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Le cose che l’Italia può fare invece di chiudere i porti

Migranti soccorsi al largo delle coste libiche, il 27 giugno 2017. (Lena Klimkeit, Ap/Ansa)

Il 2 luglio i ministri dell’interno di Italia, Germania e Francia si sono incontrati a Parigi insieme al commissario europeo Dimitri Avramopoulos per discutere delle nuove richieste italiane in materia d’immigrazione, che saranno presentate al vertice dei 27 ministri dell’interno dell’Unione europea a Tallin, in Estonia, il 6 e 7 luglio. Nel piano presentato, Roma ha chiesto agli altri paesi europei d’introdurre dei limiti per le organizzazioni non governative che soccorrono i migranti nel Mediterraneo centrale e più finanziamenti per affidare alla guardia costiera libica il pattugliamento delle coste del paese nordafricano da cui parte la maggior parte delle imbarcazioni di migranti dirette in Europa.

Chiudere i porti italiani non è mai stata una possibilità. Nell’ultima settimana il presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni e il ministro dell’interno Marco Minniti hanno chiesto ripetutamente ai partner europei di avere un ruolo più importante nella gestione del fenomeno migratorio. “Alcuni paesi devono smettere di girare la faccia dall’altra parte sull’immigrazione”, ha detto Gentiloni il 29 giugno a margine dell’incontro dei leader europei a Berlino in preparazione del G20 di Amburgo. Il premier italiano ha chiesto agli altri capi di stato europei di rispettare gli accordi stipulati nel 2015 che prevedevano il ricollocamento secondo un sistema di quote di 160mila richiedenti asilo. Gentiloni ha fissato un ultimatum di una settimana, ventilando la possibilità che l’Italia possa mettere in atto delle ripercussioni, se non si troverà un accordo sul ricollocamento dei richiedenti asilo.

Sulla stampa italiana e internazionale è stato dato largo spazio all’idea di una possibile chiusura dei porti italiani alle navi delle ong, soluzione che è stata attribuita al ministro dell’interno Marco Minniti. Tuttavia in un’intervista al Corriere della sera, il ministro dei trasporti Graziano Delrio ha smentito questa possibilità: “Nessun porto chiuso, lo dico da responsabile della guardia costiera e delle operazioni di soccorso ai migranti. Non stiamo rinunciando a quei princìpi di umanità che l’Italia ha messo in campo con Matteo Renzi e Paolo Gentiloni”. Anche il viceministro degli esteri Mario Giro in un’altra intervista ha sostenuto la posizione del ministro dei trasporti: “Non rappresenta una soluzione chiudere i porti, come ha detto Delrio che è l’autorità delegata a questo provvedimento. La questione si risolve chiedendo agli altri paesi il rispetto dei patti, ci siamo stancati di ricevere complimenti senza però avere aiuti concreti”.

Come messo in luce da molti analisti, chiudere i porti a navi umanitarie è in contrasto con alcune norme del diritto internazionale che prevedono che le persone soccorse in mare siano trasportatr nel porto sicuro più vicino alla zona del salvataggio. “Se è vero, insomma, che un obbligo di autorizzare l’ingresso nel porto alle suddette imbarcazioni non pare direttamente deducibile, per l’Italia, dalle convenzioni Sar e Solas, è pur vero che la chiusura dei porti italiani implicherebbe necessariamente una serie di conseguenze sul piano del rispetto di norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati”, scrivono Francesca De Vittor e Pasquale De Sena dell’università Cattolica di Milano.

L’invasione che non c’è. I toni allarmistici del governo italiano sono stati in parte giustificati dall’aumento degli arrivi di migranti sulle coste italiane nei primi sei mesi del 2017. Da gennaio a giugno sono arrivate in Italia 83.360 persone, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Nello stesso periodo dell’anno precedente erano sbarcate 70.022 persone. C’è stato quindi un aumento degli arrivi del 18,7 per cento, che in numeri assoluti corrisponde a poco più di diecimila persone. Entro l’anno in Italia potrebbero arrivare più di 200mila persone, cifra già prevista dal sistema di accoglienza nazionale.

Se si guarda tuttavia ai dati europei, si riscontra un’importante diminuzione degli arrivi di migranti dal 2015 a oggi. Nei primi sei mesi del 2017 sono arrivate sul territorio europeo attraverso il Mediterraneo 95.768 persone, mentre nello stesso periodo dell’anno precedente ne erano arrivate 230.230. Questa drastica diminuzione è dovuta in gran parte alla chiusura della cosiddetta rotta balcanica, con il ripristino dei controlli alle frontiere di molti paese europei e la revoca delle regole di Schengen. Inoltre i governi europei nel marzo del 2016 hanno concluso un accordo con la Turchia per fermare le traversate di migranti dalle coste turche a quelle greche.

