Il 14 luglio un gruppo di attivisti è entrato allo stabilimento Twiga, nella riviera della Versilia in Toscana, e ha fatto rimuovere tutti i lettini dalla battigia. I cinque metri di terra che precedono il mare devono essere infatti sempre liberi e accessibili a tutti. Il Twiga (di cui fino al 2022 l’attuale ministra del turismo Daniela Santanchè deteneva una quota della proprietà) è uno dei 683 stabilimenti balneari che occupano quasi tutto il litorale della Versilia, meta del turismo di lusso, con file di costosi lettini e ombrelloni. Meno del 10 per cento delle spiagge in questa zona è libero: si tratta di piccole strisce di sabbia tra gli stabilimenti a pagamento.

Secondo Legambiente tutte insieme non arrivano a un chilometro di lunghezza. “Ho cominciato a fare attivismo quando mia figlia era piccola: non riuscivo a portarla al mare”, spiega Matilde Balatresi Nocchi, che ha guidato la spedizione al Twiga. Ogni anno, dal 2019, il 14 luglio gruppi di cittadini si incontrano in diverse località marine italiane per “la presa della battigia”, un appuntamento indetto dal Coordinamento mare libero, di cui Nocchi fa parte, per difendere il diritto all’accesso al mare.

Il nodo delle concessioni balneari

La data è stata scelta non solo per via dell’anniversario della presa della Bastiglia: il 14 luglio è anche la ricorrenza della sentenza della Corte di giustizia europea che nel 2016 ha dichiarato illegittime le proroghe delle concessioni balneari, che vanno assegnate tramite un bando pubblico. Da allora ogni estate la questione torna d’attualità: nonostante la sentenza europea, nel 2018 il governo ha rinviato la scadenza delle concessioni al 2033, ma nel 2021 il consiglio di stato è intervenuto e ha imposto la scadenza al dicembre 2023, confermandola dopo che l’attuale governo ha tentato di introdurre un’altra proroga fino alla fine del 2024. L’associazione di categoria Sib-Confcommercio ha presentato un ricorso alla corte di cassazione e l’udienza è stata fissata per il 24 ottobre.

Un altro nodo su cui si discute da anni riguarda l’adeguamento dei canoni concessori che sono scarsamente redditizi per l’erario dello stato. In un documento del 2018 il ministero delle finanze sollevava la necessità di una revisione complessiva del sistema delle concessioni demaniali, scrivendo che “i canoni imposti non sono, in numerosi casi, correlati agli ingenti fatturati e profitti che i beni dati in concessione producono in capo ai concessionari”. A partire dal 2021 il ministero delle infrastrutture ha aggiornato i canoni balneari introducendo una quota minima di 2.500 euro, aumentata a 2.700 nel 2022. Il governo sta mappando i beni dati in concessione e dovrebbe approvare una norma sulle concessioni balneari prima della loro scadenza a dicembre.

Intanto il costo per una settimana al mare quest’anno è aumentato del 19 per cento secondo Federconsumatori. Un’escursione costa il 20 per cento in più, l’albergo è rincarato del 28 per cento. Le prenotazioni nei campeggi sono cresciute del 14 per cento. In Versilia, secondo i mezzi d’informazione locali, “spopolano le aree picnic” dove mangiare il pranzo al sacco. Secondo Federalberghi qui il tasso di occupazione degli alberghi a ferragosto era del 70 per cento, in discesa rispetto aall’87 per cento dell’anno scorso. I turisti stranieri aumentano mentre la domanda interna cala: del 4,4 per cento nel 2022, secondo l’Istat. Per chi se la può permettere, la vacanza al mare è ancora la prima scelta, ma qualcosa sta cambiando e non è solo colpa dei rincari.

Ondate di calore

“Quanto successo quest’estate è un campanello d’allarme”, ha dichiarato Marina Lalli, presidente di Federturismo Confindustria. “Ondate di calore sempre più frequenti e intense, nei prossimi anni potrebbero far cambiare le abitudini dei turisti, spostando la geografia delle vacanze verso destinazioni più fresche rispetto all’Europa meridionale”.

Nei primi cinque mesi del 2023 gli eventi climatici estremi sono cresciuti del 135 per cento rispetto al 2022, con 122 fenomeni meteorologici che hanno causato danni soprattutto in Emilia-Romagna, Sicilia e Piemonte.

