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Paolo Moretti racconta l’audacia della Quinzaine des réalisateurs

L’envol di Pietro Marcello. (Le Pacte)

La Quinzaine des réalisateurs è la sezione del festival di Cannes che, storicamente, incuriosisce di più i cinefili per via della ricerca dell’innovazione. Nata nel 1969 dopo gli eventi del maggio 1968 come sezione “dissidente” rispetto alla selezione ufficiale, dal 2019 è l’italiano Paolo Moretti a curarla (succedendo a direttori artistici di alto livello come Édouard Waintrop e soprattutto Olivier Père), primo curatore proveniente dal nostro paese a essere stato scelto per questo importante luogo di scoperta dei nuovi talenti cinematografici.

Più vero che mai con tre edizioni da lui dirette (oltre a quella del 2020, annullata e limitata alla “sponsorizzazione” di una manciata di titoli) dove hanno primeggiato la qualità, l’originalità e una gran quantità di primi film e opere dirette da registe. Abbiamo così voluto dare voce a questa figura competente, gentile e sobria che, come già Carlo Chatrian, prima direttore di Locarno film festival e poi della Berlinale, è dovuta espatriare per rendere evidente a un mondo mediatico e culturale disattento che in Italia ci sono giovani personalità competenti di critici e selezionatori i cui talenti sono però riconosciuti all’estero. In questa intervista ci illustra criteri e titoli dell’edizione 2022 che saranno presentati dalla settimana prossima all’interno della cornice più ampia del festival di Cannes.

Un’esperienza unica
Per cominciare le chiederei una valutazione della sua esperienza, fin qui, alla direzione della Quinzaine, primo italiano a dirigere questa prestigiosa quanto mitica rassegna, ripercorrendo il suo tragitto personale. Complessivamente è soddisfatto di come sono stati recepiti i film presentati in queste tre edizioni, dal 2019 al 2021, sia come loro puro trampolino di lancio – essendo la Quinzaine un “logo di qualità” – sia in termini di risposta dei mezzi d’informazione?
Dirigere la Quinzaine è un’esperienza unica, e un grandissimo privilegio. La Quinzaine ha presentato film essenziali, tanto per il mio percorso di cinefilo che per il cinema contemporaneo. Raccogliere questa splendida eredità e farla dialogare con il tempo presente è una delle missioni più complesse, affascinanti e gratificanti che abbia mai affrontato.

Alle difficoltà legate alla natura stessa della missione, che ho potuto sperimentare nel 2019, si sono poi aggiunti i due anni di pandemia, con la sofferta ma inevitabile decisione di annullare l’edizione fisica nel 2020, poi compensata in parte dalle grandi soddisfazioni dell’edizione 2021.

Resta entusiasmante constatare, ogni anno, quanto una presentazione alla Quinzaine possa costituire un momento cruciale nel percorso dei registi e dei film che selezioniamo, e sono molto felice di seguire le traiettorie, spesso molto lunghe, dei film che abbiamo presentato.

Non credo però sia giusto aspettarsi gli stessi risultati da tutti i film selezionati e, al di là del grande successo anche commerciale di molte opere, posso dire che sono soprattutto soddisfatto del discorso che abbiamo costruito insieme al mio gruppo di lavoro, lavorando in particolare sull’idea di dare una pertinenza contemporanea al progetto originale della Quinzaine. Era questa la linea guida del progetto che avevo presentato al consiglio di amministrazione della Société des réalisateurs de films nel 2018 e che penso siamo riusciti a concretizzare in questi anni.

La fiaba di Pietro Marcello
La Quinzaine quest’anno si apre con l’attesissimo, anche in Francia, L’envol di Pietro Marcello con Louis Garrel e Noémie Lvovsky. Un film praticamente francese. Perché questa scelta?
Ammiro da anni il lavoro di Pietro Marcello, che trovo sia una delle voci più originali e visionarie del cinema contemporaneo. I suoi lavori riescono a coniugare miracolosamente codici antichi e modernissimi, fino a diventare atemporali. In L’envol abbiamo trovato molte delle qualità che cerchiamo nei film della nostra selezione, e in particolare, una forma di scrittura cinematografica profondamente personale che mette in discussione e reinventa formule e codici stabiliti. Pietro Marcello parla del film come di “una fiaba”, e non posso pensare a una descrizione più corretta.

