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Quale paese ha conquistato le tavole di tutto il mondo?

Umbria, 2018. (Susan Wright, The N​ew York Times/Contrasto)

“Il destino degli stati dipende da come si nutrono”, ha scritto Jean Anthelme Brillat-Savarin, un gastronomo francese del diciottesimo secolo. Oggi il prestigio di un paese dipende anche da quanto nutre il resto del mondo. Ne è una dimostrazione l’ascesa della cosiddetta diplomazia culinaria. Nel 2012 il dipartimento di stato di Washington ha messo in piedi una “formazione di cuochi” destinata a promuovere la cucina statunitense all’estero. Il governo tailandese manda i suoi chef in giro per il mondo a promuovere tagliolini e curry massaman attraverso il suo programma Global Thai. La Corea del Sud persegue la sua “diplomazia del kimchi”.

Ma qual è la cucina nazionale in cima alla catena alimentare globale? Un recente articolo di Joel Waldfogel dell’Università del Minnesota fornisce una risposta. Usando i ristoranti recensiti da TripAdvisor e i dati sulle vendite diffusi da Euromonitor, un’azienda di ricerche di mercato, Waldfogel ha valutato il “commercio” mondiale delle cucine di 52 paesi. Se il commercio tradizionale è misurato in base al valore di beni e servizi esportati, le stime dello studioso sullo scambio culinario si basano sul valore del cibo servito nei ristoranti. Per ogni paese il consumo di una cucina straniera è trattato come un “import”, mentre il consumo all’estero della propria cucina nazionale è trattato come un “export”. Il saldo determina quali sono i paesi che hanno la maggiore influenza sui palati del mondo.

I risultati non fanno la felicità del presidente statunitense, estimatore di McDonald’s e propagandista dei dazi doganali. Gli Stati Uniti sono infatti il più grande importatore netto di cucina al mondo, dato che spendono in piatti stranieri 55 miliardi di dollari in più rispetto alla popolarità all’estero dei piatti statunitensi (e se si escludono i fast food, la differenza sale a 134 miliardi). La Cina arriva dopo, con un deficit culinario di 52 miliardi di dollari; il Brasile e il Regno Unito hanno rispettivamente saldi negativi per circa 34 miliardi e 30 miliardi. L’Italia, invece, si posiziona come il più grande esportatore mondiale di beni commestibili. L’appetito del mondo per la pasta e la pizza, oltre al relativo disinteresse degli italiani verso le altre cucine, danno al paese un surplus a tavola di 168 miliardi. Anche il Giappone, la Turchia e il Messico vantano avanzi consistenti.

Waldfogel non tiene conto di ibridi culinari come il cronut – un incrocio tra un cornetto e una ciambella – o il Tex-Mex. Né considera più di tanto l’autenticità dei piatti: pochi napoletani considererebbero la Domino’s Pizza un vero piatto di casa. Eppure, alcune cucine esercitano chiaramente un fascino maggiore di altre in tutto il mondo. I buongustai che deridono gli involtini primavera a San Francisco o i cheeseburger a Chongqing dovrebbero ringraziare la globalizzazione. Una politica di dazi culinari potrebbe rendere la ristorazione davvero noiosa.

(Traduzione di Stefania Mascetti)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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