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La Russia di Putin divisa sul ricordo del gulag

Le porte delle celle di un gulag esposte nel museo della storia del gulag a Mosca, 21 maggio 2018. (Celestino Arce, NurPhoto/Getty Images)

Soldati dell’esercito che scavano fosse comuni per cercare di mostrare che lo stato non era responsabile dei morti. Uno storico che dissente con forza mentre si trova in prigione per accuse che molti ritengono false. Organizzazioni che lo sostengono attaccate da un potere onnipotente. Sembra un film ma è la Russia del 2020. E queste sono tre istantanee della guerra attualmente in corso su come ricordare il gulag.

Il gulag era il sistema di campi di concentramento sovietici, nel quale almeno venti milioni di persone sono state imprigionate nell’arco di più di sessant’anni. In generale il gulag indica le diverse componenti della repressione sovietica, compresi gli arresti, le esecuzioni e l’esilio forzato di migliaia di vittime mai imprigionate nei campi.

Queste dolorose memorie sono sempre state controverse. E spesso sabotate da forze che, in Russia, preferiscono che siano dimenticate. Nel corso degli anni novanta e duemila sono state mantenute vive da organizzazioni non governative, associazioni civili, e una manciata di ricercatori non sostenuti dallo stato russo, che spesso facevano affidamento su borse provenienti dall’estero. Buona parte di questo lavoro è stato condotto dall’organizzazione Memorial, con sede a Mosca.

Lo stato cambia tattica
Per fare solo alcuni esempi, Memorial ha archiviato migliaia di copie di documenti statali sul sistema dei gulag, resi pubblici all’inizio degli anni novanta dopo la caduta del comunismo, ma il cui accesso è stato poi progressivamente limitato.

Nel frattempo il museo Perm-36, che si trova nell’ex sede di un gulag vicino alla città di Perm, nel centro della Russia, è stato aperto nel 1995 grazie a pochi attivisti di Memorial che hanno deciso di restaurare a loro spese le rovine del luogo. Due anni dopo, due dirigenti regionali di Memorial, Irina Flige e Veniamin Iofe, insieme allo storico amatoriale Yuri Dmitriev, hanno scoperto una fossa comune contenente più di settemila vittime dello stalinismo a Sandormokh, in Carelia, nella Russia occidentale: una delle pochissime fosse mai portate alla luce.

Gli anni dieci di questo secolo hanno portato cambiamenti drammatici. Nel 2012 lo stato ha approvato la “legge sugli agenti stranieri”, un nuovo regime cui sono sottoposte le ong russe che ricevono fondi dall’estero e impegnate in “attività politiche”. Queste sono da allora inserite di forza in un registro degli “agenti stranieri”, soggette a regolamenti speciali, e pesantemente multate se risulta che li abbiano violati. La maggior parte delle ong impegnate a preservare la memoria del gulag è stata pesantemente colpita. Tra queste Memorial e il centro Sakharov, anch’esso con sede a Mosca.

Varie testate giornalistiche hanno condotto una campagna diffamatoria contro questi “agenti stranieri”, che hanno determinato attacchi e minacce contro ong, ricercatori e attivisti. Memorial è stata multata ai sensi di questa legge più di venti volte. Contemporaneamente in ogni angolo della Russia sono apparse statue di Stalin, mentre il consiglio di amministrazione di Perm-36 è stato sciolto dalle autorità nel 2014, e il museo è stato riformato in modo da apparire meno critico nei confronti del leader comunista.

Il caso Dmitriev
Ma il governo russo ha anche cominciato a occuparsi seriamente della memoria del gulag, e in modi apprezzabili. Ha aperto un nuovo museo della storia del gulag a Mosca, nel 2015. Nel 2017 il presidente Putin e il patriarca Kirill di Mosca hanno inaugurato un maestoso monumento alle vittime della repressione sovietica, il “muro del dolore”. È stato inoltre aperto un “fondo per la memoria” consacrato al gulag, sotto gli auspici del presidente.

