Sono amici dalle elementari, Dario e Amina: lui romano, lei bangladese arrivata a sei anni in Italia. Sono gli ultimi giorni insieme, in terza media: Dario ha scelto il liceo linguistico, Amina un istituto tecnico informatico. In classe con loro si preparano all’esame anche Khan e Andrei, arrivati da Afghanistan e Ucraina, Omar, senegalese, e Shila, dal Bangladesh, iscritta da poco.

Siamo a Roma, nel quartiere San Lorenzo, e l’istituto comprensivo (Ic) Borsi-Saffi è una delle tante scuole multiculturali in Italia: su cento alunni un quarto ha cittadinanza straniera. A fine maggio il Borsi-Saffi è diventato un caso giornalistico per la parola “razza” presente su un questionario per la diagnosi di disturbi dell’apprendimento distribuito alle famiglie. Il testo era stato fornito da un centro privato che si occupa di salute dell’età evolutiva ed è accreditato presso la regione Lazio: il termine “razza” era il risultato di una traduzione dall’inglese non rivista. Quasi un paradosso per una scuola inclusiva, in cui gli insegnanti, pur nella carenza di politiche e finanziamenti, lavorano ogni giorno per supportare i ragazzi stranieri.

Secondo gli ultimi dati del Miur gli alunni con cittadinanza non italiana sono 865.388 (il 10,3 per cento della popolazione scolastica) e vengono da quasi duecento paesi (i primi cinque sono Romania, Albania, Marocco, Cina, Egitto). Sono concentrati prevalentemente nel nord (oltre un quarto in Lombardia).

Gli alunni con background migratorio sono una categoria eterogenea. La maggior parte di loro (il 65 per cento) è nata in Italia e non ha la cittadinanza. Sono “nativi multiculturali”, come molti ragazzi della Borsi, che a casa alternano italiano e bengali, mangiano lasagne e pollo tandoori. Altri sono arrivati da bambini o da adolescenti, con percorsi e condizioni giuridiche diverse: regolari o irregolari, per ricongiungimento familiare o minori non accompagnati, migranti economici o richiedenti asilo.

Il cortile della scuola Carlo Pisacane a Roma. (Carolina Rapezzi)

In scuole come la Borsi i ragazzi migranti possono arrivare in ogni mese dell’anno e, diversamente che in altri paesi europei, sono subito inseriti in classe. Non parlano italiano, vengono da sistemi scolastici eterogenei, devono affrontare la migrazione in un’età difficile. Accoglierli e supportarli è un lavoro enorme. Rivedo Shila nell’aula riservata all’insegnamento della lingua italiana per stranieri (L2), è insieme ad altre ragazze bangladesi – la comunità prevalente a San Lorenzo. Molte sono figlie di ristoratori e negozianti del quartiere, arrivate per ricongiungimento familiare, qualcuna porta il velo. Shila, che tra i compagni italiani era seria e silenziosa, nella classe di L2 sorride e sembra più a suo agio.

Inseguire fondi per corsi L2, mediatori, progetti interculturali, è ormai un lavoro parallelo, gravoso per presidi e insegnanti

Provo a immaginare come si sente: dover ricostruire tutti i punti di riferimento, immersa in suoni che comprende solo in parte. Per alunne come lei imparare l’italiano è prioritario. Ha un piano personalizzato di apprendimento, che la faciliterà nelle valutazioni e nell’esame. Durante la settimana ha due ore di lezione di italiano per stranieri e due pomeriggi di sostegno per i compiti. I corsi sono svolti da operatori esterni alla scuola, in convenzione con cooperative e associazioni, come avviene a Roma e in molte città italiane.

Inseguire fondi per corsi L2, mediatori, progetti interculturali, è ormai un lavoro parallelo, gravoso per presidi e insegnanti. Lo raccontano Marcello Di Pasquale e Rosanna Labalestra, dirigenti dell’Ic Saffi-Borsi e dell’Ic Salacone a Tor Pignattara (che comprende la primaria Pisacane, una scuola simbolo dell’integrazione). “Abbiamo bisogno di molte risorse per fare alfabetizzazione, supporto, sportelli di ascolto, laboratori sulle relazioni”, dice Labalestra. “Con i fondi ordinari copriamo il 20 per cento, il resto lo troviamo scrivendo progetti e cercando ogni tipo di bando: del comune, del Miur, dell’Unione europea”.

