04 settembre 2019 11:34

Immaginate un film d’autore potenzialmente di grande successo che amplia e rinnova fortemente le possibilità del cinema, sperimentale e (neo)classico insieme, profondo e immediato, provinciale e prossimo al cinema internazionale più radicale, popolare e raffinato, poetico e iconoclasta, ribelle ma dolce. Libero da ogni confine.

Utopia? Eppure è realtà, a nostro giudizio. Il regista campano Pietro Marcello nel suo libero adattamento di Martin Eden di Jack London sostituisce la California con la Campania. Presentato in Concorso a Venezia, con Luca Marinelli nella parte del protagonista, esce ora nelle sale.

Il regista mantiene il titolo originale del romanzo e quindi il nome del protagonista, nella sua liberissima trasposizione letteraria che è anche una trasferta geografica e insieme mentale, simbolica – per noi paese di migranti che ora dimentica ogni pietà per quelli di oggi – e una volta tanto alla rovescia. Non dall’Italia verso l’imperialistica America ma dall’America verso l’Italia. Dopotutto, siamo o non siamo il paese del western all’italiana?

Il lavoro della memoria
Il Martin Eden di Marcello è un film apparentemente ingenuo, fresco, soave, ovattato, sospeso, avvolgente, profondamente uterino, una nuvola delicata che nasconde una densità stellare da nana bianca. Non somiglia a nulla di quanto visto finora nel cinema d’autore internazionale, pur con tante prossimità. Gioca, mutandolo in poesia, anche sulla tradizione popolare italiana del mélo – emanazione del romanzo d’appendice – perfino del fotoromanzo. Il punto è che lavora sulla memoria, sulle reminiscenze. Ma le sue madeleines – archetipiche, quasi ancestrali in alcuni casi – al contrario di quelle proustiane nulla hanno di aristocratico, sono invece prima di tutto quelle della povera gente, dei proletari, o al massimo della classe media.

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La storia del marinaio, che entra in contatto con una famiglia aristocratica, si innamora perdutamente della loro figlia e raggiunge il successo uscendo dalla sua condizione di eterno aspirante artista e scrittore, è una storia di cui il film mantiene la rabbia anticapitalista come pure l’ambiguità ideologica, voluta dallo stesso London, vista la contiguità del romanzo con la vita del suo autore.

La prima qualità del film, forse la più diretta, è quella di far realizzare allo spettatore l’evidenza, l’assoluta naturalezza di questo transfert spaziotemporale tra il marinaio e il proletario, tra l’America e la Campania, in un passato, a volte all’apparenza recente, altre volte meno, ma che forse è un eterno presente (dal quale si vorrebbe però uscire).

Pietro Marcello annulla e confonde con nonchalance praticamente ogni confine, ogni limite nel suo Martin Eden, e a ogni livello. Come in fondo aveva fatto con i suoi precedenti film, gli straordinari documentari di poesia Il passaggio della linea, La bocca del lupo, Bella e perduta – per citare solo i titoli più noti e importanti – acclamati anche all’estero, compresa la difficile terra di Francia.

Bisogna tornare a vedere l’alba, aveva detto Ermanno Olmi. Pietro Marcello lo fa

In definitiva atemporale, la forma del suo primo film di fiction deve molto a (con)fusione dei limiti spaziali e temporali. Le immagini del girato sono come pastellizzate nei colori, raggiungendo quasi una consistenza vaporosa, una grana pittorica o da foto d’antan, come si diceva in quel passato sospeso raccontato dal regista e come si diceva ancora di recente.

Si affastellano singole inquadrature, talvolta fugaci, altre volte meno, quasi sempre rapsodiche. Un uomo, all’inizio, guarda da una finestra, e pare di vedere un quadro con una luce quasi alla Edward Hopper. Pare anche di (ri)vedere quello che abbiamo dimenticato di vedere. Con occhi nuovi, con il senso della meraviglia.