L’accordo prevedeva che tutti i migranti che avessero provato ad attraversare l’Egeo dopo il 20 marzo sarebbero stati rimandati indietro, misura che in parte è stata attuata grazie a una riforma della legge sull’asilo in Grecia, approvata nell’aprile del 2016, e alla sperimentazione di diverse procedure legali di emergenza, come documentato dal rapporto dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) Esperimento Grecia: un’idea di Europa. Se si osservano i numeri, quindi, sembra improprio parlare di invasione o di emergenza. La situazione di difficoltà e di pressione che il sistema di accoglienza italiano e greco si sono trovati ad affrontare nell’ultimo anno è stata provocata dal ripristino dei controlli alle frontiere interne dell’Europa e dall’inefficienza del sistema di asilo europeo e della ripartizione per quote introdotto dall’Agenda europea delle migrazioni nel 2015, più che da un aumento consistente degli arrivi.

Le responsabilità dell’Europa. Il governo italiano ha ottime ragioni per chiedere un maggiore sostegno dell’Unione europea nella gestione del fenomeno migratorio, in particolare per l’accoglienza dei migranti che negli ultimi due anni sono rimasti bloccati in Italia e in Grecia a causa dei limiti normativi del sistema d’asilo europeo.

L’Asgi ha commentato le dichiarazioni dei ministri italiani chiedendo di non confondere i soccorsi in mare con l’accoglienza: “Appare inaccettabile la confusione politica che introduce una distorsione tra il luogo nel quale si attua il primo soccorso e le successive responsabilità dell’accoglienza dei rifugiati una volta che i soccorsi sono conclusi”.

Secondo l’associazione, nella condizione attuale non è possibile applicare le norme imposte dal Regolamento di Dublino, il sistema comune europeo sull’asilo, che costringe il primo paese di ingresso in Europa a essere responsabile per l’esame della domanda di asilo. Gianfranco Schiavone dell’Asgi ha spiegato: “È necessaria l’adozione di un nuovo paradigma in base al quale la suddivisione dell’onere dell’accoglienza e della protezione dei richiedenti asilo non sia legata al mero fatto geografico dell’arrivo, bensì a un principio di equa ripartizione tra gli stati membri”.

Negli ultimi due anni infatti l’Italia e la Grecia si sono trasformati in paesi di arrivo, mentre in precedenza erano soprattutto paesi di transito per i migranti diretti in Nordeuropa, a causa di diversi fattori: il ripristino dei controlli alle frontiere interne, l’introduzione nel 2015 del cosiddetto approccio hotspot che costringe le autorità italiane e quelle greche a identificare e fotosegnalare tutti i migranti irregolari in un sistema comune europeo (Eurodac) e il fallimento delle politiche di ricollocamento introdotte dall’Agenda europea sulle migrazioni. Se il governo italiano vuole veramente riformare il sistema europeo d’asilo in una direzione di un sistema più equo e razionale agisca con massima fermezza sull’agenda politica europea e cessi le dichiarazioni inaccettabili rilasciate nelle ultime ore”, ha concluso Schiavone.

La riforma del sistema Dublino e l’applicazione dei ricollocamenti previsti dall’Agenda europea sull’immigrazione dovrebbero essere due strade da percorrere per ottenere il sostegno degli altri paesi europei sulla gestione dei flussi migratori. Ma alcuni analisti suggeriscono che anche aprire dei canali legali d’ingressoin Europa potrebbe aiutare l’Italia al tavolo delle trattative.

Il ricercatore Mattia Toaldo sulla rivista Refugees Deeply ha spiegato: “L’Europa può chiudere i canali illegali d’ingresso per i migranti, solo se aprirà dei canali legali. Le due cose vanno di pari passo […]Deve essere concepito un nuovo sistema che preveda la concessione di visti per lavoro, in cambio di accordi di rimpatrio con i paesi di origine”. Secondo Toaldo, infatti, c’è stato un aumento degli arrivi irregolari in Italia da quando nel 2002 i canali di ingresso legali (visti per lavoro, studio, ricongiungimenti) si sono ridotti con l’approvazione della legge Bossi-Fini (Testo unico sull’immigrazione) e le politiche di rimpatrio degli irregolari hanno mostrato la loro inefficacia.

Dalle pagine del Corriere della Sera Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di sant’Egidio, suggerisce un’altra strada: concedere la protezione umanitaria ai migranti arrivati in Italia che vogliono raggiungere altri paesi europei, in base alla direttiva europea 55 del 20 luglio 2001. “In virtù della direttiva del 2001, tutti i paesi europei si prendono una parte dei migranti e riconoscono loro la protezione temporanea”, afferma Impagliazzo. Il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del senato, suggerisce la stessa soluzione anche in assenza di un accordo del Consiglio europeo: “Nel 2011 il governo Berlusconi di fronte agli arrivi già allora consistenti di profughi provenienti dalla Tunisia concesse ‘un permesso di soggiorno per motivi umanitari’ della durata di sei mesi, rinnovato in seguito per un altro anno. Qualora una richiesta analoga del governo italiano al Consiglio europeo non venisse accolta, si potrebbe comunque procedere all’adozione a livello nazionale di un provvedimento simile a quello del 2011”.

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