Il decreto legislativo sulla cosiddetta presunzione d’innocenza continua a sollevare perplessità, soprattutto tra magistrati e giornalisti. Approvato a fine 2021, recepisce una direttiva europea e introduce nel nostro ordinamento alcune norme che limitano la comunicazione dei magistrati durante le indagini preliminari.

In questa fase l’unico a poter tenere i contatti con la stampa, secondo quel decreto, è il procuratore capo, il quale può divulgare informazioni sulle indagini in corso solo attraverso conferenze stampa pubbliche e comunicati stampa, nel caso in cui ritenga che ciò sia “necessario per la prosecuzione delle indagini” oppure che esistano “specifiche ragioni di interesse pubblico”.

Inoltre, nel dare informazioni alla stampa, il magistrato deve rispettare il principio di presunzione di non colpevolezza e dunque non deve utilizzare frasi che dipingano l’indagato come già colpevole. Infine, è vietato utilizzare nomi allusivi per le inchieste. Basta, quindi, con nomi come Angeli e demoni, come accadde per l’inchiesta di Bibbiano, o Mafia capitale come fu per l’indagine sulla criminalità romana.

Queste nuove regole verranno adesso rafforzate dalle novità contenute nel disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario in approvazione il 15 giugno al senato, secondo cui la loro violazione costituirà un illecito disciplinare a carico del magistrato.

Il pericolo di un bavaglio

Il decreto legislativo ha sollevato molte critiche. La principale è che queste norme costituiscano un bavaglio per i giornalisti, che non potranno più confrontarsi con i magistrati sulle indagini in corso. Inoltre, il decreto affida al procuratore capo un compito non suo: la valutazione sull’interesse pubblico di una notizia, che dovrebbe essere una prerogativa dei giornalisti non certo dei pubblici ministeri. Il timore è che in questo modo molte notizie non saranno più portate a conoscenza e dunque sottoposte al controllo dell’opinione pubblica, con il rischio di abusi e di opacità.

Le critiche hanno un fondamento. Il decreto legislativo, infatti, permette ai magistrati di sottrarsi alle domande dei giornalisti, opponendo loro il silenzio sul corso delle indagini, non permettendo così la verifica delle notizie. Inoltre, affida impropriamente agli stessi magistrati la valutazione sulla cosiddetta notiziabilità dei fatti, se insomma determinati avvenimenti e circostanze siano o meno da considerarsi una notizia.

Eppure è necessario chiedersi come si sia arrivati a queste nuove norme così severe. E, soprattutto, se davvero questo decreto legislativo, al di là della facciata, risolverà il problema per cui è stato scritto: quello della cosiddetta gogna mediatica per gli imputati e per gli indagati in attesa di processo.

Nel migliore dei casi l’attenzione dei giornali si potrebbe spostare dalle indagini al processo

Questo decreto legislativo nasce infatti per mettere un freno all’eccessiva mediatizzazione delle indagini nella fase preliminare, in cui il processo non è ancora cominciato e nessuna prova è accertata. Nel corso degli ultimi anni, infatti, il protagonismo di alcuni pubblici ministeri ha prodotto l’effetto di alimentare processi a mezzo stampa e la gogna pubblica degli indagati, già considerati come dei colpevoli. Un caso recente ed eclatante è stato quello dell’inchiesta sul crollo della funivia del Mottarone, in cui la magistrata titolare delle indagini ha rilasciato interviste e dichiarazioni ai principali quotidiani, anticipando il possibile esito dell’indagine e polemizzando con le scelte del giudice per le indagini preliminari.

La domanda è: davvero silenziare i magistrati risolverà il problema del processo mediatico, migliorando la qualità del giornalismo giudiziario? Difficile essere categorici, ma la risposta è che probabilmente l’effetto non sarà raggiunto e per due ordini di ragioni.

La prima è il rischio che tutto diventi ancora più opaco: se prima il magistrato veniva citato dal giornalista a conferma di una notizia, ora il rischio è di trasformarlo in fonte anonima. Le informazioni che dovrebbero rimanere coperte dal segreto, o che sono mere ipotesi investigative (che non vengono solo da fonti interne alle procure), continueranno a circolare, ma questo avverrà in modo ancora meno verificabile.

La seconda è quella di mettere nelle mani di un gruppo ristretto di magistrati al vertice degli uffici il potere di decidere cosa divulgare pubblicamente e cosa no. Con la possibilità di prassi molto diverse da procura a procura, vista la grande discrezionalità che lascia il concetto (non certo giuridico) di “ragioni di interesse pubblico”.

L’equilibrio tra accusa e difesa

Le nuove regole, però, offrono anche uno spiraglio di ottimismo. Dall’inchiesta Mani pulite in poi, il giornalismo giudiziario si è schiacciato sull’attività delle procure, trasformando i magistrati in fonti privilegiate. Così si è creato un cortocircuito: alcuni pubblici ministeri hanno guadagnato una grande popolarità, la stampa è finita fagocitata da facili scoop nella fase delle indagini, dimenticandosi del processo che dovrebbe accertare la verità. Con un risultato: a farne le spese sono stati i cittadini in attesa di giustizia. Questo decreto, nella migliore delle ipotesi e tenendo ferme le criticità fin qui sottolineate, potrebbe riportare l’attenzione giornalistica verso il processo, riequilibrando sui mezzi di informazione il rapporto tra accusa e difesa.

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