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In Canada gli studenti stranieri sono diventati un business

Una fiera ad Amristar, nello stato indiano del Punjab, dedicata alla formazione in Canada, 16 settembre 2015. (Narinder Nanu, Afp)

Kushandeep Singh è nato nel 1999 a Bibipur, un villaggio di mille abitanti nel Punjab, in India. Come quasi tutti a Bibipur, i Singh sono contadini: possiedono una fattoria con un piccolo appezzamento di terra, alcune mucche e delle bufale. Ma a differenza degli altri hanno deciso d’investire nell’istruzione di Kushandeep. Così, mentre la maggior parte dei bambini del villaggio andava alla scuola pubblica locale, il piccolo Singh ha frequentato un istituto privato in una città vicina, Patiala. Solo per la retta la famiglia spendeva un terzo del suo reddito. Il padre lo portava in città con un risciò che aveva noleggiato apposta, dando un passaggio anche ad altri studenti. Lungo il viaggio – un’ora all’andata e una al ritorno – le strade erano tappezzate di manifesti pubblicitari. Kushandeep li conosceva a memoria: all’inizio erano di ristoranti e negozi locali, poi di McDonald’s. Negli anni delle superiori, molti cartelloni hanno cominciato a promuovere un prodotto diverso. L’istruzione dopo il diploma. In Canada.

Per molte famiglie era un’offerta allettante. Si trattava di mandare i figli a studiare in un paese di lingua inglese, sicuro e soprattutto con politiche tolleranti sull’immigrazione. Dato che Kushandeep andava bene a scuola e il suo inglese stava migliorando, i genitori hanno cominciato a considerare seriamente l’idea d’iscriverlo in un’università canadese. E hanno fatto quello che fanno tutti nel Punjab: si sono rivolti a un reclutatore.

Il sogno canadese
Si stima che solo in India questi intermediari siano decine di migliaia, anche se non c’è modo di sapere la cifra esatta visto che il settore non è regolamentato. A Patiala i loro uffici sono ovunque. Sono loro che mettono in contatto studenti come Kushandeep con i community college (centri di formazione locali, che offrono corsi di due anni) e le università all’estero, compilano i documenti necessari e richiedono il visto. Di solito non sono pagati dalle famiglie ma dagli atenei, che spendono volentieri questi soldi nella prospettiva d’incassare le rette internazionali, quattro o cinque volte più alte di quelle ordinarie.

In Canada, grazie anche a politiche federali che hanno incentivato molto questa strategia, nel 2019 gli universitari stranieri erano 642mila (erano circa 239mila nel 2011); gli indiani rappresentavano il 34 per cento del totale e molti provenivano dalle campagne del Punjab. Secondo i comunicati stampa e i rapporti governativi, ogni anno le rette internazionali assicurano al Canada oltre 21 miliardi di dollari d’introiti, più del settore dei ricambi d’auto, più dell’industria del legno.

Per stabilirsi nel paese un ragazzo o una ragazza prima deve procurarsi un visto per studiare, non importa in che college o università; dopo la laurea, ha bisogno di un permesso che consenta di vivere e lavorare lì per massimo tre anni; con quel permesso può fare domanda per la residenza permanente, che è concessa in base a un punteggio che tiene conto della conoscenza dell’inglese, dell’istruzione e delle esperienze professionali. Quando spiega questi passaggi, un reclutatore esperto fa sembrare tutto molto semplice. Non si sofferma sulla facoltà che conviene scegliere per avere abbastanza punti, né sulle probabilità reali di ottenere un permesso di lungo periodo. Il governo canadese non dice quanti studenti che fanno domanda per la residenza permanente poi la ricevono. Nel 2015, l’istituto canadese di statistica calcolava che potevano essere tra il 20 e il 27 per cento.

Nell’inverno del 2017 Kushandeep è finito in un ateneo di cui non aveva mai sentito parlare, la Kwantlen polytechnic university (Kpu) a Surrey, un posto sperduto nella provincia della Columbia Britannica. Quell’anno la Kpu ha ammesso seimila studenti stranieri (erano 525 solo dieci anni prima), e ha registrato un utile di 22 milioni di dollari. L’agente a cui si era rivolto a Patiala gli aveva prospettato una vita comoda e piena di successi, ma quando Kushandeep è arrivato a Surrey faceva freddissimo, i suoi coinquilini non c’erano mai perché lavoravano di continuo e tutto costava troppo. Pagava 400 dollari al mese per un letto da dividere con uno dei suoi nuovi compagni di stanza, 50 dollari per l’abbonamento dell’autobus, 200 dollari per la spesa. Ha dovuto cercare un lavoro in fretta. La legge permette agli studenti di lavorare al massimo venti ore fuori del campus, che non bastano per coprire le spese. Così alla fine la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze accetta di essere pagata in nero e molto meno dello stipendio minimo.

Alcuni hanno tenuto duro durante la pandemia, tanti altri hanno perso il lavoro e hanno dovuto abbandonare il college. Kushandeep, nonostante mille difficoltà, è riuscito a laurearsi e ha ottenuto il visto per tre anni. La sua storia e il sistema che ha trasformato le università del Canada, rendendole dipendenti dalle rette degli studenti stranieri e quindi dagli intermediari, è raccontata molto bene in un’inchiesta del mensile canadese The Walrus.

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