L’identità divisa della Romania
Nel 2001 un settimanale letterario di Bucarest chiese a più di cento critici romeni di indicare il miglior romanzo del novecento in Romania. Il nome più gettonato lasciò quasi tutti di stucco: I principi della Corte-Antica di Mateiu Caragiale, pubblicato nel 1929 (in romeno Craii de Curtea-Veche; il termine craii vuol dire “signori”, ma anche “libertini”, ndt).
A prima vista il libro – sconclusionato, senza una trama, più una novella che un romanzo – è tanto modesto quanto singolare fu il suo autore. Caragiale era il figlio illegittimo del maggiore drammaturgo del paese, Ion Luca Caragiale. Uomo dalle molte idiosincrasie, nutriva velleità aristocratiche ed era ossessionato dall’araldica, cosa che gli lasciava poco tempo per scrivere: gli ci vollero quasi vent’anni per completare questo breve libro, e non scrisse molto altro.
I principi della Corte-Antica è il racconto degli incontri, delle conversazioni e delle passeggiate del narratore con tre personaggi, uno più pittoresco dell’altro, nei bassifondi della Bucarest di fine ottocento. Era il periodo in cui stava prendendo forma la Romania moderna ed europea, dopo più di tre secoli di dominio ottomano (il paese ottenne formalmente l’indipendenza nel 1877, ma il processo di occidentalizzazione era cominciato qualche decennio prima).
L’atmosfera generale che trasuda dal libro non è però di rinnovamento o speranza, ma di dissoluzione e decadenza. Gli edifici fatiscenti e i quartieri degradati della città – come l’antica corte principesca del titolo – sembrano il riflesso esteriore della corruzione interiore della gente. Mentre esplorano le bettole malfamate e gli squallidi bordelli di Bucarest, i quattro protagonisti scivolano lentamente dagli ordinari standard di decenza e moralità pubblica nel vortice della dissolutezza.
Come osserva un personaggio: “Eccoci alle porte dell’oriente, dove la scala dei valori è completamente capovolta, dove nulla viene preso seriamente”. Con “oriente” s’intendeva soprattuto l’Impero ottomano, e in particolar modo la sua farraginosa, corrotta e spesso crudele amministrazione, a cui si dava la colpa di quasi tutto quello che non funzionava in Romania, non solo sotto il profilo politico.
Pur osservando tutto con occhi europei ed esprimendo giudizi sulla base di valori europei ormai interiorizzati (“Bucarest è rimasta fedele alle sue vecchie usanze di corruzione; ogni passo ci ricordava che eravamo alle porte dell’oriente”), il narratore sembra attratto e respinto in pari misura, intimamente legato a quel mondo e allo stesso tempo disturbato da questo attaccamento. La sua è un’identità divisa – come dev’essere stata quella di Caragiale – che il libro rivela in modo indiretto.
Ma I principi della Corte-Antica non si limita a descrivere l’identità romena frammentata: la mette in scena, linguisticamente e stilisticamente. In un paragrafo, a volte in una singola frase, sono presenti elementi lessicali di origini disparate (presi dal turco, dall’arabo, dal greco, dal paleoslavo), fusi magistralmente con quella che è essenzialmente una lingua romanza, il romeno.
Il risultato sconcerta e affascina, grazie a una scrittura di bellezza stupefacente, che purtroppo si perde anche nelle migliori traduzioni. A livello estetico la frattura di cui abbiamo detto è accentuata dalla miscela di dandismo, ispirazione occidentale e atmosfera distintamente levantina, contrassegnata da indolenza, fluidità morale e da un savoir-vivre d’impronta non europea. Le qualità letterarie del libro, tuttavia, non sono sufficienti a spiegare perché sia considerato il miglior romanzo del novecento romeno. Per non parlare del fatto che è a malapena un romanzo.
Se definirsi è impossibile
Keith Hitchins, uno dei più importanti studiosi statunitensi della regione, alla prima pagina del suo libro A concise history of Romania (Breve storia della Romania) scrive che “l’elemento che più di tutti potrebbe definire i romeni è la loro collocazione tra oriente e occidente”. Ma stare nel mezzo, essere né/né, non poter mai stabilire cosa si è di preciso, impedisce di darsi una definizione: è l’impossibilità stessa della definizione.
