“È stata raggiunta un’intesa con la Commissione europea, così come previsto dai regolamenti europei, per la revisione del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Un importante successo che permetterà una gestione più efficiente dei fondi del Pnrr, per far fronte alle nuove necessità e priorità scaturite in seguito ai recenti eventi internazionali, come la guerra in Ucraina e il caro energia”. Recitava così una grafica pubblicata su Facebook il 31 gennaio, quasi cinque mesi fa, dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni. Quell’affermazione era falsa all’epoca e lo è tutt’oggi.

Nonostante le promesse fatte in campagna elettorale dalla coalizione di destra e i numerosi annunci di vari esponenti del governo, l’Italia non ha ancora presentato all’Unione europea una proposta ufficiale per la revisione del Pnrr. In questi mesi l’attuazione del piano sta avendo sempre più problemi: molti progetti sono in ritardo, i livelli di spesa sono più bassi delle previsioni, ci sono stati scontri con organismi indipendenti e la trasparenza non è ancora sufficiente.

Obiettivi in ritardo

Il Pnrr è finanziato dall’Ue con 191,5 miliardi di euro. Questi soldi, così come quelli destinati ai piani degli altri paesi, sono raccolti dalla Commissione europea contraendo prestiti sui mercati dei capitali, e la loro restituzione è garantita da tutti e 27 gli stati membri: per questo si parla di emissione di debito comune europeo. Quasi 60 miliardi di euro del Pnrr sono a fondo perduto e non dovranno essere restituiti, mentre 122,6 miliardi di euro sono prestiti. L’Italia avrà trent’anni di tempo per restituirli all’Ue con tassi di interesse più bassi rispetto a quelli con cui si finanzia sui mercati (ma comunque più alti rispetto a quelli del 2021).

Per ricevere i soldi del Pnrr l’Italia deve centrare ogni sei mesi una serie di scadenze e di volta in volta chiedere alla Commissione l’erogazione di una delle dieci rate. Ricordiamo che il piano contiene varie riforme, per esempio per migliorare la giustizia e la pubblica amministrazione, e investimenti per costruire infrastrutture, sostenere la transizione ecologica e digitale, e migliorare l’istruzione e la sanità. In totale il nostro paese dovrà raggiungere entro la fine di giugno 2026 527 tra traguardi e obiettivi. I traguardi (milestone) sono risultati qualitativi, come l’approvazione di una legge, mentre gli obiettivi (target) sono risultati quantitativi, come l’assunzione di un certo numero di personale in un determinato settore.

Fino a oggi l’Italia ha rispettato le scadenze per la prima rata (ultimi sei mesi del 2021) e la seconda (primi sei mesi del 2022). Alle fine dello scorso dicembre il governo di Giorgia Meloni aveva chiesto i 19 miliardi di euro della terza rata, dicendo di aver rispettato le 55 scadenze fissate per il secondo semestre del 2022. Ma la Commissione europea ha preso tempo per la sua erogazione. Tra le altre cose l’Ue ha contestato che i nuovi stadi di Firenze e Venezia fossero realizzati con i fondi del Pnrr, un finanziamento poi rimosso. Alla metà di giugno il commissario europeo agli affari economici Paolo Gentiloni aveva detto che la decisione definitiva sulla terza rata sarebbe arrivata entro la fine di giugno, ma non è stato così.

Non è in ritardo solo il raggiungimento delle scadenze: pure la spesa delle risorse fin qui ricevute è più bassa delle previsioni

Proprio entro la fine di giugno il governo doveva portare a termine 27 tra traguardi e obiettivi per chiedere i 16 miliardi di euro della quarta rata. Nella Relazione sullo stato di attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza, trasmessa il 7 giugno al parlamento, il governo però ha confermato che le scadenze non sarebbero state rispettate. Tra queste c’era l’aggiudicazione delle gare di appalto dei lavori per la costruzione di asili nido. Nella relazione il governo ha specificato che chiederà la quarta rata “in linea con i tempi” del processo di revisione del Pnrr. Da tempo infatti sono in corso le trattative con le autorità europee per la modifica del piano. In base ai regolamenti europei il Pnrr può essere cambiato in caso di “circostanze oggettive”, tra cui rientrerebbero i forti rincari delle materie prime e dell’energia registrati dal 2021 in poi.

Il governo ha tempo fino al 31 agosto 2023 per presentare una versione aggiornata del piano, che tenga conto anche delle risorse del programma RePowerEu, finanziato dall’Ue per ridurre la sua dipendenza energetica dalla Russia. Nella relazione trasmessa al parlamento si spiega che 118 su 527 tra traguardi e obiettivi hanno “rilevanti elementi di difficoltà nella loro realizzazione”. In parole semplici, circa una misura su cinque ha difficoltà causate dal già citato aumento dei costi, dall’impreparazione del tessuto produttivo italiano, e da difficoltà gestionali e amministrative. Tra le misure con più elementi di debolezza ci sono gli investimenti per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico.