Louis Garrel e Noémie Lvovsky hanno ruoli splendidi e importanti, ma i protagonisti del film sono soprattutto Raphaël Thiéry e Juliette Jouan, entrambi impressionanti per forza evocatrice e intensità. E poi, quale miglior titolo che L’envol, prendere il volo, per aprire un festival? Non vedo l’ora di condividerlo con il pubblico della Quinzaine.

Oltre che per una nutrita selezione, vi segnalate più che mai per l’alta presenza di film diretti o codiretti da registe, dieci sui 23 film selezionati. Sta realmente emergendo una nuova generazione di registe, sia sul piano qualitativo che quantitativo?
Già nella selezione dello scorso anno i film diretti o codiretti da registe erano 12 su 24. Quella del 2021 è stata la prima selezione paritaria in 53 anni di storia della Quinzaine. Quest’anno continuiamo su questa linea, ma fortunatamente non ne siamo i soli responsabili. I festival si situano infatti al termine della catena produttiva di un film e questi dati parlano quindi di un’evoluzione di tutta la filiera, dalla produzione al sostegno istituzionale. Penso che questa incoraggiante progressione, che siamo fieri di accompagnare, sia il frutto della mobilitazione collettiva par la parità e l’inclusione di questi anni, a tutti i livelli. I progetti portati da registe sono indubbiamente più numerosi e meglio finanziati rispetto a qualche anno fa e non possiamo che esserne felici.

El agua di Elena López Riera.

È aumentato dal 2021 il numero dei film d’esordio, nove su 23 in questa edizione, per non parlare delle ultime edizioni precedenti alla sua direzione. Sono così tanti i film d’esordio interessanti? Non c’è il rischio di sovrapporsi alla Semaine de la critique impostata su primi o secondi film?
Non credo ci sia questo rischio. La storia e la missione della Semaine de la critique sono molto diverse da quelle della Quinzaine, così come lo è il discorso che sviluppiamo con i nostri rispettivi programmi. E poi sì, fortunatamente le nuove voci, che meritano una visibilità e che testimoniano della vitalità e della costante capacità di rinnovamento del cinema contemporaneo, sono ogni anno molte di più degli 11 film che la Semaine può presentare. Una delle mie preoccupazioni durante questi anni è stata poi quella di lavorare sulla complementarietà della Quinzaine rispetto a tutte le altre selezioni e, nei primi film come nel resto del nostro programma, una delle missioni storiche della Quinzaine è quella di estendere lo spettro delle diverse pratiche rappresentate a Cannes. Il fatto che siano film d’esordio per noi è secondario, ciò che ci interessa è soprattutto la facoltà dei film di integrarsi coerentemente allo spirito della selezione. Contrariamente alla Semaine, la Quinzaine non ha nessun vincolo regolamentare tranne – per me – quello di essere coerente rispetto alla sua storia e alla sua missione.

Lo spazio dell’irriverenza
La Quinzaine è, storicamente, la sezione da dove arrivano molte delle nuove scoperte che spesso arricchiscono, più avanti, la selezione ufficiale. Vero anche negli ultimi dieci-quindici anni, con nomi che vanno da Xavier Dolan fino alla coppia Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis che l’hanno scorso hanno presentato Re Granchio, molto apprezzato da gran parte della critica internazionale. Ci vuole illustrare un po’ i titoli di questa nuova edizione così come la loro appartenenza geografica? Tra le opere selezionate figura il film di Philippe Faucon, regista francese nato in Marocco da noi ancora poco noto ma molto sensibile alla questione degli immigrati di vecchia o recente immigrazione, questione tanto più importante dopo le elezioni presidenziali francesi a cui stanno per seguire quelle legislative.
Splendido Re Granchio. È stato un onore e un piacere accompagnare il film di Alessio e Matteo nel 2021 e aspetto con impazienza il loro prossimo lavoro. Come dicevo la Quinzaine non ha vincoli di nessun tipo e il territorio geografico non è mai il criterio principale nelle nostre scelte. Cerchiamo però ovviamente di restituire il più fedelmente possibile la ricchezza della creazione cinematografica contemporanea mondiale, e siamo quindi attenti a tutti i territori, tanto geografici che estetici. Quest’anno, come tutti gli anni, l’Europa in generale e la Francia in particolare sono molto ben rappresentate, ma le nazionalità apparenti possono nascondere una natura più complessa.