A indurre i critici letterari romeni a tenere I principi della Corte-Antica in così alta considerazione dev’essere stato il dramma più profondo che si nasconde dietro lo scintillio apparente del testo: il dramma di un paese che non riesce a definirsi. Come è stato per generazioni di romeni, i critici devono essersi immedesimati nell’identità divisa che il libro mette in scena.
Trovandosi “alle porte dell’oriente”, i romeni hanno la testa bifronte, come quella di Giano: da un lato guardano verso l’Europa e l’occidente; dall’altro verso i Balcani, verso il mondo ortodosso orientale che ruota intorno alla Russia o, più spesso e più singolarmente, verso una terra mitica, diversa e superiore a ogni altra: quella che hanno la fortuna di abitare.
Questa terra leggendaria – che coincide vagamente con la Dacia, l’antico regno che i romani conquistarono, colonizzarono e poco dopo abbandonarono – nello scorso secolo ha alimentato in Romania molte ossessioni nazionalistiche, ed è impossibile capire la politica odierna del paese senza tenerne conto.
La frattura identitaria dei romeni riguarda l’intera società. Alcune categorie o classi sociali possono essere perfettamente sintonizzate su quanto succede a livello culturale, intellettuale o politico nel cuore dell’Europa. Sono persone che parlano almeno un’altra lingua e seguono l’attualità europea come quella interna. Se dovessero decidere di trasferirsi, non avrebbero problemi a essere francesi a Parigi, siciliani a Palermo o catalani a Barcellona. Provenendo da uno spazio “di mezzo”, dove i confini sono porosi e le identità incerte, possono diventare quasi qualunque cosa desiderino. E percepiscono questa loro identità fluida come un punto di forza (c’è da chiedersi seriamente se persone così, nate ai margini dell’Europa, non siano gli europei migliori).
Allo stesso tempo ci sono categorie o classi sociali che preferirebbero rimanere dove sono. Per queste persone l’Europa è troppo grande e frastornante, le sue frontiere aperte fanno paura e il multiculturalismo è visto come uno scandalo. Parlano solo il romeno, ritengono il multilinguismo dell’Europa innaturale, perfino oppressivo.
Hanno un disperato bisogno non di nuove culture da sperimentare o nuovi luoghi da esplorare, ma di un posto a cui restare saldamente ancorate. Una patria. Questi romeni necessitano delle loro radici più di ogni altra cosa al mondo; sradicati dal suolo natio si sentono persi. La loro identità fluida li angustia e la loro paura più grande è non contare nulla in un mondo globalizzato, tra gente cosmopolita.
Questa caratteristiche possono appartenere anche a un singolo individuo: una persona può essere scissa al suo interno, essere due cose diverse in momenti differenti o addirittura nello stesso frangente. Emil Cioran, uno dei pensatori più originali partoriti dalla Romania nel novecento, non smise mai di lamentarsi della “sventura di essere romeno”, che considerava il dramma più grande della sua esistenza. Fresco di università, a Berlino con una borsa di studio ebbe il suo primo incontro con il “dramma dell’insignificanza”.
“È orribile essere romeno”, scrisse a un amico. “Non riesci mai a conquistare la fiducia di una donna e le persone serie ti guardano con sufficienza; quando vedono che sei intelligente, pensano che sei un imbroglione”.
Non sappiamo di preciso che cosa successe a Cioran a Berlino, ma le misure che immaginò per correggere la situazione sono singolari: “In Romania solo il terrore, la brutalità e un’ansia infinita potrebbero ancora portare a qualche cambiamento. Tutti i romeni dovrebbero essere arrestati e picchiati fino a ridurli in poltiglia; solo dopo un simile trattamento un popolo superficiale potrebbe fare la storia”.