Il 16 luglio è andato a fuoco il terminal A dell’aeroporto di Fontanarossa a Catania e, con 40 gradi, la città è rimasta senza corrente e acqua. Il 25 luglio l’aeroporto di Palermo è rimasto chiuso per alcune ore. Alla fine di luglio in Sicilia si contavano 48 incendi, a ferragosto 16.

Spiaggia del Kaos, tra Agrigento e Porto Empedocle, luglio 2023. L’area è sottoposta a frane e smottamenti causati dall’azione erosiva delle maree. (Angelo Scelfo)

Secondo i dati dell’Osservatorio città clima di Legambiente dal 2010 al giugno del 2023 nei comuni costieri italiani ci sono stati 712 eventi meteo-idrogeologici e idraulici, come alluvioni, cicloni, crisi idriche e ondate di calore. Si tratta del 41 per cento di 1.732 eventi di questo tipo in Italia, concentrati in appena 240 dei 643 comuni costieri. Le regioni più colpite sono quelle preferite per le vacanze al mare: Sicilia, Puglia, Calabria e Campania. Le coste spariscono mangiate dall’innalzamento del livello del mare dovuto al riscaldamento climatico. La temperatura dell’oceano aumenta senza sosta dal 1970 per via delle attività umane, secondo l’Intergovernamental panel on climate change (Ipcc), perché assorbe il calore in eccesso nel sistema climatico. E scaldandosi la sua acqua si dilata. L’aumento del livello del mare tra il 2005 e il 2015 è stato senza precedenti, con una crescita di 3,6 millimetri all’anno dovuto anche allo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia e dell’Antartide.

Nel luglio del 2023 la temperatura media globale è stata la più alta mai registrata dal 1940; il 31 luglio quella della superficie marina ha raggiunto un nuovo record, 20,96 gradi, secondo il sistema di monitoraggio europeo Copernicus. Di solito negli oceani si registrano le temperature più elevate a marzo: anche per questo il dato di luglio segna un’anomalia significativa. Già l’anno scorso il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) aveva lanciato l’allarme sul fatto che il Mediterraneo sta diventando “bollente”, con picchi superiori a 23 gradi in superficie.

Le spiagge scompaiono

“Senza interventi di mitigazione e adattamento, tra qualche anno buona parte degli stabilimenti balneari in Italia finirà sott’acqua” afferma Filippo Celata, geografo all’Università Sapienza di Roma e componente del direttivo della Società geografica italiana. Secondo Celata questo scenario si potrebbe presentare fra una trentina d’anni in quasi la metà delle spiagge italiane, “non solo per via dell’innalzamento del livello del mare, ma per i pesanti processi erosivi che le spiagge già subiscono da diversi decenni”. Celata ha applicato alle spiagge italiane le stime di erosione costiera al 2050 e al 2100 contenute in un recente studio pubblicato su Nature Climate Change. Secondo queste stime, già nel 2050 la superficie delle spiagge che rischiano di scomparire in Italia va dall’8 per cento, nelle ipotesi più ottimistiche, al 50 per cento, in quelle più pessimistiche. La stima si basa su uno scenario di riduzione consistente delle emissioni, uno scenario intermedio secondo la classificazione dell’Ipcc, descritto con la sigla Rcp 4.5 (representative concentration pathways, percorsi rappresentativi di concentrazione), in cui il livello del mare nel 2100 sarà cresciuto di 50 centimetri. Secondo il centro di ricerca nazionale Enea, quaranta aree costiere in Italia rischiano di essere sommerse nel 2100.

I risultati dello studio di Celata, che confluiranno nel rapporto annuale della Società geografica italiana Paesaggi sommersi: geografie della crisi climatica nei territori costieri italiani in uscita all’inizio del 2024, sono sconcertanti. L’ipotesi mediana di probabilità prevede la scomparsa di circa il 20 per cento delle spiagge italiane al 2050, ed è particolarmente drammatica in alcune regioni: la Sardegna potrebbe perdere il 38 per cento delle sue spiagge, la Sicilia, la Puglia e la Basilicata quasi un quarto delle spiagge. “Ovviamente sono previsioni soggette a errore e rappresentano l’ipotesi mediana di probabilità nello scenario per il quale i governi rispettino gli impegni presi e le temperature crescano solo di 1-2 gradi”, commenta il geografo.