Bisogna tornare a vedere l’alba, aveva detto Ermanno Olmi. Pietro Marcello lo fa. La sequenzialità è intesa come flusso della coscienza e il cinema come flusso ipnotico, prossimo al senso in cui lo intendevano i surrealisti.

Piacevolissimo sconcerto
Il cinema è qui, come nel passato, un grande, potente, riattivatore di immagini sedimentate nel profondo della nostra coscienza. Queste immagini si incrociano nella parte iniziale con materiale di repertorio, immagini sceltissime che si immergono nel girato con altrettanta disinvoltura, raggiungendo una totale osmosi, una dimensione trasognata, come rimarcano nella nota di regia Pietro Marcello e lo scrittore Maurizio Braucci, autori a quattro mani della sceneggiatura.

Le questioni sono importanti, anche gravi, eppure ci sono una dolcezza e una leggerezza incredibili, stacchi musicali inattesi che divertono e immagano, quasi incongrui o iconoclasti. Pietro Marcello non sa che farsene dell’ortodossia, ibrida a piacimento. L’unico pericolo è che, alla lunga, questa leggerezza possa ritorcersi contro, e la narrazione, la drammaturgia, le tematiche possano essere svilite e l’insieme perdere forza. Ma a un certo momento, le immagini di repertorio fondamentalmente si arrestano.

Prima di arrivare a questo, grande è l’abilità di Marcello e dei suoi due montatori nel creare dubbio, incertezza, intrigare lo spettatore, il quale a tratti si chiede se la sua visione sia immersa nel girato o nelle immagini di repertorio. In altre parole lo porta a chiedersi in quale mondo si trova. Quando si arriva a una cascina nella campagna si ha il dubbio che siano tornate le immagini di repertorio, dubbio che si dissolve all’apparire di Luca Marinelli. Lo sconcerto che provoca è piacevolissimo, in realtà. Il senso dello spazio, anche quando filma nelle abitazioni, come quella della famiglia di Martin Eden, oppure la grande festa di società – sequenza magica che sarebbe valsa la pena far durare di più – è sorprendente. Si vuole restare sospesi lì dentro.

Stesso discorso per le immagini di repertorio, che abbiano un sapore anonimo, lembi di una memoria sia singola sia collettiva, oppure che rievochino qualcosa del grande cinema, quello di Dreyer, Bergman, Murnau. Frammenti iconici, potenti e spesso imponenti. A volte ieratici. Il tempo di un istante, ma fortissimo, bruciante quasi. Opera di meta-cinema, questo Martin Eden è una sapiente rivisitazione mnemonica del novecento, di quello che è andato e mai più tornerà. Del novecento degli umili, che Marcello fa assurgere a Novecento con la N maiuscola. Il regista ce lo fa riassaporare per fugaci momenti, come per renderci ancor più consapevoli di quel che è andato perduto e di quel che non sappiamo più vedere. I suoi frammenti, la sua frammentazione della memoria sono agli antipodi del postmoderno.

L’attore perfetto
Ancorando Martin Eden dal mare alla terra ferma napoletana, il regista trova l’attore perfetto in Luca Marinelli, come volto e come interprete. Nel suo caso i due aspetti sono davvero inscindibili. Marinelli ha una presenza dolce e magnetica dall’inizio alla fine, passa da una sequenza all’altra come fossero altrettante bolle sognanti dando però come interprete carne e sangue a un racconto politico e socioantropologico.

Al contempo il suo volto, fondamentale perché bello ma con i caratteri marcati della napoletanità – intesi come espressione di autenticità perduta, di vita vissuta – non ha nulla di quelli acqua e sapone del cinema di oggi, quintessenza di un cinema omologato che tende al marketing. Anche qui, Marcello annulla e rovescia confini che sembravano certi, rievoca bellezza del tempo che fu. Anche nella consistente dimensione politica, il regista annulla limiti e confini (del racconto storico, del dramma, della storia umana in quanto tale) quasi elaborando un suo metacinema – del tutto inedito e personale in questo film che si vuole anche riflessione indiretta sul cinema e sullo sguardo unico che esso ha posto sulle cose nel corso del novecento – prende come una dimensione metastorica.