Tornato in patria, nel 1936 Cioran scrisse Schimbarea la faţă a României (Trasfigurazione della Romania), dove confessava di amare il suo paese “con un odio profondo” e di sognare una Romania con “il destino della Francia e la popolazione della Cina”. Lo angustiava, tuttavia, il suo status culturale di second’ordine: “Darei metà della mia vita se potessi sperimentare ciò che i più insignificanti dei greci, dei romani o dei francesi hanno sperimentato anche solo per un momento all’apice della loro storia”.
Alla fine Cioran decise di lasciare la Romania per la Francia, ma il suo paese lo ossessionò per il resto della vita. Trasferì la sua identità divisa nella sua opera, scrivendo prima in romeno e poi, con pari maestria, in francese. In Francia smise di parlare romeno, lingua che usava solo per imprecare, avendo scoperto che il francese era mal attrezzato al riguardo. In uno dei suoi libri francesi, L’inconveniente di essere nati, scrisse: “In perpetua rivolta contro la mia stirpe, ho desiderato per tutta la vita essere altro: spagnolo, russo, cannibale – tutto, eccetto quello che ero”.
Nessuna risposta
Mateiu Caragiale era altrettanto scisso. Aveva una buona educazione occidentale, aveva letto moltissima letteratura europea, conosceva il tedesco (per un periodo studiò a Berlino) e parlava correntemente francese, lingua in cui teneva il suo diario. Nella vita pratica poteva essere concentrato sugli affari come un calvinista di Ginevra.
Allo stesso tempo, come testimonia I principi della Corte-Antica, era irresistibilmente attratto dall’oriente e dai suoi rilassati modi levantini. Nell’inventare la sua genealogia aristocratica, si presentava come un “principe orientale” e firmava le lettere come “Matheiu Jean Caragiale, comte de Karabey”.
Non era né francese né conte. I Caragiale provenivano dal mondo ottomano (greci, forse albanesi) e da ambienti piuttosto umili: suo nonno era stato assistente cuoco e prese il cognome dal padrone, Ioan Gheorghe Caragea, un alto funzionario ottomano mandato a Bucarest dal sultano per governare la città. Il padre di Mateiu amava vestire alla turca.
Questa frattura non investe solo la società e gli individui, ma quasi tutto quello che è romeno, come l’architettura. Chiunque abbia passato anche un solo giorno a Bucarest sarà rimasto colpito dalla mescolanza di stili architettonici: neoclassico, art déco, art nouveau, Bauhaus, cubista, brutalista, sovietico, mediorientale, neobizantino e moresco. E poi quello strano genere chiamato “neoromeno”, con il suo distintivo arco orientale, concepito nella seconda metà dell’ottocento da un architetto che si era formato a Parigi, Ion Mincu.
Così, accanto a una struttura in acciaio e vetro del ventunesimo secolo, ci si può imbattere in uno splendido esempio di architettura moresca importata dalla Spagna, affiancato incongruamente da qualche curiosità dell’epoca socialista d’ispirazione sovietica. Tipica di quest’architettura è l’assenza di un qualsiasi stile distintivo. L’unico collante è l’eclettismo, che dà alla città una fisionomia sconcertante.
Camminando per una via di Bucarest non si può fare a meno di pensare di avere davanti a sé l’espressione esteriore di un paese che non riesce a definirsi. L’identità romena è come una di quelle ceramiche kintsugi dove differenti frammenti di varie dimensioni e forme sono incollati insieme in modo inverosimile, con l’oggetto finale che trasmette un senso d’improvvisazione, casualità e soprattutto estrema precarietà.
Essendo spesso ossessionati da ciò che gli manca, non c’è argomento di cui gli studiosi e i pensatori, gli storici e i filosofi romeni discutano con più passione dell’“identità nazionale”. Negli ultimi duecento anni, da quando il paese ha cominciato a modernizzarsi, non c’è stato dibattito intellettuale, culturale o politico che non l’abbia avuta al centro. In Romania ci sono biblioteche piene di libri che cercano di rispondere alla domanda: che cosa vuol dire essere romeni? Sollevare ossessivamente la domanda e non ottenere nessuna risposta, tuttavia, dev’essere una parte importante di ciò che in effetti significa essere romeni.
