Non ha dubbi, Francesco Armenio, trent’anni. La sua vita e le sue prospettive di futuro rispetto a quella dei suoi genitori sono nettamente peggiorate: lavora da un anno in una scuola privata di Roma, insegna storia e filosofia a studenti delle superiori. Un contratto di collaborazione: co. co. co. Niente malattia, niente ferie pagate.

Lavora come un dipendente, ma viene pagato a ore, senza nessuna tutela. Un contratto da settembre a giugno, ventotto ore settimanali, poi si vedrà. Anche se ha degli orari di lavoro precisi e un rapporto di tipo subordinato, ha un contratto di collaborazione e uno stipendio che varia da un minimo di trecento euro al mese a un massimo di 1.100 euro, a seconda delle ore lavorate.

“A settembre ho lavorato metà mese e ho guadagnato 300 euro, a ottobre ne ho guadagnati 500. Dieci euro l’ora. Se sto male, salto giorni di lavoro, non guadagno. Le vacanze di Natale o di Pasqua chiaramente non lavoro e non percepisco lo stipendio”, dice Armenio. Anche gli altri colleghi lavorano nelle stesse condizioni, tranne un paio che hanno un contratto a tempo determinato. Armenio non potrebbe permettersi un affitto se non avesse una casa di proprietà: un monolocale di 35 metri quadrati che gli hanno comprato i genitori. “I miei genitori hanno eroso i loro pochi risparmi per aiutare me e mia sorella a costruirci un futuro”.

Con il suo stipendio riesce a vivere, a fare la spesa, a pagare le bollette. Poco altro. “A volte rinuncio a una birra con gli amici, se arriva una spesa imprevista è un disastro”, racconta. Quando ha scelto di fare l’insegnante, sapeva che lo avrebbe aspettato una lunga gavetta, fatta di salari bassi e precarietà.

“Le scuole paritarie sono piene di insegnanti molto giovani a inizio carriera, che fanno questa vita per fare punti e stare in graduatoria, sperando di avanzare e di entrare prima o poi di ruolo nella scuola pubblica”, racconta. Crede che dovrà fare questa vita per almeno dieci anni, conosce delle persone che sono state precarie per molto tempo. “Tutto sommato mi sento più fortunato di altri, ho un tetto e un percorso chiaro nella testa: so che prima o poi entrerò nella scuola, ma certo questa condizione non mi permette di fare progetti, d’immaginare un futuro”. Pensare al domani gli provoca frustrazione: “Mi piacerebbe fare dei figli, mettere su famiglia, ma non me lo posso permettere, temo di non avere soldi per mantenermi”.

Una storia lunga vent’anni

Era il 2006 quando lo scrittore Aldo Nove raccoglieva nel libro Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese gli articoli scritti per il quotidiano Liberazione: erano quattordici ritratti di lavoratrici e lavoratori precari, sottopagati, costretti a rimanere immaturi dal punto di vista emotivo per l’impossibilità materiale di costruirsi una stabilità economica e materiale e di immaginarsi un futuro. La Roberta raccontata da Nove era laureata, sognava di scrivere romanzi, insegnava in una scuola privata serale e diceva di non potersi permettere una famiglia, perché guadagnava 250 euro al mese. Una storia non troppo diversa da quella di molti lavoratori e lavoratrici italiani della stessa età, due decenni dopo.

Precarietà contrattuale e salari bassi sono due caratteristiche del mercato del lavoro italiano da vent’anni: la prima riforma che ha liberalizzato il mercato del lavoro è stata infatti il cosiddetto pacchetto Treu. Era il 1997.

Il 1 maggio in un video diffuso dopo il consiglio dei ministri la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha annunciato l’approvazione di una nuova riforma del lavoro che prevede, tra le altre cose, un’ulteriore liberalizzazione dei contratti a tempo determinato. Il cosiddetto decreto lavoro interviene sulla riduzione del cuneo fiscale, sull’eliminazione definitiva del reddito di cittadinanza e sull’ampliamento delle possibilità per prorogare i contratti a tempo determinato. Misure molto criticate dai sindacati.

Per Andrea Borghesi, segretario generale della Nidil Cgil (la categoria sindacale della Cgil che rappresenta e tutela i lavoratori atipici), il decreto lavoro annunciato da Meloni “permetterà alle imprese di tenere ancora più sotto ricatto i lavoratori”, di avere una specie “di pistola puntata” su chi ha un contratto a termine.

Nella precarietà vivono in Italia tre milioni di lavoratori (dati Istat). “Altri 300mila hanno tipologie di contratto di collaborazione parasubordinato, 300mila sono anche i lavoratori autonomi che svolgono un lavoro subordinato con la partita iva, dopodiché abbiamo qualche decine di migliaia di collaborazioni autonome occasionali. I rider fanno parte di questa categoria. Infine tutti i tirocini extracurricolari, che sono spesso usati non solo a scopo formativo”, spiega Borghesi.

Il lavoro povero

Secondo il sindacalista, l’Italia è già un paese in cui il lavoro precario riguarda una fetta importante della forza lavoro e da vent’anni s’interviene sempre nella stessa direzione, nonostante molti studi dimostrino che questa strategia sia fallimentare.

“Ci sono delle ricerche della Banca d’Italia e del Fondo monetario internazionale che dicono che gli interventi di liberalizzazione del mercato del lavoro italiano degli ultimi vent’anni non hanno aumentato né l’occupazione né la produttività. Inoltre l’uso diffuso di contratti a termine ha causato sul lungo periodo l’abbassamento dei salari. Se sono costretto ad accettare un contratto a termine o una collaborazione, limiterò le mie aspettative. Non consumo, non compro una casa, non metto su famiglia. Le conseguenze di questo tipo di politiche, quindi, riguardano non solo il lavoro, ma le forme che prende l’intera società”, conclude il sindacalista.