Ma in Italia il sistema dei bandi ha grosse lacune. Perché le ore di L2 sono poche, perché non c’è continuità, perché i corsi, per i tempi burocratici, partono mesi dopo l’inizio della scuola, lasciando i ragazzi senza un supporto. Soprattutto, perché le attività per gli stranieri, come dice Fiorella Farinelli, esperta di politiche di istruzione e formazione “non sono nell’ordinario funzionamento didattico: da nessuna parte è scritto che sono obbligatorie”. Ci sono scuole attive e inclusive – come la Borsi-Saffi e la Salacone a Roma – e altre che non lo sono affatto. A volte sono solo gli insegnanti di sostegno che seguono gli stranieri, anche se questo non rientra nei loro compiti specifici.

Oltre il problema linguistico

Eppure in Italia esiste una classe di concorso specifica (la A023) per l’insegnamento dell’italiano a stranieri e ci sono molti insegnanti specializzati, che lavorano nei centri per l’istruzione degli adulti (Cpia, per chi ha più di 16 anni), o nel terzo settore, spesso da precari.

Per quanto incredibile, nella scuola dell’obbligo l’insegnante di ruolo di L2 non è previsto, neanche in quelle scuole (sono 3.788 su 55.240) con più del 30 per cento di alunni stranieri. Nonostante la presenza di linee guida nazionali del Miur, ottime a livello teorico (l’ultimo documento, gli Orientamenti interculturali è del 2022), il sistema scolastico italiano, come si legge in un recente rapporto della fondazione Ismu, “è tuttora sprovvisto, a venticinque anni dai primi ingressi, delle risorse organizzative e professionali necessarie a una piena inclusione”.

L’integrazione non è solo un problema linguistico. Katia Pace, maestra e referente per l’intercultura per la Borsi-Saffi, racconta le tante iniziative dell’istituto nel quartiere, dalla microforesta ecologica al doposcuola per le primarie, gestito da un’associazione di volontari dove lavorano anche madri straniere.

Arianna Buono, insegnante alla Borsi, dice: “Qui non ho mai visto discriminazione o razzismo, anzi la cosa che mi ha sempre colpito dei nostri alunni è la disponibilità ad accogliere un nuovo compagno. In classe Dario ha aiutato Khan con la grammatica italiana. La più grande soddisfazione è quando i ragazzi stranieri tornano a trovarci e ci dicono: prof, sto facendo il liceo e vado benissimo, voglio fare il medico o il cuoco… Vedere che stanno trovando la loro strada ”. Eppure, dice con amarezza “a non andare alle gite sono soprattutto loro. Facciamo di tutto per coinvolgerli, parliamo con le famiglie. Spesso è un problema economico: per il campo scuola abbiamo creato delle quote solidali, molti hanno partecipato gratis. Ma per le ragazze bangladesi c’è una resistenza, è un problema culturale”. D’altronde, continua “se i genitori non parlano italiano non è facile coinvolgerli. Avremmo bisogno di aiuto, di un mediatore sempre presente. A volte il ragazzo non tira fuori un disagio perché non lo sa comunicare”.

I mediatori culturali sono un punto dolente: nelle scuole italiane sono presenze sporadiche, chiamati per gli open day o quando c’è un problema serio con un alunno.

A sinistra: Omar, 14 anni, studente senegalese della scuola media Borsi, a Roma. È arrivato in Italia nel 2022. A destra: Rosangela, 13 anni, studente italiana di origini filippine, frequenta la scuola media Rosa Parks (ic Salacone) a Roma. (Carolina Rapezzi)

La formazione degli insegnanti, inoltre, mostra forti carenze per quanto riguarda gli aspetti antropologici e relativi all’intercultura. Per chi lavora, continuare a formarsi “è una scelta personale, senza nessun obbligo”, dice Pace, che sogna “insegnanti capaci di comunicare in più lingue, con competenze più strutturate su aspetti psicologici e sul trauma”.

“Mi sento in difficoltà quando mi accorgo che alcuni argomenti non sono compresi”, spiega Buono, “non solo da un punto di vista linguistico ma anche culturale. Pensiamo a Dante, alla concezione dell’aldilà, dovremmo essere più bravi, capaci di parlare a culture diverse. Vorrei sapere di più della cultura bangladese, abbiamo letto delle poesie, ma il tempo è sempre poco”.