Lo stato stava quindi finalmente investendo in maniera massiccia per preservare la memoria del gulag, ma le ong che se ne occupavano lottavano per sopravvivere. Poi nel dicembre 2016 Yuri Dmitriev, uno degli scopritori di Sandormokh, è stato arrestato con accuse di pedofilia.

Filo spinato esposto in una mostra sulla dichiarazione universale dei diritti umani al museo della storia del gulag a Mosca, 10 dicembre 2018.

Molti attivisti e molte ong hanno sostenuto che le accuse erano false, e vari esperti hanno confermato l’innocenza di Dmitriev durante il processo. Dmitriev è stato assolto nell’aprile 2018, ma è stato arrestato di nuovo due mesi dopo, con accuse simili. L’accusa ha chiesto per lui 15 anni di detenzione in una colonia penale: quasi una condanna a morte per un uomo di 64 anni. In seguito Dmitriev è stato scagionato dalla maggior parte dei capi d’imputazione, ma condannato a tre anni e mezzo per una delle accuse di violenza sessuale: una sentenza piuttosto sorprendente, considerando che la pena minima imposta nel codice penale russo per questo reato è di 12 anni. Molti esperti ritengono che una condanna così lieve sia un chiaro segno dell’innocenza di Dmitriev, soprattuto visto che, secondo statistiche recenti, solo lo 0,36 per cento dei processi in Russia si chiude con un’assoluzione. Nelle prossime settimane potrebbe esserci un processo d’appello ma, allo stato attuale, le decine di lettere aperte d’intellettuali, attivisti e universitari russi e stranieri che chiedono la sua liberazione non hanno avuto effetto.

Far tacere il dissenso
In tutto questo alla Società storica militare russa, finanziata dallo stato, è stato concesso d’inviare dei soldati a effettuare scavi nelle fosse comuni di Sandormokh ed esumare alcuni corpi. La finalità di tale missione era dimostrare che i morti non erano vittime del gulag, ma soldati dell’armata rossa uccisi dall’esercito finlandese: una teoria ritenuta storicamente errata da decine di ricercatori.

Che lezione trarre da questi eventi contraddittori? La risposta sembra che, dopo aver ignorato ong e ricercatori per due decenni, alcune istituzioni russe hanno prima deciso di attaccarli, poi d’“invadere” uno spazio che è difficile inquadrare all’interno della retorica d’orgoglio nazionale per i grandi traguardi raggiunti dalla Russia.

Il gulag è un “tragico periodo della nostra storia” che “deve essere ricordato”, ha detto lo stesso Putin durante l’inaugurazione del muro del dolore. Tuttavia ha aggiunto che “la cosa non può portare a un regolamento di conti. Non possiamo spingere nuovamente la società verso una pericolosa linea di scontro. Oggi è importante per tutti noi fondarci su valori di fiducia e stabilità”.

A quanto pare chi dissente dalla narrativa di stato, perlopiù celebrativa, sulla storia russa è nemico di “fiducia e stabilità”. Mentre Dmitriev promuove l’idea di “stato al servizio dell’individuo, e non di individuo al servizio dello stato”.

Memorial ha pubblicato una lista di responsabili degli orrori del gulag, chiedendo giustizia per le vittime. Dalla caduta dell’Unione Sovietica infuria in Russia una guerra della memoria. Ong, ricercatori e attivisti continuano a lavorare infaticabilmente per preservare una memoria indipendente del gulag, mentre lo stato cerca di controllarla. Durante la pandemia di coronavirus, le targhe che ricordavano le vittime del massacro di prigionieri polacchi a Katyn del 1940, durante la guerra, sono state rimosse dalla città di Tver.

Eppure la memoria del gulag è più viva che mai. Questo è dovuto in parte a iniziative finanziate dallo stato. Il museo di storia del gulag, per esempio, ha promosso decine di progetti, mostre e conferenze pubbliche. E paradossalmente, grazie al caso Dmitriev, il gulag è diventato uno dei temi più pressanti nell’odierna cultura russa.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Una versione di questo articolo è uscito su The Conversation.

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