Alcune delle opere più affascinanti della filosofia, della letteratura, dell’arte e della musica romene sono tentativi disperati di affrontare questo dilemma: gran parte degli scritti di Cioran è incomprensibile senza tenerlo in considerazione; lo stesso vale per l’opera di Mateiu Caragiale, così come per quella di suo padre, per la poesia e la filosofia di Lucian Blaga, per buona parte del lavoro di Mircea Eliade, per la scultura di Constantin Brâncusi, per molta della musica romena, da Anton Pann a George Enescu, e per tanti film del nuovo cinema romeno. Il giorno in cui i romeni risponderanno alla domanda in modo definitivo sarà, temo, un giorno triste per il paese. Si definiranno. E per loro sarà la fine.
Nel frattempo, e più prosaicamente, quest’identità divisa può aiutare a capire che cosa è successo in Romania lo scorso maggio, quando un matematico nerd formatosi alla Sorbona è stato eletto presidente di un paese con uno dei più alti tassi di analfabetismo funzionale d’Europa.
Democrazia sopravvissuta
La vittoria dell’indipendente Nicuşor Dan sul candidato populista di estrema destra George Simion è stata letta, in Romania e altrove, come un “trionfo della democrazia”. Sarebbe più accurato dire che la democrazia – che è sempre un sistema fragile, specialmente in paesi “di mezzo” come la Romania – è sopravvissuta ancora una volta.
Tuttavia, la vittoria di Dan ha tutti gli ingredienti di una storia a lieto fine in cui, secondo la migliore tradizione illuminista, la scienza e la democrazia alla fine sconfiggono il fanatismo e l’oscurantismo. E tutto finisce bene. Sotto la superficie, come sempre, le cose sono molto più complicate.
Da un certo punto di vista, il ballottaggio presidenziale del 18 maggio 2025 non è stata tanto una scelta tra due programmi politici diversi, quanto tra politica e antipolitica. Negli ultimi trentacinque anni, dal crollo del regime di Nicolae Ceauşescu, in Romania la politica è stata svilita in ogni modo, inestricabilmente legata a scandali di corruzione, nepotismo e clientelismo, delegittimata da demagogia e promesse non mantenute.
Non si può negare che siano successe anche cose importanti: la transizione alla democrazia, l’ingresso nell’Unione europea e nella Nato, la creazione di istituzioni democratiche funzionanti, significativi investimenti stranieri, una crescita economica esponenziale. Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza un serio impegno politico e senza gli sforzi di tanti politici e funzionari pubblici coscienziosi.
Ma il processo è stato lento, accidentato e talmente deturpato da scandali e problemi che molti romeni faticano a riconoscerne i benefici. Vedono, invece, le disparità economiche tra una regione e l’altra, i servizi pubblici sottofinanziati, la fuga dei cervelli e tassi di analfabetismo, povertà e disuguaglianza sociale tra i più alti in Europa.
Come risultato, milioni di cittadini se ne sono andati. Si stima che più del 15 per cento della popolazione romena oggi viva all’estero. La maggior parte di questi migranti sono poco qualificati, malpagati e impiegati come braccianti agricoli, autisti di camion, operai edili, personale delle pulizie e per mansioni affini. Si sentono abbandonati dallo stato romeno, che non ha offerto loro né un’adeguata istruzione né opportunità lavorative, e ora si ritrovano in società dove sono spesso disprezzati per il loro status economico, il disagio sociale e la mancanza d’istruzione.
Invece di vedere il disprezzo per quello che è – semplicemente classismo – lo interpretano come xenofobia antiromena. Quindi covano rabbia e risentimento e si rifugiano nei discorsi nazionalistici importati dalla Romania attraverso i social media o la locale chiesa romena (una parte significativa del clero ortodosso romeno è ultraconservatrice ed euroscettica, compresi i preti di stanza nei paesi dell’Unione europea).
