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Nei Caraibi due isole lottano per la loro identità

Grand’Riviere, Martinica. (Bruno De Hogues, Getty Images)

Ogni anno, dal 25 al 31 maggio, le Nazioni Unite celebrano la settimana internazionale della solidarietà con i popoli dei territori non indipendenti. Quando si parla dei Caraibi in pochi pensano che ci sia bisogno di solidarietà. Innanzitutto, i 17 territori non sovrani della regione sono più ricchi e politicamente stabili dei loro vicini indipendenti. In termini di prodotto interno lordo (pil) pro capite, sette dei dieci territori più ricchi dei Caraibi non sono stati sovrani. Inoltre, questi territori godono dei vantaggi derivanti dalla grande influenza geopolitica degli ex colonizzatori, e i loro abitanti hanno passaporti che gli permettono di viaggiare in Europa o negli Stati Uniti.

Eppure esistono anche alcuni svantaggi legati alla mancata indipendenza. Gli isolani affrontano da tempo un dilemma tra le ragioni del cuore e quelle della mente, in cui i benefici materiali arrivano a spese dell’orgoglio e del senso di appartenenza.

Nell’ultimo decennio le crepe nei rapporti con gli ex colonizzatori si sono allargate, e di recente il covid-19 e le proteste del movimento Black lives matter negli Stati Uniti hanno aggiunto un crescente senso di malessere. Nei mesi scorsi la tensione è salita soprattutto in due isole.

Il colonialismo non è finito
La prima è la Martinica. Come l’isola sorella di Guadalupe, la Martinica è un dipartimento francese dal 1946. Sulla carta fa parte della Francia quanto l’Alsazia o la Normandia, ed è molto più integrata dei cinque territori d’oltremare britannici situati nei Caraibi, delle sei isole affiliate con il regno dei Paesi Bassi e dei due territori statunitensi di Puerto Rico e delle isole Vergini.

Ma di recente un vecchio scandalo ha fatto riemergere forti tensioni. Il clordecone, un pesticida molto persistente, è stato usato nelle piantagioni di banane della Martinica dal 1972 fino al 1993, quando era ormai bandito da tempo in altre parti del mondo. Il composto è legato a un’incidenza maggiore di tumori, e secondo alcuni osservatori il 92 per cento degli adulti della Martinica sarebbe stato esposto ai suoi effetti. A gennaio, dopo una battaglia legale durata 15 anni, un tribunale francese ha finalmente esaminato l’accusa di “incauta creazione di pericolo”. Tuttavia, con grande disappunto della popolazione martinicana, poco dopo è arrivato l’annuncio della possibile prescrizione del reato, un’ipotesi contro cui si sono mobilitati gli avvocati dell’isola. A febbraio migliaia di persone sono scese in piazza per protestare.

Come accade a Puerto Rico, anche a Sint Maarten è la vecchia potenza coloniale ad avere sempre l’ultima parola

Molti ritengono responsabili per l’avvelenamento i béké, minoranza bianca discendente dai colonizzatori schiavisti. I béké controllano ampie aree agricole dell’isola e diverse fabbriche nonostante rappresentino solo una piccola parte della popolazione. “Il colonialismo francese non è mai finito”, accusa Rodolphe Solbiac, accademico della Martinica. La pandemia ha aggravato le tensioni. Nel 2020 alcuni attivisti hanno bloccato le strade che conducono a un aeroporto e hanno provato a impedire alle navi da crociera di far sbarcare i turisti (e con loro i primi casi di covid-19).

La trappola del debito
La Martinica non è l’unica isola a fare i conti con la percezione di mancata libertà. Sint Maarten, situata 440 chilometri più a nord, condivide un’isola con un altro territorio francese, Saint-Martin. Nel 2010 Sint Maarten è diventata uno dei quattro territori costitutivi del regno dei Paesi Bassi (fino ad allora ha fatto parte delle ex Antille Olandesi). Sulla carta i quattro territori hanno pari diritti: ognuno ha un rappresentante nel consiglio del regno e controlla i propri affari interni. Ma in realtà le isole sono sovrastate in dimensioni e ricchezza dai Paesi Bassi. Come accade a Puerto Rico, anche a Sint Maarten è la vecchia potenza coloniale ad avere sempre l’ultima parola.

A marzo, dodici dei 15 parlamentari dell’isola hanno presentato una petizione alle Nazioni Unite per accusare il regno dei Paesi Bassi di “persistenti atti di discriminazione razziale e violazioni delle leggi internazionali sui diritti umani”. A Sint Maarten sono i politici, più che gli attivisti, a lamentarsi spesso dei loro “supervisori olandesi bianchi”, riferendosi ai componenti di un consiglio di supervisione finanziaria che sovrintende alle finanze pubbliche del paese. L’origine della petizione è stata la creazione, voluta dal governo centrale olandese, di un altro ente supervisore in cambio di 18 milioni di euro provenienti dal fondo di ripresa postcovid. Il nuovo ente per la riforma e lo sviluppo dei Caraibi (Coho) potrà controllare i tagli al bilancio (compresi quelli ai salari dei parlamentari) e introdurre riforme fiscali.

I territori non indipendenti ottengono grandi somme di denaro dagli ex colonizzatori. Dopo l’uragano Irma, nel 2017, i Paesi Bassi hanno versato, tramite un fondo fiduciario, 550 milioni di euro in finanziamenti, ovvero circa il 60 per cento del pil di Sint Maarten. Nel 2019 i trasferimenti fiscali dalla Francia alla Martinica hanno raggiunto i 2,9 miliardi di euro, quasi un terzo del pil dell’isola.

Eppure per molti queste disposizioni hanno una natura paternalistica. La petizione ha accusato i Paesi Bassi di aver imposto misure di austerità eccessive, creando una “trappola del debito” attraverso i prestiti condizionati, e di essere troppo lenta nell’elargizione dei fondi. Problemi simili hanno afflitto Puerto Rico e alcuni territori britannici. Gli olandesi sostengono che l’intervento sia necessario per arginare il malgoverno, ma i parlamentari di Sint Maarten ribadiscono che si tratta di una violazione del loro diritto ad autogovernarsi.

In Martinica, intanto, aumentano le richieste di risarcimenti per lo scandalo del clordecone e per la schiavitù (una rivendicazione contenuta anche nella petizione di Sint Maarten). Il parlamento di Sint Maarten ha approvato una mozione per “finalizzare il processo di decolonizzazione”, senza però specificare in cosa consista questa finalizzazione. Comunque sia è improbabile che questi territori ottengano l’indipendenza. In un referendum organizzato nel 2010, infatti, il 79 per cento degli abitanti della Martinica aveva votato per la conferma dello status quo.

A Sint Maarten la gente comune mantiene un atteggiamento più pragmatico rispetto a quello dei parlamentari (che comunque ammettono in privato di non essere pronti per l’indipendenza). “Forse vediamo le cose da una prospettiva diversa rispetto ai politici”, spiega Ellen, 67 anni, cassiera di una gioielleria sul lungomare. A causa del covid-19 si ritiene che l’economia dell’isola, dipendente dal turismo, si sia ridotta di un quarto. Sono tempi duri, insomma. “Se diventassimo indipendenti ci ritroveremmo in un vortice da cui non potremmo uscire”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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