Borghesi spiega che la riforma del decreto lavoro interviene su un segmento del mercato del lavoro – i contratti a tempo determinato – che è già stato modificato molte volte nella storia recente: “Ogni tre, quattro anni cambiano le normative sui contratti a tempo determinato”.

Nella bozza che è circolata del decreto, (annunciato, ma non ancora pubblicato sulla gazzetta ufficiale) si interviene sulle causali che rendono possibile rinnovare un contratto a tempo determinato oltre la sua scadenza. “In assenza di una norma che garantisca la continuità occupazionale, questo di fatto determinerà un maggiore turn over dei lavoratori e permetterà alle aziende più libertà, senza garanzie per i lavoratori”.

Anche Tiziano Trobia, coordinatore delle Camere del lavoro autonomo e precario (Clap), è della stessa opinione. “Negli ultimi due anni l’occupazione è stata trainata dai contratti a tempo determinato. Questo decreto quindi percorre una vecchia strada, quella che sostiene che la precarietà favorisca l’occupazione”, afferma Trobia. “Ma ci si dovrebbe chiedere: di che tipo di occupazione stiamo parlando? Con quali salari?”.

La precarietà del lavoro è un fenomeno così antico nel contesto italiano che sono nati specifici sindacati per occuparsene come le Clap: “Dieci anni fa si diceva che era complicato sindacalizzare i lavoratori precari e autonomi, difficile metterli insieme in lotte unitarie intorno a comuni interessi, con gli strumenti classici del sindacato. Per questo all’epoca sono nate le Clap, ci siamo occupati di tutti quei settori in cui è molto diffuso il lavoro nero o il lavoro grigio. Spesso alcune tipologie di contratti precari infatti sono usate per coprire delle forme di lavoro grigio”.

Per Trobia l’obiettivo dell’ultima riforma del governo in tema di lavoro è quello di favorire certi settori come il turismo e le costruzioni in cui c’è molta precarietà, stagionalità e paghe molto basse. “In Italia ci sono 4,5 milioni di persone che sono povere, anche se lavorano. Questo è prodotto da questo tipo di interventi legislativi. Si dovrebbe invece intervenire sull’inflazione e sui salari”.

Maria Rosa Longo (nome di fantasia per tutelarne l’identità) è un’educatrice del nido e della scuola dell’infanzia di Livorno. Lavora dal 2007 con un contratto da educatrice, che viene rinnovato mensilmente dall’amministrazione locale. “Fino alla pandemia il contratto ci veniva rinnovato ogni tre mesi, dalla pandemia in poi questo avviene ogni mese, anche dopo la fine della crisi sanitaria”, racconta.

“Per un certo periodo addirittura il contratto ci scadeva ogni settimana. Poi è intervenuto il sindacato”, spiega. È il comune che tiene una ventina di lavoratori dei nidi comunali in queste condizioni. Longo racconta che non avrebbe potuto prendere una casa in affitto, se suo padre non avesse fornito delle garanzie per lei durante la stipula del contratto e che nei prossimi mesi proverà a fare concorsi pubblici fuori dalla sua regione per provare a stabilizzare la sua posizione, perché è stanca della precarietà, dopo sedici anni.

“Ma questo metterà a rischio il mio progetto familiare, il mio compagno infatti lavora a Livorno. Ma per migliorare la mia condizione lavorativa sto pensando di traferirmi, almeno temporaneamente”, racconta. Per Longo, la vita privata è stata completamente trasformata dalla sua precarietà lavorativa. “Non ho avuto figli, sono una persona autonoma e la scelta di fare figli me la sarei concessa solo in una condizione di stabilità economica e lavorativa, ma ci sono persone che non si concedono neppure di andare in vacanza qualche giorno per paura che il contratto non gli sia rinnovato”, spiega.

Ma i più precari a Livorno sono i portuali: dal 1 maggio una decina di lavoratori del porto in somministrazione presso la società Alp sono tornati ad avere contratti di lavoro di una giornata. Assunti la mattina, licenziati la sera. Alcuni di loro sono attivi sulle banchine livornesi da otto anni.

“Negli ultimi due anni questi portuali erano riusciti ad ottenere contratti con la durata continuativa di più mesi e con un numero minimo di turni garantiti. Una boccata d’ossigeno dopo anni con contratti di lavoro di un giorno”, ha scritto la Nidil Cgil in un comunicato. Ma “con il passare del tempo i turni mensili garantiti sono progressivamente scesi da venti a otto. E dal 1 maggio i contratti torneranno ad avere la durata di un giorno”, conferma il sindacato.

A Roma Giovanna Massaro, 25 anni, sta pensando di trasferirsi all’estero, se il suo contratto a tempo determinato dopo due rinnovi non si trasformerà in un indeterminato. Ha un contratto a tempo determinato part time a sei mesi come segretaria amministrativa in un centro medico privato, guadagna 750 euro al mese per ventiquattr’ore di lavoro a settimana. Per diversi anni ha lavorato in nero come cameriera e come baby sitter, ha dovuto lasciare gli studi perché non riusciva a permetterseli. “Ho accettato questo lavoro perché volevo un po’ di sicurezza economica, mi sono formata e nel corso dell’ultimo anno sono diventata indispensabile per l’azienda in cui lavoro, che tuttavia non mi vuole riconoscere una continuità”, spiega.

La precarietà lavorativa ha delle conseguenze, diventa esistenziale. “Vorrei un po’ di stabilità, potere programmare la mia vita, ricominciare gli studi. Se non si dovesse risolvere in maniera positiva la mia vicenda, sto pensando di andarmene. Lavorare così non ha senso”, conclude.

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