Alcuni recenti casi di cronaca e la loro narrazione hanno messo in evidenza una certa impreparazione dei mezzi d’informazione italiani nel trattare il tema dell’adozione: eccessi di retorica, terminologie scorrette, dettagli emotivi inutili e soprattutto un’assenza ingombrante, quella della voce della persona adulta adottata. In Italia esistono numerosi enti autorizzati e associazioni che si occupano di famiglie adottive, tuttavia la riflessione e le iniziative sulla persona adulta adottata sono assai più ridotte. Anche la politica si focalizza più facilmente sulla fase della pre-adozione (la preparazione dei genitori) che su quella post-adozione (le problematiche della persona adottata).

Per questo, raccontare le storie di persone adulte che sono state adottate può essere complicato. Ma i social network offrono delle piste interessanti. Per esempio su Tik Tok alcuni utenti raccontano la loro storia adottiva, ma sono visibili anche creator più strutturati come Arnold che sul profilo 4rnol4 ritrae la sua famiglia, composta dai genitori adottivi, dal fratello biologico a sua volta adottato e dalla sorella, anche lei adottata e disabile. Il marcato accento emiliano e i suoi modi scanzonati lo rendono immediatamente simpatico, del resto il messaggio che lancia è semplice e positivo: non ho mai subìto discriminazioni, se tu ti accetti ti accetteranno anche gli altri. Per fare una famiglia basta l’amore, suggerisce quasi in ogni suo video.

Serve consapevolezza

Invece, “l’amore non basta”, mi ha detto Espérance Hakuzwimana, la scrittrice e attivista nata in Ruanda e adottata da una famiglia di Brescia. “Nell’Italia del 2023 non potrai mai proteggere tuo figlio o figlia nera, se non sei nero o nera anche tu”, afferma l’autrice del romanzo Tutta intera e del libro per ragazzi La banda del pianerottolo. Secondo Hakuzwimana, che si occupa attivamente di adozione internazionale, in particolare di quella in famiglie di colore diverso da quello del bambino o della bambina adottata, serve una grande consapevolezza critica per adottare ed è necessario intraprendere un percorso che dura tutta la vita. “Non sono contraria all’adozione, come a volte è stato detto, anzi tramite gli enti mi capita di fare incontri con i genitori. In quei casi raramente parlo della mia esperienza che è stata fallimentare, anche perché non sarebbe utile”.

Lo scrittore Paolo Di Paolo a Pordenone, 2021. (Leonardo Cendamo, Getty Images)

A sentire le parole di Hakuzwimana viene in mente una scena di This is us, la serie tv che ha saputo raccontare, meglio di qualsiasi altro film o show televisivo, l’adozione che diventa “visibile” per il colore diverso del bambino e della famiglia adottiva: Randall (Lonnie Chiavis), un ragazzino nero undicenne dice al padre bianco (Milo Ventimiglia) che lo ha portato a giocare a golf in un country club, sottovalutando un po’ il disagio del bambino: “Papà, se non vedi il colore della mia pelle, non vedi me”.

Esistono due tipi di adozione, quella nazionale e quella internazionale. Ognuna delle due presenta le sue complessità, e ognuna, come mi spiega Monya Ferritti, presidente del Coordinamento nazionale di associazioni familiari adottive e affidatarie (Care), oggi sta cambiando molto velocemente. Quella che comporta più problemi dal punto di vista dell’integrazione, ma anche la più diffusa nel nostro paese, è quella internazionale. Uno dei motivi per cui in Italia ci sono tante famiglie adottive è senz’altro l’alta denatalità, ma la ragione per cui è tanto diffusa quella internazionale – molto più costosa rispetto a quella nazionale – potrebbe risiedere nel fatto che permette “una distanza di sicurezza” dalla famiglia d’origine, come mi suggerisce Hakuzwimana. “Perché invece non spendere i soldi per dare a quel bambino una vita migliore nel suo paese? Perché non sviluppare davvero il sistema delle adozioni a distanza?”, si chiede la scrittrice.

Nonostante la difficoltà degli iter burocratici, l’Italia è il paese d’Europa con il più alto tasso di adozioni, seconda nel mondo solo agli Stati Uniti, in base ai dati della Commissione adozioni internazionali.