Nel frattempo le cose in Romania stentano a cambiare. Ogni stagione elettorale porta con sé nuove promesse, subito dopo dimenticate. L’alternarsi dei partiti al potere negli ultimi tre decenni e mezzo non ha fatto che esasperare i problemi e alimentare la sfiducia dei cittadini verso la classe politica. Intorno al 2020 il malcontento sociale si stava avvicinando a un punto di rottura: era solo questione di tempo prima che ci fosse un’esplosione di anarchia.
Poi sono arrivati, in rapida successione, due eventi importanti: la pandemia di covid-19 e l’invasione russa dell’Ucraina. Non erano collegati, ma in Romania – così come in altri paesi dell’Europa orientale – si sono intrecciati.
Dopo l’invasione, gli account social che avevano diffuso messaggi contro i lockdown e le campagne di vaccinazione hanno subito cominciato a trasmettere propaganda antiucraina e filorussa. Mentre la Romania si schierava dalla parte di Kiev, il Cremlino ha lanciato una vasta campagna di disinformazione e destabilizzazione politica che, oltre a manipolare i social media, mirava ad assicurarsi il sostegno del clero ortodosso romeno, antieuropeista e allineato con Mosca, e dei politici locali filorussi. In breve le parole d’ordine del Cremlino sono entrate nel dibattito pubblico.
Tutto questo, unito al crescente malcontento sociale, faceva immaginare che le elezioni presidenziali del 2024 sarebbero state molto complicate.
La situazione è diventata particolarmente critica quando Mosca è riuscita a far sì che al voto si presentassero non uno, ma più candidati potenzialmente filorussi. Uno di essi, lo sconosciuto Călin Georgescu, al primo turno del 24 novembre 2024 ha ottenuto la maggioranza relativa.
Mescolando le classiche teorie del complotto (lo sbarco sulla Luna non c’è mai stato) con posizioni antiscientifiche (pur vantando un dottorato in scienza del suolo, Georgescu dubita che la formula dell’acqua sia davvero H₂O) e deliri nazionalistici (secondo lui la lingua romena non deriva dal latino: è il contrario), Georgescu ha dato prova di grande sfrontatezza e di un singolare carisma, particolarmente apprezzato dagli elettori meno istruiti e bersaglio della propaganda del Cremlino. Ha perfino imitato il modello putiniano dell’“uomo della provvidenza”, con brevi video di lui a cavallo, che pratica judo e nuota in acque gelide.
Messaggi preconfezionati
Subito dopo il primo turno, il filosofo di corte di Putin, Aleksandr Dugin, ha twittato: “La Romania farà parte della Russia”. Aveva i suoi buoni motivi per festeggiare: il voto romeno era stato uno dei progetti russi di manipolazione dei social media più riusciti, come i servizi d’intelligence francesi e romeni hanno presto confermato. Perfino la Nato si è allarmata.
Servendosi di società fittizie, Mosca ha pagato una serie di influencer affinché diffondessero messaggi preconfezionati a favore di Georgescu. I russi hanno attivato circa venticinquemila account fittizi su TikTok per falsare gli algoritmi della piattaforma e far apparire Georgescu come il fenomeno popolare – per quanto costruito a tavolino – che poi in effetti è diventato.
Ma prima del ballottaggio la corte costituzionale romena ha annullato i risultati del primo turno, citando, oltre alla manipolazione dei social media, possibili violazioni della legge elettorale. A quel punto è stata convocata una ripetizione del voto per il maggio 2025.
Nel novembre 2024 George Simion era arrivato quarto, ma aveva dimostrato di poter esse l’uomo giusto per rimpiazzare Georgescu (a cui non era stato permesso di ricandidarsi e che attualmente è sotto inchiesta). Simion possedeva anche le giuste credenziali filorusse: non può entrare né in Ucraina né in Moldova, dove è sospettato di lavorare per i servizi segreti di Mosca. Anche se le accuse non sono state provate, il suo allineamento con il Cremlino, di cui ripete continuamente le tesi, è fuori discussione.