Non è in ritardo solo il raggiungimento delle scadenze: pure la spesa delle risorse fin qui ricevute è più bassa delle previsioni. Finora l’Ue ha erogato all’Italia quasi 67 miliardi di euro tra prima e seconda rata e il prefinanziamento versato ad agosto 2021. Secondo il Rapporto 2023 sul coordinamento della finanza pubblica della corte dei conti, alla fine del 2022 i soldi spesi dall’Italia erano pari a 24,5 miliardi di euro, per la maggior parte destinati ai bonus edilizi e alla transizione 4.0, ossia agli incentivi con cui lo stato sostiene l’innovazione tecnologica delle imprese. Nei primi mesi del 2023 sono stati spesi invece solo 1,2 miliardi: tra il 2023 e il 2026, con il piano nella versione attuale, l’Italia dovrà spendere in media più di 41 miliardi ogni anno.

Lo scontro con la corte dei conti

All’inizio di giugno il governo ha limitato i poteri di controllo della corte dei conti sul Pnrr con il nuovo decreto sulla pubblica amministrazione, convertito in legge dal parlamento il 20 giugno, decidendo di escludere il piano di ripresa dal controllo concomitante svolto dai magistrati contabili. Il controllo concomitante è stato istituito nel 2009 con l’obiettivo di monitorare l’andamento dell’attuazione dei progetti pubblici e nel 2020 il secondo governo di Giuseppe Conte ha stabilito che andasse applicato anche ai “principali piani, programmi e progetti relativi agli interventi di sostegno e di rilancio dell’economia nazionale”. All’epoca il Pnrr non esisteva ancora, ma nel novembre 2021 la corte dei conti ha avviato il controllo concomitante sul piano, che rientrava tra i casi previsti dalla legge. Fino allo scorso 31 maggio la corte dei conti ha pubblicato 48 delibere dove ha passato in rassegna vari investimenti del Pnrr, e ha per esempio sollevato dubbi sulla realizzazione dell’obiettivo di piantare quasi 1,7 milioni di alberi entro il 2022 e di costruire almeno 40 stazioni di rifornimento a base di idrogeno.

Secondo il ministro Fitto e il governo, il controllo concomitante rischiava di rallentare l’attuazione del piano, una posizione criticata dal presidente della corte dei conti Guido Carlino, sentito in un’audizione alla camera il 1 giugno. Carlino ha spiegato che i controlli svolti in corso d’opera sul Pnrr avevano la “finalità specifica di accelerare gli interventi di sostegno e rilancio dell’economia nazionale”. Ora alla corte dei conti resta solo il compito di trasmettere ogni sei mesi al parlamento una relazione sullo stato di attuazione del piano, come stabilito nel decreto legge del maggio 2021 con cui il governo Draghi ha strutturato la gestione e il controllo sul piano (la cosiddetta governance).

Proprio sulla governance del Pnrr è intervenuto lo stesso governo Meloni, accentrando sotto la presidenza del consiglio la gestione del piano. Il governo Draghi aveva istituito una segreteria tecnica, che tra le altre cose doveva controllare che il Pnrr andasse per il verso giusto, e il servizio centrale, che presso il ministero dell’economia e delle finanze doveva fare da punto di contatto con la Commissione europea per l’attuazione del piano. Il governo Meloni ha eliminato la segreteria tecnica e ha depotenziato il servizio centrale, creando una nuova struttura di missione sotto la presidenza del consiglio, più nello specifico sotto l’indirizzo del ministro Fitto.

Senza il controllo concomitante della corte dei conti si rischia di avere meno trasparenza sull’attuazione del piano, i cui dati pubblicamente disponibili sono ancora lacunosi. Ad aprile l’associazione nazionale comuni italiani (Anci) ha inviato una lettera al governo denunciando tutti i limiti della piattaforma Regis, creata per raccogliere i dati sul monitoraggio di tutti i progetti finanziati dal Pnrr. Tra i vari problemi c’erano difficoltà nel caricamento dei dati e di accesso alla piattaforma per gli amministratori locali.

Rispetto ai primi mesi del 2022 qualche passo in avanti è stato fatto nella pubblicazione degli open data, disponibili su Italia Domani, il portale ufficiale del Pnrr. Ma non tutte le lacune sono state colmate. Alla fine di maggio la fondazione Openpolis, che cura il portale OpenPnrr, ha accusato il governo di confondere “la comunicazione politica con la trasparenza”. Tra le criticità principali rimangono “la mancanza dello stato di avanzamento dei progetti, le informazioni relative alle risorse effettivamente spese e la totale incertezza sulla frequenza di aggiornamento dei dati”.

Come detto, entro la fine dell’estate il governo dovrà presentare la proposta ufficiale di modifica al Pnrr e nel caso in cui l’Ue l’accettasse non ci sarebbero più scuse per rimandare la sua completa attuazione. La mancata realizzazione del Pnrr non avrebbe conseguenze negative solo sull’Italia: essendo il piano italiano quello di gran lunga più corposo tra tutti quelli degli stati membri, un suo fallimento metterebbe a rischio la possibilità in futuro di ricorrere di nuovo all’indebitamento comune tra i paesi europei.

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