A parte L’envol, che ha una produzione maggioritaria francese, ma è girato da un regista italiano in Francia, The dam di Ali Cherri per esempio è tecnicamente un film francese, ma girato da un regista libanese in Sudan. El agua è un film svizzero/franco/spagnolo, girato da una regista spagnola, Elena López Riera, in Spagna, De humani corporis fabrica è tecnicamente un film francese, ma girato da Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor, due antropologi del Sensory ethnography lab dell’università di Harvard e God’s creature è un film a produzione maggioritaria britannica, girato in Irlanda da due registe statunitensi, Saela Davis e Anna Rose Holmer. Insomma, la questione della nazionalità non è sempre un’evidenza.

Sarebbe difficile evocare qui ogni film della selezione ma, parlando di uno spirito generale, posso dire che tutti i film possiedono un certo grado di sperimentazione e di ricerca, di irriverenza e di audacia formale, concettuale o narrativa.

È vero che in passato la Quinzaine ha costituito spesso un passaggio verso la selezione ufficiale ma, anche se raramente, soprattutto in questi ultimi anni, può essere vero anche il contrario. Quest’anno per esempio abbiamo il piacere di presentare il nuovo film di Mia Hansen-Løve, che era in concorso lo scorso anno con Bergman island, e Alice Winocour, di cui presentiamo Revoir Paris, ha già presentato un film a Un certain regard nel 2015.

Ma in effetti sono delle eccezioni, la grandissima maggioranza dei registi della nostra selezione non ha mai presentato un lungometraggio a Cannes: sono 18 registi e registe su 23 film.

Per quanto riguarda il film di Philippe Faucon posso dire che si tratta di uno dei film più intensi e frontalmente politici della selezione. Nella continuità della sua opera, in uno stile sobrio e molto accurato, Faucon riprende un tema raramente trattato nel cinema francese: la storia degli harki, giovani algerini poveri che si uniscono all’esercito francese a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, durante e dopo la guerra per l’indipendenza dell’Algeria. La questione coloniale e postcoloniale, le conseguenze e le dinamiche che ne scaturiscono, restano tutt’oggi un terreno di scontro politico e Faucon è senza dubbio una voce preziosa, che offre allo spettatore immagini e situazioni molto lontane dalla retorica dell’attualità politica e invita a una riflessione più complessa e profonda, più umana.

Qualche parola, infine, sulle sue personali passioni cinematografiche. Se non quelle recenti, quantomeno quelle storiche.
Una delle mie più grandi passioni è l’opera di Werner Herzog, che ha peraltro un forte legame con la Quinzaine. È proprio alla Quinzaine che Herzog ha presentato i suoi primi lavori: Anche i nani hanno cominciato da piccoli nel 1970, Fata Morgana nel 1971, Paese del silenzio e dell’oscurità nel 1972 e Aguirre furore di Dio nel 1973.

I film di Herzog mi hanno accompagnato fin dall’inizio della mia cinefilia ed è un’opera così ricca, articolata, affascinante e complessa che, come tutte le grandi opere, trascende la propria materia per diventare spesso arte performativa, filosofia, e acquisire una dimensione spirituale che continua a impressionarmi.

E poi resisto a fare altri nomi, perché l’ultima volta che ci ho provato sono arrivato a 142 registi e registe per me assolutamente essenziali, ed era il 2003. Temo che oggi sarebbero molti di più !

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