In Italia si adottano tanti bambini nonostante norme più restrittive che altrove e basate sulla famiglia tradizionale

Tuttavia, quelle internazionali sono generalmente in calo ovunque, anche in Italia. Le criticità sono emerse già da diversi anni sia negli Stati Uniti sia in Nordeuropa: Belgio, Paesi Bassi, Svezia e Danimarca hanno proibito per legge l’adozione internazionale, dopo che alcuni movimenti avevano chiesto di cancellare questa possibilità, considerata colonialista e predatoria. In questi paesi la pressione delle associazioni ha portato all’istituzione di commissioni d’inchiesta che hanno portato alla luce anche numerosi casi di adozioni illegali avvenute negli anni settanta e ottanta.

Inoltre, alcuni paesi di provenienza dei bambini e delle bambine, come la Romania, l’Etiopia, la Cambogia o il Nepal hanno decretato a loro volta la fine delle adozioni dall’estero. “Se ci fosse una reale attenzione all’infanzia, andrebbero aggiustati i sistemi, non vietata l’adozione”, osserva Ferritti.

In Italia si adottano tanti bambini, molto più che in altri paesi nonostante le norme siano più restrittive e si basino su un modello di famiglia tradizionale: impossibile adottare un figlio o una figlia per una coppia omosessuale, per una persona single e anche per una coppia eterosessuale non sposata. Inoltre l’Italia, insieme al Lussemburgo, è l’altro paese europeo senza una legge che permetta di rintracciare le proprie origini genetiche. “Se tu lasci un bambino in ospedale il tribunale si attiva per rintracciare la madre. Se invece il neonato viene lasciato nella cosiddetta culla della vita non c’è questa possibilità”, mi spiega Ferritti. “Non resta che rintracciare i genitori biologici sui social network, ma in quel caso si è molto esposti e non esistono intermediazioni. Io prenderei esempio dalla legge francese, secondo cui si ha la libertà di cercare la propria famiglia biologica, e per avere aiuto ci si può rivolgere a una specifica istituzione pubblica”.

A sinistra: Devi Vettori. A destra: Roberto Cecchini. (Dr)

Aggiunge Espérance Hakuzwimana: “È assurdo togliere ai figli la possibilità di sapere chi sono i genitori biologici. Quando adotti un bambino adotti anche la sua storia. Piuttosto bisogna chiedersi: che cosa ha fatto la società per quel bambino? Perché ci sono questi livelli di disagio? E in tutti i casi l’adozione è un trauma composto da una quantità di lutti infiniti. In più devi per forza provare gratitudine per la vita che hai vissuto”.

Gratitudine e approvazione

Una delle prime cose che ho capito dell’adozione è che ognuno ci fa i conti a modo suo, ma che per tutte le persone adottate c’è un lutto preesistente e che nessuno le aiuta a elaborarlo. Anche il tema della gratitudine è centrale.

“La gratitudine verso i propri genitori è incongrua”, mi dice lo scrittore Paolo Di Paolo. “Sono la mia famiglia e semplicemente voglio bene alla mia famiglia. Non ho rancore né frustrazione dell’abbandono. Ho vissuto la mia adozione senza nessun senso di disappartenenza. Né ho mai provato curiosità verso le mie origini. Da bambino mi sono sempre immaginato una signora con un cappotto rosso che mi ha lasciato ai miei genitori a cinque mesi. Sono certo che questa idea di vita potenziale – immaginare una vita che avrei potuto vivere – sia finita nei miei romanzi. Ma non in una chiave dolorosa”, continua lo scrittore romano, 40 anni, che ha pubblicato Lontano dagli occhi (Premio Viareggio Repaci 2019).

Di Paolo prosegue spiegando che ad avergli creato “una sorta di complesso identitario” è stata semmai la paternità, la nascita della figlia. “Lì ho sentito di avere una storia negata. Riconoscere che sia la prima persona al mondo che mi somiglia, vedere i suoi tratti genetici è una cosa che mi strugge perché mi chiedo: a chi somiglia? Quei tratti mi spingono verso un vuoto, un vuoto che non ha facce e io mi sento in difetto perché le consegno una storia monca”.

La convinzione generale è che più si è piccoli al momento dell’adozione più è facile è il percorso adottivo, ma in realtà il fardello è uguale

Spesso, inoltre, essere stati adottati significa andare in cerca di approvazione della tua famiglia adottiva.

Di nuovo, nella serie tv americana This is us, è chiaro fin dall’infanzia di Randall che, proprio perché è adottato, deve eccellere rispetto ai suoi due fratelli. Randall è quello di maggior successo, quello più accudente, quello più inserito nella società, anche quello che ha più risorse o riesce a usarle al meglio.