Smontare gli stereotipi

Anche a Prato, una delle città che ha investito di più sull’integrazione scolastica (il comune coordina i corsi di L2 e i mediatori in tutte le scuole dell’età dell’obbligo e ci sono corsi di aggiornamento periodici) gli insegnanti sentono che la loro preparazione non è ancora adeguata a una società multiculturale. In Italia, la provincia di Prato è quella con la più alta concentrazione di alunni non italiani e quasi un minore su quattro è cinese. “Dobbiamo decostruire tanti stereotipi, tanto colonialismo interiorizzato”, dice Francesca Cappelli, che lavora alle medie Mazzei dell’istituto comprensivo Marco Polo.

La sua collega, Alice Canossi, studia il cinese per capire meglio i suoi alunni: “La formazione universitaria non basta. Bisogna imparare a conoscere chi hai davanti, a stratificare, a non escludere nessuno, a usare diverse strategie. Molti non comprendono il libro di testo, devo costruire i materiali didattici”. Alla Mazzei, per facilitare l’apprendimento di tutti, si usano piattaforme multimediali per lo storytelling e il gioco di gruppo; tanti scelgono l’indirizzo musicale e suonano in orchestra. “La scuola italiana”, conclude Cappelli, “si basa sulla buona volontà e sul lavoro extra di tanti insegnanti”. Compilare bandi, inventare progetti, accogliere i nuovi arrivati e testare il loro livello linguistico, formarsi, preparare le lezioni considerando i diversi livelli, parlare con famiglie e mediatori, gestire il disagio psicologico: quello dell’insegnante nella scuola dell’obbligo è un lavoro multidisciplinare, estenuante, e per svolgerlo servirebbero competenze specifiche e più figure. Ma su questo non si è mai investito.

Per un alunno migrante, i veri problemi cominciano dopo la terza media

“Le scuole medie sono fondamentali, sono il centro del percorso”. A Prato, Noreen, brillante studente del liceo classico di origine pachistana (è l’unica non italiana in classe), racconta la sua esperienza. “Vivere in un ambiente multiculturale è bellissimo. Ma le dinamiche sono complicate, c’è la violenza, il bullismo. La nostra classe era divisa in gruppetti, con qualcuno non ho mai parlato. Alcuni insegnanti rinunciavano a fare lezione ai ragazzi più problematici. C’è chi vive situazioni di violenza a casa e le riproduce in classe. La scuola è il luogo dove si cresce, gli insegnanti dovrebbero lavorare più sulle relazioni, sul gruppo”.

A Roma Susanna Rubino dell’associazione Piuculture insegna L2 e lavora nei doposcuola: “Molti di questi ragazzi sono isolati, comunicano poco con la classe. Spesso le famiglie vivono un disagio, manca un genitore, quelli che lavorano fanno orari assurdi. Sono lasciati a loro stessi”. L’orario è un forte limite delle scuole medie, dove in genere le lezioni si limitano alla mattina e ci sono molti compiti. Per i ragazzi che conoscono poco l’italiano, studiare da soli il pomeriggio è un’impresa titanica. Disagio e lacune aumentano, accentuando il divario che li divide dai compagni. Molti alunni migranti hanno famiglie spezzate, esperienze traumatiche alle spalle, condizioni socioeconomiche difficili.

Ad accoglierli il pomeriggio, a Roma, sono spesso le associazioni di volontariato, a volte nate dai genitori italiani, o i pochi spazi di aggregazione giovanile, che colmano le carenze della scuola pubblica: come CivicoZero (una cooperativa sociale partner di Save the children, a San Lorenzo, che si occupa di minori non accompagnati) o MaTeMù (dell’onlus Cies, all’Esquilino). Qui gli adolescenti trovano anche laboratori artistici e musicali e, soprattutto, amicizie e sostegno.

Con il bando Scuole aperte il comune di Roma quest’anno ha finanziato progetti per aprire le aule il pomeriggio: sono stati dati quasi due milioni di euro a 114 scuole. Un’offerta necessaria e utile per tutti gli alunni, non solo stranieri. Sono ancora poche, però, le scuole medie italiane che, come la Quintino Di Vona a Milano, nella zona multietnica di Loreto, sono aperte tutti i pomeriggi. “Abbiamo ottenuto dei fondi europei”, dice la dirigente Maria Chiara Grauso. “Offriamo ore di L2, aiuto nei compiti, lingue, sport, teatro, musica: tutto gratis o a costi minimi”. Dalla scuola, che ha un indirizzo musicale, è nata anche l’Orchestra multietnica Golfo Mistico.

