Il Giro d’Italia in realtà sono due. Quando venerdì 6 maggio starà partendo l’edizione numero 105, cinque persone invisibili staranno lavorando alla successiva. Hanno dai 35 ai 65 anni, sono quasi tutte laureate e sono come i cartografi di questa grande avventura che tiene insieme la corsa vera e propria, l’attraversamento degli umori del paese e il racconto del romanzo popolare.

Noi vediamo il Giro che sull’asfalto corre dietro la maglia rosa, scalando le montagne e lottando contro il cronometro, un carrozzone di 180 corridori e duemila persone al seguito. L’altro, invisibile, vive la sottile fatica dell’arte di organizzare dentro un ufficio di Milano.

L’incastro delle tappe inizia con un anno e mezzo d’anticipo. Il lavoro sulle cartine che nell’antica Grecia faceva Anassimandro, adesso lo svolge un’applicazione in linguaggio Java. La mappa digitale su cui ogni volta prende forma il Giro, viene aggiornata in tempo reale con l’arrivo delle candidature da parte delle amministrazioni locali. È un fine gioco di equilibri e di regole impercettibili agli occhi degli spet­tatori.

Sulla strada

Il tracciato deve avere prima di tutto una sua logica sportiva, in modo che la corsa resti viva e in bilico fino alla terza settimana. Devono essere previste un certo numero di volate, quegli sprint di massa con il gruppo che ondeggia e si agita a 70 chilometri orari lungo strade piatte e veloci. Spesso si tengono nelle località di mare.

Deve esistere, poi, una seconda porzione di appuntamenti più movimentati, in certi angoli d’Italia dove le strade si impennano all’improvviso. Nel nord d’Europa li chiamano muri, perché somigliano a una parete che si pianta da un momento all’altro di fronte alla ruota anteriore della bicicletta, come certe rampe dei garage quando si mette in moto la macchina. Sono ingannevoli, i muri. Tradiscono. Qualche volta hanno un fondo sterrato, e se ne trovano risalendo l’Appennino. Si adattano ai corridori leggeri che hanno uno scatto solo da piazzare e conoscono l’attimo giusto in cui farlo. Sono asciutti, magrissimi. Nel gergo classico questi corridori erano detti finisseur. Nella lingua che si parla adesso tra ciclisti sono i fachiri.

La terza dose di strade è quella che tutti aspettano con più pazienza e amore, sono i tratti di montagna, le mulattiere verticali, oltre i millecinquecento e i duemila metri, dove si decide la classifica. Le Alpi, i nomi da leggenda accumulati dal 1909, lo Stelvio e il Pordoi, il Mortirolo e lo Zoncolan, forse la montagna d’Europa più assurda da scalare in bicicletta.

Sono in calendario nei fine settimana, perché sono i giorni nei quali c’è più folla per la strada e davanti alla tv. Otto milioni di persone all’incirca seguono dal vivo il Giro nell’arco di 21 giorni, sotto il sole o sotto la pioggia. Se ne radunano fino a 3 milioni per la diretta Rai, con uno share attorno al 22, 23 per cento nelle giornate che promettono sconquassi in classifica.

Quando si disegna una tappa su quelle cime, nei cassetti si conservano un piano B e un piano C, in caso di neve o di maltempo. Tutto segreto, segretissimo. Una copia delle alternative è solo tra le mani dei prefetti interessati.

La costruzione di un Giro d’Italia ha molte altre regole meno conosciute. Si può partire da una sede di tappa diversa dall’arrivo del giorno prima, ma il trasferimento deve essere distante meno di due ore. Si può partire dall’estero, ma solo ogni quattro anni è consentito dalle norme della federazione internazionale (Uci) di fare rientro in aereo. Accadrà quest’anno, con il via previsto in Ungheria. Il Giro va a recuperare la partenza da Budapest saltata nel 2020 per lo scoppio della pandemia. Per il 2023 si erano candidate la Slovacchia, la Turchia e il Marocco: a questo punto sono tagliate fuori. Sarebbe compatibile con i vincoli dell’Uci iniziare invece da Ginevra, a patto di rientrare in Italia in bici.

Ciclisti scendono dallo Stelvio durante la sedicesima tappa del centesimo Giro d’Italia, 23 maggio 2017. (Luca Bettini, Afp/Getty)

Si diventa una città del Giro a costi variabili, fino a 100mila euro per ospitare una partenza, anche 200mila per un arrivo. La storia recente della corsa segnala i sei milioni spesi da Israele per la prima tappa a cronometro da Gerusalemme nel 2018, oppure i 400mila versati dall’amministrazione comunale di Roma nello stesso anno per avere la ventunesima e ultima, con un danno d’immagine a causa delle strade dissestate.