Celata ha georeferenziato le spiagge a rischio scomparsa nei prossimi trent’anni, colorando di rosso quelle che subiranno un’erosione maggiore di cento metri, di arancio quelle con un’erosione maggiore di 50 metri. Sulla mappa la foce del Po è una grande macchia di punti rossi: tutta la costa dell’alto Adriatico, dove l’impatto dell’innalzamento del livello del mare sarà più drammatico, è costellata di punti rossi e arancio. Meno drammatica ma comunque preoccupante appare la situazione nelle Marche e in Abruzzo, lungo la costa meridionale della Sicilia e in quella orientale della Sardegna. A sud di Roma la costa del Lazio è tutta rossa e arancio, così come quella della Versilia dove c’è lo stabilimento Twiga.

Le parti di costa dove il mare si inoltrerà verso l’interno per più di cento metri includono alcune delle località più turistiche d’Italia. Jesolo, nella città metropolitana di Venezia, è la quinta località tra le prime 500 per valore aggiunto turistico, secondo una stima di Sociometrica, ed è nel cuore di una “zona rossa” a forte rischio di regressione del mare. Rimini, anch’essa in “zona rossa”, è al quinto posto della classifica di comuni più turistici.

Soluzioni troppo rigide

Pochi giorni fa è stata completata la fase di valutazione ambientale strategica necessaria all’approvazione del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc). La bozza era pronta dal 2017. Ma secondo Legambiente nel documento presentato dal ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica alla fine del 2022 il tema delle coste “è affrontato con un concetto ‘difensivo’ ormai decisamente superato”. “La parte del piano dedicata alle coste è molto vaga, ha una visione generale e teorica delle coste che si esplica semplicemente attraverso indicazioni ‘da manuale’”, spiega Michele Manigrasso, direttore dell’Osservatorio paesaggi costieri italiani di Legambiente. “L’adattamento ai cambiamenti climatici è legato al contesto e richiede una traduzione specifica nei diversi territori”.

Il piano contiene elenchi di possibili azioni per le coste. Ma si tratta di azioni difensive come la creazione di pennelli e barriere frangiflutti, insomma di strutture che produrranno un ulteriore irrigidimento delle coste”, continua Manigrasso. “Come hanno dimostrato le discipline che si occupano del mare e in particolare dei ‘conflitti’ lungo i bordi d’acqua, queste azioni non riducono il problema dell’erosione, anzi lo enfatizzano lungo segmenti di costa consecutivi”.

La linea di costa è mobile. “Più che una linea, è uno spazio”, osserva Manigrasso. L’edificazione delle coste interferisce con la naturale dinamica litoranea, peggiorando l’erosione costiera, che diventa un problema quando il mare incontra un ostacolo, perché le onde non riescono a scaricare l’energia e trascinano via la sabbia con la risacca. Le opere rigide di difesa dal mare tamponano l’erosione costiera localmente ma la spostano altrove, modificando le correnti marine e aggravando complessivamente il problema. “Serve una strategia di adattamento naturale al cambiamento climatico basato sull’arretramento gestito delle spiagge, bisogna ridare spazio alle dinamiche costiere naturali”, spiega Celata. “Quando parliamo di impatto al 2050 parliamo soprattutto di fenomeni erosivi precedenti al riscaldamento globale, quindi già in corso”, prosegue il geografo. “L’Italia non è un atollo nel Pacifico e non ha coste su un oceano. Ma le nostre coste sono più vulnerabili perché sono molto urbanizzate. Quindi in Italia gli scenari sull’innalzamento del livello del mare non sono drammatici come altrove, ma avranno un impatto importante perché le coste sono densamente costruite, sono rigide”.

Senza una strategia nazionale

La massiccia edificazione delle aree costiere è in gran parte dovuta al turismo balneare. Soprattutto dagli anni ottanta il fenomeno delle vacanze di massa nelle spiagge è diventato un fenomeno distruttivo, scrive il giornalista Alex Giuzio, autore di La linea fragile (Edizioni dell’asino, 2022).