Marcello, si ricollega a tematiche e modalità sperimentali già affrontate nei suoi documentari, a cui possiamo aggiungere i problemi del sud

Così, le tematiche più o meno politiche del romanzo, il conflitto tra la dimensione ideale e quella materiale, l’attacco all’individualismo attraverso lo stesso personaggio di Eden, la piena convinzione di London riguardo alla ferocia del capitalismo, delle sue leggi implacabili e intramontabili di sfruttamento, e il suo scetticismo verso le concrete possibilità del socialismo, della “moralità da schiavi” del socialismo americano, trovano eco e si ampliano in sequenze e materiali di repertorio, dove trova posto un anarchico come Enrico Malatesta.

E ancora l’ambivalenza, o ambiguità, di London, il desiderio di successo espresso proprio tramite Martin Eden, la consapevolezza che la celebrità sia dovuta non a quello che è diventato ma a quello che era in passato, trovano eco nella sequenza (auto)distruttiva all’università, dove si cita una delle ultime conferenze del poeta russo Vladímir Majakóvskij, grande cantore del socialismo sovietico morto suicida, insieme ad altri riferimenti. Provocazione interessante visto che London credeva a un socialismo, o a un comunismo, quasi di autocoscienza e non calato dall’alto. Altri due esempi di annullamento dei confini.

Marcello, si ricollega, ampliandole, a tematiche e modalità formali sperimentali già affrontate nei suoi documentari, a cui possiamo aggiungere i problemi del sud – nella sua visione oggi congeniti perché congeniti alle modalità del processo di unificazione italiana –, la sua critica alla (post)modernità e alla società dello spettacolo, così come intesa dal pensatore francese Guy Debord (morto suicida), e in particolare qui alla parziale delusione di lui, autodidatta, e di Braucci (che collabora con il regista fin da La bocca del lupo), nei confronti della cultura, una questione fondamentale anche nel Martin Eden di London. E infine l’ostilità verso il professionismo e l’accademismo, ma anche verso un cinema, o un’arte compiaciuta e chiusa nella torre d’avorio, soprattutto europea, come ha anche dichiarato al quotidiano francese Libération.

Da questo momento Pietro Marcello figura tra gli autori di punta del cinema d’autore internazionale, per la sua prossimità alle tendenze più radicali e originali del cinema, perché ricerca la memoria e l’arcaico attraverso l’ibridazione e la fusione di forme disparate, ma con modalità del tutto proprie, lontane da riferimenti a Michelangelo Antonioni, imperanti in gran parte del cinema d’autore d’estremo oriente, o da riferimenti espliciti al cinema di Pasolini, come nelle Mille e una notte del portoghese Miguel Gomes.

Pietro Marcello ricerca nell’arcaico una nuova alchimia del cinema – come fece girando con pellicola scaduta il film precedente Bella e perduta – che riesca nel miracolo di essere alternativa e insieme ponte tra cinema d’autore, soprattutto quello più innovativo e sperimentale, e cinema popolare. Così annullando, per l’ennesima volta, ogni limite e confine. E ponendo la prima pietra per un nuovo futuro delle forme e dei contenuti potrebbe contrastare quella dissoluzione nel finale nelle acque del film e del romanzo. Vale a dire quella dissoluzione di ceti sociali in nome dell’americanizzazione della società e della sua omologazione, quel dissolvimento dell’identità culturale popolare italiana e del novecento tout court, che per il regista equivale al dissolvimento del genere umano.

Ponendo la prima pietra potrebbe far sì che questo capolavoro amniotico, uterino, non sia di oblio ma, al contrario, rigenerante. Un veicolo di (ri)nascita. Forse, un nuovo Eden.

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