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Dietro la notizia

Giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro sul blog dell’Agence France-Presse.

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In Afghanistan bisogna rompere il silenzio sui bambini ridotti in schiavitù

Un ragazzo afgano che è stato uno schiavo sessuale da bambino, il 31 ottobre 2016. La foto è stata scattata in una località non definita in Afghanistan. (Aref Karimi, Afp)

Finalmente il suo telefono ha squillato. Ci provavo da un sacco di tempo. Ero seduto nel giardino della sede di Kabul dell’Afp per avere una ricezione migliore sul cellulare, nel disperato tentativo di raggiungere un uomo nella remota provincia dell’Uruzgan. Suo figlio adolescente, mi avevano riferito alcuni anziani, era stato rapito da un comandante della polizia perché diventasse il suo schiavo sessuale.

Mi ero quasi arreso quando la chiamata finalmente è partita, con una suoneria islamica dal tono metallico al posto del messaggio in pashtun che significava “numero non raggiungibile” che ero ormai stufo di sentire.

Con mia grande delusione, però, quando ha risposto si è rifiutato di parlare, forse per paura, o magari per vergogna. “Il tuo articolo non cambierà niente”, mi ha detto attraverso la linea gracchiante, prima di riattaccare.

La storia che deve essere raccontata
Ascoltando gli uccelli che cantavano tra gli alberi, sono giunto a una conclusione. Stavo cercando di penetrare in un muro invisibile di silenzio. In quanto giornalista non mi sono mai sentito più solo di così nel seguire una storia. Una storia di cui nessuno vuole parlare. Una storia coperta da una nebbia di vergogna. Nei mesi successivi questo scenario si è ripetuto diverse volte mentre cercavo le vittime degli abusi sessuali sui minori. Ma sentivo di dover andare avanti. La storia doveva essere raccontata.

Poche settimane prima, nell’estate del 2016, avevo scritto come i taliban usassero i piccoli schiavi sessuali come cavalli di Troia per uccidere i loro molestatori tra le forze di polizia, una pratica che rende i bambini due volte vittime delle fazioni in guerra in Afghanistan.

L’articolo aveva generato un’ondata di reazioni. Il presidente Ashraf Ghani aveva lanciato una “scrupolosa inchiesta”, promettendo tolleranza zero per gli abusi sui minori commessi dalle forze afgane, che sono finanziate dagli Stati Uniti. Aveva anche spinto alcuni legislatori statunitensi a chiedere la fine della pratica istituzionalizzata del bacha bazi, la riduzione alla schiavitù sessuale di ragazzini compiuta dalle forze afgane. Alcuni hanno chiesto l’adozione di sanzioni contro i poliziotti colpevoli. In seguito alcuni ufficiali arrabbiati mi hanno accusato di “cercare di gettare fango sull’Afghanistan”. Ma questa è un’altra storia.

Del tutto assenti dal dibattito erano le condizioni dei bambini ridotti in schiavitù e delle loro famiglie, nonché gli sforzi ufficiali – o piuttosto la loro mancanza – compiuti per salvarli.

Mi rispondevano che è la loro cultura. La priorità era il conflitto che andava peggiorando, gli abusi sui minori avrebbero dovuto attendere

“Salvarli per mandarli dove?”, mi ha chiesto un funzionario occidentale durante un incontro privato a Kabul. “L’Europa sta implodendo”, ha detto, riferendosi alla crisi dei migranti che grava sul continente.

Ho spalancato la bocca per lo stupore. Questo modo di giustificare l’assenza di azione mi sembrava estremamente preoccupante. Quando ho provato a chiedere aiuto alla comunità diplomatica per uno schiavo bambino in cui mi ero imbattuto in un angolo dimenticato dell’Uruzgan, un ragazzino esile, dagli occhi tristi, rimasto per due anni con un comandante della polizia, ho ricevuto solo alzate di spalle.

In sostanza mi rispondevano che è la loro cultura. La priorità era il conflitto che andava peggiorando, gli abusi sui minori avrebbero dovuto attendere.

Questa stupefacente indifferenza mi ha spinto a intraprendere una ricerca di mesi che si è estesa a tre province afgane e aveva come obiettivo le vittime e le loro famiglie.

Un’epidemia di rapimenti
Le testimonianze, raccolte soprattutto nella provincia meridionale dell’Helmand, ma anche nella vicina Uruzgan e in quella settentrionale del Baghlan, sono un’inquietante aggiunta alla mia prima inchiesta. I racconti, molti dei quali sorprendentemente simili, hanno aperto un raro squarcio sulle lotte disperate e solitarie condotte dalle famiglie afgane per liberare i loro figli, nipoti e cugini da una radicata tradizione di riduzione in schiavitù e stupro ammessi dalla cultura locale.

Cosa ancora più significativa, sono servite a fare luce sulla provenienza di questi schiavi sessuali bambini. Secondo una teoria comune, sono le famiglie povere a venderli a comandanti potenti, o addirittura alcuni sceglierebbero volontariamente una vita di schiavitù, attratti dalla prospettiva di ricevere dei regali o guadagnare soldi in modo facile. Le tredici testimonianze che ho raccolto però hanno evidenziato un’epidemia di rapimenti.

Bashir, parente di una vittima di bacha bazi a Lashkar Gah, nella provincia afgana di Helmand, il 6 ottobre 2016.