Il partito di Simion, l’Alleanza per l’unione dei romeni (Aur), è nato nel 2019 e un anno dopo ha avuto un ottimo risultato alle elezioni legislative, ottenendo il 10 per cento dei seggi, con un’aggressiva campagna complottista contro i lockdown e i vaccini, condotta soprattutto sui social media.
Il successo ha colto di sorpresa gli stessi leader di Aur, ma deve anche avergli fatto capire che gli elettori non prestano attenzione ai punti troppo complicati dei programmi politici: basta toccare le giuste corde emotive al momento opportuno.
Il percorso professionale di Simion prima dell’inizio della sua carriera politica non è chiaro. Sicuramente è stato un ultrà calcistico, ruolo che consisteva essenzialmente nel dirigere masse di tifosi facilmente eccitabili, provocandole, plasmando le loro emozioni, giocando con loro e guidandone i movimenti. Quest’esperienza è ben visibile nello stile politico suo del partito che guida.
Aur è una formazione tanto scaltra quanto ambizioso è il suo nome (in romeno significa “oro”). La politica può essere l’arte delle apparenze e della manipolazione, ma Aur ha escogitato qualcosa di perfino più estremo: la politica come puro fumo negli occhi.
Il partito è difficile da inquadrare ideologicamente: l’unico -ismo che potrebbe rendergli una qualche giustizia è l’opportunismo, che persegue con fanatica determinazione. Dopo essersi assicurato il sostegno dei leader dell’estrema destra europea, insieme a qualche foto in loro compagnia, Simion si è dato da fare per conquistare l’estrema destra statunitense.
Dopo la rielezione di Donald Trump, Aur ha abbracciato le posizioni Maga: Simion si è definito il Trump romeno e ha sostenuto di avere un accesso privilegiato all’amministrazione statunitense. Il partito ha siglato un contratto da 1,5 milioni di dollari con una società di lobbisti americana, che ha promesso interviste con i media statunitensi sulla stessa lunghezza d’onda ideologica. Non è chiaro fino a che punto l’investimento abbia ripagato.
Anche se è stato ospite di una serie di talk show, come quello di Steve Bannon, Simion alla fine non è riuscito a ottenere nessuna photo-opportunity con i funzionari della Casa Bianca, e tanto meno un loro sostegno esplicito. Nel suo insaziabile opportunismo, ha corteggiato e adulato pressoché chiunque gli potesse far guadagnare un po’ d’attenzione.
Questa commedia politica ha avuto anche dei momenti irresistibili, come quando, cercando d’ingraziarsi un popolare influencer terrapiattista, Simion ha promesso che se fosse diventato presidente avrebbe avviato un dibattito pubblico sulla reale forma della Terra.
Propaganda ammiccante
Alcuni definiscono Aur un partito fascista, ma i fascisti hanno delle idee in cui credono. Non sembra il caos di Simion e del suo partito: possono sostenere qualunque cosa si dimostri utile per raggiungere i loro obiettivi. Certo, hanno mutuato il linguaggio, l’iconografia e perfino la cultura organizzativa dal movimento fascista romeno della Guardia di ferro, attivo tra le due guerre. Ma hanno anche elogiato apertamente il regime comunista di Nicolae Ceauşescu e indicato in lui il precursore della loro idea di nazionalismo.
Aur può essere filocapitalista la mattina e anticapitalista il pomeriggio, a seconda del pubblico. In campagna elettorale ha difeso il diritto di proprietà e allo stesso tempo ha promesso espropri. Le case di chi ha lasciato il paese per lavorare all’estero, ha detto, sarebbero state “date ai poveri”.
Ma se pensate che Simion abbia qualcosa contro i migranti economici romeni che fanno lavori infimi in Europa occidentale, vi sbagliate. Sono stati il principale oggetto delle sue attenzioni. E quest’amore è stato ricambiato. Attribuendo le loro difficoltà ai pregiudizi antiromeni, sono stati facile preda della propaganda spietata e ammiccante di Aur. Anche se il partito minacciava di togliergli le case.