Devi Vettori è una formatrice e presidente e co-fondatrice dell’associazione Legàmi adottivi. “Lavorando con i gruppi e con gli adulti adottati diventa chiaro che si tratta di persone che hanno da un lato maggiori risorse, per esempio nei lavori di cura; dall’altro hanno, abbiamo, un trauma evidente che spesso emerge contemporaneamente ai lutti o alle separazioni. Ho notato che le persone adottate faticano a rompere i legami come anche a instaurarli: da un lato hanno la paura di essere abbandonate, più forte che nelle persone non adottate, e dall’altro una paura a legarsi”. Vettori preferisce non raccontarmi la sua storia adottiva perché ne ha già scritto a più riprese e perché non vuole essere identificata solo con la sua biografia.

Il suo Tedx talk Il tabù dell’adozione affronta con grazia alcune criticità sulla narrazione adottiva. “L’adozione”, mi spiega, “è raccontata in maniera completamente sbagliata nei casi di cronaca. E poi ci occupiamo tanto dei bambini ma poco degli adulti. Lo conferma il fatto che si usa sempre l’espressione ‘figli adottivi’ e non ‘persone adottate’. Io, per esempio, se mi devo relazionare a qualcuno non mi penso come figlia adottiva ma come madre dei miei figli.”

La convinzione generale è che più si è piccoli al momento dell’adozione più è facile è il percorso adottivo, ma in realtà il fardello è uguale. “Il punto è preparare le persone, formarle. È un grosso tema sociale. Oggi, in percentuale, sono più gli adulti che cercano la famiglia d’origine rispetto a quelli che non la cercano. Ma sono lasciati soli. L’associazionismo poi, come sempre, è un’arma a doppio taglio perché questo fa sì che lo stato non si faccia carico il problema”, continua Vettori.

Né a casa né straniero

A tutti sarà capitato almeno una volta nella vita di incontrare o stringere amicizia con persone adulte adottate e magari avere un certo pudore nel domandare della loro storia o al contrario di fare domande inopportune. Se ogni storia adottiva è diversa dall’altra, se ci sono adozioni fallimentari e altre di successo, la storia di Roberto Cecchini è esemplare perché contiene tanti elementi importanti.

Roberto è nato in Brasile, è stato adottato a due anni e mezzo. Mi racconta di non aver mai subìto discriminazione per il colore della sua pelle, cosa che sicuramente lo ha aiutato: “Ho la carnagione scura, ma potrei tranquillamente essere scambiato per un italiano”.

“Da bambino avevo il rifiuto del Brasile, anche del suono della lingua, avevo anche buttato via dei libri che i miei genitori mi avevano regalato”, racconta Roberto che oggi lavora come impiegato al teatro Parioli a Roma. Quando ha compiuto vent’anni ha deciso di recuperare il passaporto brasiliano, è andato all’ambasciata, ma gli hanno detto che per ottenerlo servivano documenti che il padre adottivo non aveva. “Quella ricerca mi ha scatenato vari pensieri. Ho scoperto di essere stato in un orfanotrofio che era in realtà una specie di carcere minorile”. Quando è riuscito finalmente a partire per il Brasile aveva quasi 30 anni. La prima volta è andato a Maceió, capitale della Alagoas e si è messo sulle tracce della famiglia biologica, per poi scoprire che il certificato di nascita era falso. Dopo un esame del dna ha avuto la conferma che la donna rintracciata non era la madre biologica. “Come mi sono sentito in Brasile? Né a casa né straniero. È stata un’esperienza, bella, forte, è durata sei mesi”.

L’anno successivo Roberto è tornato in Brasile per un anno, questa volta a Salvador de Bahia per collaborare con un’associazione che si occupa di bambini di strada e li aiuta nel loro contesto, senza toglierli dalle famiglie. Roberto si è trovato di fronte due esperienze: la sua, ragazzo di strada, “salvato” e adottato da una famiglia italiana, e quella dei ragazzini con cui ha lavorato. “Dai colleghi dell’associazione mi sono sentito a volte giudicato, non è stato sempre facile. Comunque, è stata un’esperienza importante. Alla fine, è arrivata la risposta alla domanda che mi tormentava, sicuramente una risposta ‘occidentocentrica’. Meglio il mio destino, con tutti i traumi possibili, che se fossi rimasto in Brasile”.

“Mi sono chiesto anche un’altra cosa: se la mia omosessualità sia nata da un trauma, ma non ho una risposta. I miei genitori adottivi non mi hanno mai ostacolato in questo, ma nemmeno aiutato”. Roberto chiude il cerchio dicendomi un’ultima cosa: gli piacerebbe molto adottare un figlio. “Forse se vivessi in Brasile lo farei. Quando ho scoperto che lì la legge lo permette sono rimasto stupito, ma anche molto contento”.

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