va volare, anche in senso letterale, lo spettatore con l’anima, con lo spirito.

Andare oltre, malgrado tutto, come si trovano a fare i due giovani protagonisti. La forza motrice dell’opera sembra proprio quella di superare la gravità intesa qui come gravità dolorosa delle tematiche e delle situazioni rappresentate ma anche come quella forza fisica che ci ancora alla terra talvolta rendendo così faticoso il vivere quotidiano.

Il cinema è sguardo. E qui lo sguardo del regista trascende tutto e si fa puro, si fa piuma, nuvola, vento, si fa leggerezza intesa come l’anelito dei due ragazzi ad andare appunto oltre inglobando anche il sogno come strumento per non accettare una realtà profondamente ingiusta. E saldandosi così a noi come fratelli, poiché in questo film profondamente umano il loro anelito è anche il nostro. Malgrado tutto un gran film d’avventura simile a quello degli eroi antichi ma dove i due amici tentano al contempo di mantenere lo sguardo puro dell’infanzia, il medesimo di quel Pinocchio da Garrone adattato allo schermo di recente, ma che vi riescono grazie a una forza dell’ostinazione del tutto degna del capitano Ulisse.

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