Nato nell’ottocento come pratica salutista, cresciuto nell’epoca fascista, esploso negli anni sessanta, il turismo balneare ha modificato profondamente il paesaggio con la costruzione di colonie marine, villaggi vacanza, alberghi, pensioni, seconde case, villette, linee ferroviarie e porti turistici. Oggi la densità degli edifici lungo la fascia entro i trecento metri dal mare è doppia rispetto alla media nel resto della penisola, scrive Giuzio. Qui non c’è stata alcuna pianificazione perché “lo stato ha sempre demandato la gestione delle coste ai piani regionali e comunali che hanno dato priorità alle esigenze del turismo di massa anziché a quelle di un ambiente molto delicato”.

La spiaggia di Eraclea Minoa, provincia di Agrigento, luglio 2023. (Angelo Scelfo)

I comuni, a loro volta, hanno demandato la gestione delle spiagge ai privati, di fatto assegnandogli non solo l’erogazione di servizi ma la gestione ambientale delle coste, per la quale manca una strategia nazionale. Tra il 1998 e il 2015 il 90 per cento di 4,5 miliardi di euro spesi per la protezione delle coste è riconducibile a spese per interventi emergenziali, scrive Giuzio. L’Italia spende milioni di euro per il ripascimento delle spiagge, con il trasporto e il versamento di carichi di sabbia. Ma serve a poco. In alcune zone di Jesolo la costa è già arretrata di 300 metri. Qui “l’azione erosiva è talmente accentuata che si possono perdere alcuni metri di spiaggia in poche ore, come successo all’inizio del settembre 2020, nonostante il ripascimento effettuato nell’autunno precedente”, si legge nel rapporto annuale sulle spiagge di Legambiente. “Quest’anno gli stabilimenti a Cesenatico hanno tolto due file di ombrelloni”, racconta Giuzio. “Il comune di Cervia sta progettando l’innalzamento del lungomare per via delle mareggiate”.

Il miglior modo per ridurre il rischio di inondazioni è ridare spazio alla natura, ricostituire le dune e le zone umide e paludose, demolire le costruzioni. È quello che sta facendo il comune di Lecce con un Piano delle coste, approvato nel 2022, che prevede interventi di rinaturalizzazione degli arenili e la rimozione di manufatti rigidi. Il comune ha rivisto la percentuale di spiagge in concessione e ha destinato la maggior parte del litorale a spiagge libere e attrezzate.

Un’altra esperienza interessante è quella del comune di Rimini, spiega Manigrasso. Con il progetto Parco del mare il comune sta portando avanti interventi di adattamento e rigenerazione urbana con la ricostruzione dei cordoni dunali, l’elevazione della passeggiata rispetto al bagnasciuga, l’integrazione di soluzioni per il drenaggio dell’acqua, il progressivo ritiro delle attrezzature turistiche per ampliare la spiaggia. “L’innovazione è rappresentata dall’uso flessibile e reagente del suolo, dalla nuova topografia ripensata rispetto alle dinamiche dell’acqua”, ha scritto Manigrasso in un capitolo del saggio Coste in movimento (Donzelli 2022). Ma le esperienze di Lecce, di Rimini e di alcuni altri comuni sono eccezioni.

“La strategia di adattamento climatico non può essere demandata ai privati, e neanche può essere portata avanti da singoli comuni: ha bisogno di una gestione nazionale. Il tema delle concessioni balneari riguarda il recupero di uno spazio di governo pubblico, di gestione ambientale delle coste”, afferma Celata. Secondo Manigrasso una strategia nazionale potrà essere costruita con l’istituzione di un Osservatorio, previsto dal Piano di adattamento ai cambiamenti climatici, che funzioni da cabina di regia per coordinare gli enti coinvolti alle varie scale di governo, e dare concretezza al Piano nazionale, che è solo di indirizzo. “Questa sarà una fase strategica per approfondimenti territoriali specifici, per aggiornare i vincoli del piano che sono già obsoleti, perché basati su dati vecchi, e per tradurre le linee guida generali in scelte e azioni locali”, sostiene Manigrasso.

Il problema non riguarda solo il meccanismo di assegnazione delle concessioni balneari: a essere ormai insostenibile è il modello privatistico di gestione delle coste, basato sulla conservazione di privilegi economici e su un modello di turismo inadeguato alla nuova realtà. L’Italia non può continuare ad affrontare il cambiamento climatico con soluzioni di emergenza che peggiorano il problema, e poi con risarcimenti per il settore turistico quando questo si manifesta. Anche perché il costo dell’immobilismo politico, in un paese al centro di un “hotspot climatico”, come i climatologi definiscono il Mediterraneo, rischia di essere altissimo.

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