Le aspettative e gli indicatori

Per un alunno migrante, i veri problemi cominciano dopo la terza media. “Che lavoro vorreste fare?”, chiedo alla ragazze della Borsi. “Il medico”, risponde Shila. “La farmacista, l’insegnante”, dicono altre. Le aspettative possono essere alte. Ma i numeri parlano chiaro sullo svantaggio degli alunni non italiani, comprese le seconde generazioni. In Italia, alle superiori (le secondarie di secondo grado) risulta in ritardo scolastico il 53,2 per cento degli stranieri contro il 16 per cento degli italiani. Il tasso di abbandono scolastico è tra i più alti in Europa (30,1 per cento, quasi il triplo degli italiani): uno su quattro non arriva al diploma. I giovani stranieri che non studiano e non lavorano (Neet) sono il 30,9 per cento.

Un pannello per le attività dedicate ai ragazzi e alle ragazze migranti nella cooperativa sociale CivicoZero, a Roma. (Carolina Rapezzi)

Anche se aumentano gli iscritti ai licei, gli stranieri si orientano verso l’istruzione tecnica (scelta dal 40,5 per cento contro il 29,8 per cento degli italiani) e professionale (20,5 per cento contro l’11,8 per cento): come emerge dalle ricerche sociologiche di Marco Romito e Gianluca Argentin sono gli stessi insegnanti a orientare verso percorsi ritenuti più “facili”.

In ogni caso, il passaggio alle superiori richiede uno studio più complesso, che è difficile affrontare con carenze linguistiche e formative. Inoltre, le ore di L2 sono poche e destinate solo ai ragazzi neoarrivati, mentre anche chi è qui da più tempo può avere ancora difficoltà. “Alle superiori, in genere, c’è meno supporto”, spiega Farinelli. “Una volta acquisita la lingua per la comunicazione quotidiana, non ci si preoccupa di insegnare la ‘lingua per lo studio’, ossia il linguaggio specialistico, indispensabile per capire, per esempio, un testo di scienze o di storia”. C’è chi non ce la fa e deve rinunciare ai suoi sogni. “Chi non arriva al diploma è fuori del mercato del lavoro qualificato: è un sistema al ribasso, che non valorizza i talenti”.

A MaTeMù tra le pareti colorate e i suoni della break dance, incontro Asma, una ragazza egiziana che studia allo scientifico. È molto brava in matematica, ma ha problemi in italiano e in latino. Cristina Gasperin, educatrice, la aiuta nei compiti: “Asma in casa parla arabo, il suo bagaglio di parole è inferiore a chi vive in una famiglia italiana. Non si può valutarla con gli stessi criteri degli altri. Si dovrebbe considerare che alcune persone sono multilingue e che questa è una ricchezza, in modo da trovare altre forme di valutazione. Lei ha una fortissima volontà, si impegna al massimo: una scuola che non riconosce tutto questo è ingiusta e discriminatoria”. Sono casi diffusi. “Un mio ex alunno cinese suonava il violino e si era iscritto al liceo musicale”, ricorda un insegnante di Prato “Era molto dotato, appassionato, ma i professori gli dissero: quest’anno ti bocciamo, il tuo livello di lingua non è sufficiente. L’hanno convinto a cambiare scuola”.

Secondo Farinelli “nella scuola italiana non si valorizza il bilinguismo, che è un vantaggio cognitivo. Usare per gli studenti stranieri categorie come quella dei bisogni educativi speciali (Bes), medicalizza la differenza, crea uno stigma. Il rischio è che il sistema educativo riproduca e accentui le disuguaglianze”.

“È una delle grandi battaglie del terzo millennio: dare a tutti l’opportunità di fare il proprio percorso, al di là delle provenienze”, osserva Alessandra Minerbi, insegnante alla Quintino Di Vona a Milano. “O la scuola diventa davvero il luogo in cui tutti hanno le stesse possibilità, come recita la costituzione, o abbiamo fallito”.

Questo articolo è stato realizzato con il sostegno del Journalismfund Europe.
Alcuni nomi di ragazze e ragazzi sono stati cambiati.

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