Nella maggior parte dei casi i ragazzini vengono prelevati alla luce del sole dalle loro case, dalle fabbriche di oppio o dai posti in cui giocano. A rapire i ragazzi sono gli stessi potenti comandanti di polizia che dovrebbero punire i colpevoli. In questo modo le famiglie interessate non hanno alcuna speranza di ottenere giustizia da un sistema in cui manca una legge specifica contro il bacha bazi, meccanismi adeguati di indennizzo e, a quanto pare, una volontà ufficiale di intervenire contro poliziotti violenti, che vengono visti come il male minore nella lotta contro i taliban. “A chi dovremo rivolgerci per ricevere aiuto?”, mi ha chiesto un uomo dell’Helmand a cui avevano rapito il giovanissimo cognato. “Ai taliban?”.

La pratica del bacha bazi, che non viene comunemente ritenuto un comportamento omosessuale né contrario all’islam, ha alimentato nelle file della polizia una violenta gara al rialzo, in cui gli ufficiali competono per accaparrarsi i ragazzini più belli. Molti gareggiano per ottenere bambini “che non vedono il sole da anni”, un eufemismo per indicare una bellezza incontaminata. È quanto mi ha riferito un ex funzionario di sicurezza dell’Helmand. In una società in cui i generi sono rigidamente separati, il possesso di ragazzini di bell’aspetto abbigliati in modo effeminato può rappresentare un simbolo di status, potere e virilità. Per questo molti genitori vestono i loro figli con abiti sporchi e infangati, per metterli al riparo da poliziotti predatori.

“La pratica sempre più diffusa del bacha bazi sta rovinando la nostra società”, mi ha detto un attivista dell’Helmand. “I nostri bambini crescono con la convinzione che sia normale violentare altri bambini”.

Alcuni poliziotti sfoggiano pubblicamente il loro “bottino”. La testimonianza più straziante è quella di Sardawali che, dopo mesi di ricerche senza risultati, ha intravisto il figlio rapito in un affollato mercato nel distretto di Gereshk, nell’Helmand, dove ho rilevato il maggior numero di casi. Sardawali voleva raggiungere suo figlio e abbracciarlo, ma non ha osato avvicinarsi al nugolo di poliziotti che lo circondavano.

Spesso l’unica via di fuga per i bacha ridotti in schiavitù è stringere un accordo con i taliban: ‘Liberatemi e io vi aiuterò a ottenere la testa e le armi del mio aguzzino’

“L’ho visto sparire in lontananza”, mi ha raccontato Sardawali. “Sua madre è impazzita per il dolore. Non riesce a smettere di piangere: ‘Abbiamo perso per sempre nostro figlio’”. Lo strazio di aver perso un figlio perché è diventato uno schiavo sessuale si combina alla preoccupazione che i ragazzini in prigionia possano sviluppare una dipendenza dagli oppiacei che in alcuni casi ricevono per diventare più remissivi. Cosa ancora peggiore, molti temono che potrebbero essere mandati a rafforzare le linee del fronte, dove i poliziotti registrano perdite record nella loro lotta contro i taliban. O restare uccisi negli scontri a fuoco provocati da ribelli che forzano i posti di blocco in cui sono tenuti prigionieri. “Spesso l’unica via di fuga per i bacha ridotti in schiavitù è stringere un accordo con i taliban: ‘Liberatemi e io vi aiuterò a ottenere la testa e le armi del mio aguzzino’”, aggiunge il funzionario.

Per alcune famiglie l’unico sollievo è l’idea di non essere sole. I loro villaggi sono pieni di vittime della pratica del bacha bazi, molti dei quali vengono scartati quando comincia a crescere loro la barba e hanno la tendenza a ripetere lo stesso ciclo di abusi. La maggior parte delle famiglie che ho intervistato, però, ha abbandonato ogni speranza. Solo una famiglia fortunata dell’Helmand è riuscita a liberare il figlio undicenne dopo diciotto giorni di prigionia, con l’aiuto di un potente funzionario dei servizi segreti.

Un ragazzo, a destra, vittima di abusi sessuali, con un parente in una località non definita in Afghanistan, il 31 ottobre 2016.

Dopo settimane di ricerche, un team dell’Afp ha incontrato il ragazzo in una località remota e segreta dell’Afghanistan meridionale, dove vive praticamente nascosto a distanza di due anni dalla sua disavventura. Era un adolescente dagli occhi sperduti che faceva fatica a superare i suoi traumi. Stava seduto in silenzio accanto al padre, curvo su un carrello con tè e dolci, incapace di raccontare la dolorosa storia di quello che gli aveva fatto il suo aguzzino.

Da quell’incontro è emersa la quasi totale assenza di sostegno psicologico per questi ragazzini, molti dei quali sono stati vittime di stupro.

Nel loro complesso le testimonianze che ho raccolto non sono altro che un piccolo esempio di un problema molto più diffuso e radicato. È improbabile che il fenomeno sparisca a breve, e la maggior parte delle vittime e dei loro familiari non riceveranno alcuna giustizia. Forse però c’è qualche speranza mentre si solleva il velo di silenzio che avvolge l’argomento del bacha bazi. Il mio articolo è stato al centro di una tavola rotonda trasmessa da una tv locale, una cosa che non avevo mai visto prima in Afghanistan. Forse, ma non ne sono sicuro, non sarà più possibile restare in silenzio.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato sul blog Correspondent dell’Agence France-Presse. Nel blog giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.

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