Fin dall’inizio Aur si è presentato come una forza “antisistema”: ha promesso un nuovo tipo di politica in un paese che ha perso ogni fiducia nella politica. In questo c’è una formidabile ironia. Raramente un partito romeno si è dimostrato più accogliente verso i voltagabbana. In Romania il trasformismo può essere uno sport nazionale, ma anche per i nostri standard la determinazione di Aur a corteggiare e accogliere politici molto discussi di altri partiti ha dell’incredibile.
Un trasformista seriale che abbia già militato in quattro o cinque formazioni diverse può sempre contare sulla calorosa accoglienza di Simion, specialmente se porta con sé dei soldi. Alla fine Simion e il suo partito hanno dato l’impressione che, lungi dall’essere una forza di rinnovamento, erano l’espressione condensata delle caratteristiche peggiori della politica romena .
E qui entra in campo Nicuşor Dan. Raramente un futuro presidente aveva cercato di tenersi così alla larga dalla politica. Brillantissimo studente al liceo, per due volte ha vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi internazionali di matematica. Dopo aver studiato matematica a Bucarest e Parigi, poteva avere una brillante carriera accademica in qualsiasi grande università del mondo.
Invece ha deciso di tornare in Romania, prima per fondare una scuola di specializzazione in matematica e poi per dedicarsi a progetti civici come la tutela degli edifici storici di Bucarest. Nel 2020 è stato eletto sindaco di Bucarest come indipendente, per poi essere confermato quattro anni dopo. Quando è scoppiata la crisi politica del 2024, ha deciso di candidarsi alla presidenza.
Estraneo ai giochi di partito, Dan era l’outsider. Gli mancavano la rete di contatti e le risorse finanziarie di cui in Romania dispongono i partiti più grandi, compreso quello di Simion. La sua campagna è stata improvvisata, nel migliore dei casi. Non ha aiutato nemmeno il fatto che Dan fosse poco carismatico e visibilmente a disagio nelle situazioni ufficiali. A causa del suo attivismo civico, che spesso aveva comportato scontri con le autorità (e fermi di polizia), aveva pochi amici nel ceto politico e ancor meno sostenitori.
Alla fine, però, ha trasformato tutto questo in un punto di forza: in un paese dove i politici sono così screditati, è stato eletto grazie alla sua immagine antipolitica, che contrastava nettamente con il cinismo dell’establishment e lo sfrontato opportunismo dell’Aur. Anche la mancanza di carisma di Dan è stato un vantaggio: “Voto il nerd” è presto diventato uno slogan molto popolare.
Ma ad assicurare la vittoria di Dan su Simion al secondo turno del 18 maggio è stata soprattutto la sensazione diffusa che fosse in gioco il “futuro europeo” della Romania. La posizione antieuropea di Simion ha toccato un nervo scoperto.
Quando il candidato di Aur ha detto che si era presentato alle elezioni per conto di Călin Georgescu, e che l’avrebbe nominato primo ministro, dandogli carta bianca nella gestione del paese, l’ansia collettiva è cresciuta a livelli di guardia. La memoria dell’abbraccio sovietico, durato per decenni, era ancora fresca nella mente di molti elettori anziani, mentre la prospettiva di rimanere tagliati fuori dall’Unione europea era particolarmente insopportabile per le generazioni più giovani e cosmopolite.
Quei segmenti della diaspora romena – medici, docenti universitari e persone che lavorano nel settore dell’informatica – che erano meglio integrati a livello sociale e professionale nei paesi adottivi e avevano smesso di prestare attenzione alla politica romena, di colpo si sono resi conto che, se non avessero votato, avrebbero rischiato di non avere più un paese a cui fare ritorno.
Tra le persone abituate a viaggiare e lavorare liberamente all’interno dell’Unione e che si identificano come “europee”, il pensiero di una possibile Romexit ha suscitato una risposta viscerale. Il loro è stato un disperato rigurgito di senso civico, nato da una profonda ansia identitaria contro la quale perfino la propaganda del Cremlino si è dimostrata inefficace. Almeno per questa volta.
(Traduzione di Nazzareno Mataldi)