Ci si candida con un modulo che è presente sul sito della corsa. Come vantaggi, nel breve periodo il Giro promette un aumento dei consumi, un incremento dell’occupazione e il sostegno di partner locali, mentre nel medio e lungo periodo promette visibilità mediatica, crescita della richiesta turistica, valorizzazione delle eccellenze locali. Il fatturato della corsa negli ultimi anni ha toccato i 70 milioni, la metà rispetto all’inavvicinabile Tour de France.

El Menador e altre scoperte

Mauro Vegni è il direttore del Giro d’Italia dal 2012. Prima governava le operazioni dietro le quinte. I francesi lo invidiano perché il territorio italiano consente più fantasia nel tracciare la mappa. “La nostra filosofia”, racconta Vegni, “è cercare sin dall’inizio tappe che portino entusiasmo. Un tempo si partiva con una serie in sequenza di arrivi piatti, con il rischio di perdere dei corridori per le cadute. Più è difficile il tracciato, più c’è attenzione. Un direttore del Giro deve avvertire una responsabilità morale nei confronti di ragazzi che gareggiano tra i pericoli della strada. Devo lavorare ogni giorno con la consapevolezza di avere tra le mani la salute di 150 uomini. È un peso rilevante”.

Ogni anno, sulla mappa digitale, i cartografi del Giro fanno in modo che brillino una località mai toccata o una strada mai vista. Si occupano personalmente dei sopralluoghi. Un conto è il desiderio di attraversare un territorio, un altro è poterlo fare per davvero. Certe montagne del cuneese sono il simbolo dell’inaccessibilità. Arrivi in cima e non sai come scendere. Il colle Fauniera, per esempio. Oppure le montagne dell’Oltrepò Pavese, tra la Lombardia e l’Emilia, come il passo del Brallo o quel paradiso per astronomi che è il passo del Giovà.

“Un direttore del Giro d’Italia”, scherza Vegni, “non può permettersi di avere vertigini. Faccia una volta il Gavia scendendo dal versante di Ponte di Legno: anche andando giù piano, c’è da avere paura. Le ruote della macchina sono sempre vicino al ciglio della strada, senza parapetto, le nuvole sopra la testa, i ciclisti che arrivano da dietro e gridano: ‘Oh accelera, sbrigati, mica posso passare sopra’. Ora, non voglio dire che una volta arrivato giù mi faccio il segno della croce, ma di certo sospiro”.

Gli autisti che seguono la carovana devono aver frequentato un corso speciale e possedere una certificazione di qualità. Si circola obbligatoriamente con i fari accesi, l’uso delle luci di emergenza è vietato, le macchine stanno tutte sul lato destro della strada, le moto in fila sulla sinistra. Per ogni spostamento di posizione serve l’autorizzazione dei commissari di gara.

Vegni dice: “Il 90 per cento dei luoghi che ho attraversato grazie al Giro, non li avrei mai visti, se non fossi stato il direttore”. Tra le strade del 2022 mai percorse prima, ce ne sono di sorprendenti. La tappa del 14 maggio a Napoli è un omaggio a Procida, capitale della cultura. Ma chi pensa a una passerella sul lungomare è fuori strada. Per arrivarci, lasciandosi il magma sulfureo dei Campi Flegrei sotto le ruote, bisognerà issarsi lungo un tratto cittadino poco noto, mai battuto, una pugnalata nelle gambe che sta davanti all’istmo dell’isola di Nisida, verso capo Posillipo. Uno strappo breve e affascinante.

I giornalisti che hanno raccontato questo sport hanno avuto spesso il profilo dei narratori di storie

Quattro giorni prima la corsa sarà stata sull’Etna, passando per la prima volta da Biancavilla, una lastra di magma tra le grotte laviche. Dalla Calabria verso Potenza, avrà attraversato le cosiddette Dolomiti lucane, andando per la prima volta tra il bosco di faggi e le piste di sci sulla Montagna Grande di Viggiano.

Il Giro è scoperta e avventura, celebrazione e memoria. Nessuno è mai stato prima al monte Becco, verso Genova, dove la corsa passerà per il nuovo viadotto San Giorgio, con un passaggio che vuole ricordare le vittime del ponte Morandi. Il Trentino ha scelto la vetrina della maglia rosa per presentare all’Italia il recupero della provinciale Monterovere, per anni non transitabile, una via militare, la Kaiserjägerstrasse costruita dagli austriaci, detta dalla popolazione El Menador: una bandella d’asfalto, con curve a gomito che portano fino a Lavarone. E sarà una scoperta il passo Tanamea, nella zona dei monti Musi del Friuli, in una zona quasi disabitata.

Per questo il ciclismo è ogni giorno un romanzo in cerca d’autore. È lo sport più letterario d’Italia. Racconta un’odissea quotidiana: c’è qualcuno che va da qui a là come il vecchio Ulisse, c’è qualcuno che lungo la strada esercita l’attesa, come aspettava Penelope. Al Giro sono stati Dino Buzzati e Vasco Pratolini, Anna Maria Ortese e Manlio Cancogni. Andavano come inviati dei giornali.

Nel dopoguerra, il mondo delle lettere italiane e l’editoria ufficiale snobbavano ancora lo sport. Era uscito troppo compromesso dal ventennio del regime fascista, sporcato da una prossimità che spesso era stata collusione, con la nazionale di calcio che iniziava le sue partite ai Mondiali facendo il saluto romano; con il pugile Primo Carnera, usato per la propaganda della superiorità della razza, finché non cominciò a perdere. I giornali furono i supplenti in quel vuoto, con le loro pagine sportive. Nacque un linguaggio nuovo. Di ciclismo hanno scritto Giovanni Arpino e Pier Paolo Pasolini (“Il ciclismo è lo sport più popolare perché non si paga il biglietto”). Le grandi firme italiane di questo sport hanno tutte avuto un profilo da narratori di storie. Andavano oltre la cronaca della tappa, da Gianni Brera a Mario Fossati, fino ai più vicini a noi: Gianni Mura, Claudio Gregori, Marco Pastonesi. I vecchi suiveur – i cronisti al seguito delle corse – ricordano di quella volta che il poeta Alfonso Gatto iniziò a dettare il suo pezzo per l’Unità dicendo: “Ha vinto lo spirito”. Dall’altra parte lo interruppero: “Che dici, compagno? Ha vinto Coppi”.

Fuori dal frigorifero

Da qualche anno, le telecronache della Rai al Giro accompagnano alle vicende della corsa il racconto del paese, affidato allo scrittore toscano Fabio Genovesi, premio Strega Giovani nel 2015 con il romanzo Chi manda le onde. Genovesi cerca pezzi d’Italia nascosti tra le pieghe di associazioni e comitati, preoccupato del fatto che “alle istituzioni preme promuovere solo il mangiare e il bere. Come se l’Italia fosse un grande frigorifero o una trattoria”.

“Mi interessano”, racconta Genovesi all’Essenziale, “quelli che stanno fuori dal gasteropolio. L’umanità. L’Italia uscita frastornata da questi due anni, come tutto il mondo, ma che ha voglia di inventarsi una soluzione. La bellezza da noi è sempre frutto di momenti, più che di progetti. La bellezza improvvisa”. “Il Giro”, prosegue, “unisce le generazioni. Io trovo molto poetici quei signori avanti negli anni che si vestono bene per andare a vedere la corsa in strada. Mettono la giacca perché deve passare il Giro. Non è commovente? E poi vedo molte ragazze, che un tempo erano rare tra i cicloamatori. I ventenni si stanno riavvicinando perché la bici la usano. Il ciclismo ha saltato una generazione, la mia, quella dei quarantenni, cinquantenni, troppo appiattiti sul calcio”.

L’amore per il ciclismo è amore per la semplicità. “È uno sport fatto di cose elementari. Non è un gioco, come quelli con la palla”, dice ancora Genovesi, “ma è una faccenda della vita. Nel calcio non puoi prendere la palla con le mani, esistono delle regole, io per esempio il fuorigioco non l’ho mai capito. La corsa la capisci. È la tragedia greca, propone i sentimenti essenziali, ci trovi dentro la fatica, la speranza, il pericolo. Ci sono il caldo e il freddo, la sfortuna della foratura, il dolore se cadi. In una corsa di ciclismo ci trovi tutto quello che sta dentro Moby Dick”.

Uno scrittore sta comodo, in un posto così. “Sei sempre in movimento”, spiega Genovesi, “e fai un viaggio strano nel quale la mattina ti svegli nella neve, in cima ai monti, al pomeriggio sei su un altopiano sperduto, la sera dormi sul mare. Non c’è spazio per la noia. Non è il basket o la pallavolo, che si giocano in un posto artificiale, costruito apposta. Le bici stanno per le strade, vanno per le campagne. Se sei in un palazzetto, che racconti? Potresti essere a Barcellona o Monaco di Baviera, dentro è uguale. Il ciclismo invece attraversa le persone”.

“Gli scrittori del passato”, conclude Genovesi, “si sbizzarrivano perfino di più. Ora si vede tutto dall’inizio alla fine, c’è meno margine per l’invenzione. La corsa ai loro tempi non andava in tv e neppure la vedevano del tutto sulla strada. Dovevano lavorare con la fantasia. Io sono certo che molte cronache che ci tramandiamo non siano veramente accadute. Però che fa?”.

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