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Voglio avere cent’anni

Francesca Ghermandi per Internazionale

Questo articolo è stato pubblicato il 17 maggio 2013 sul numero 1000 di Internazionale.

Quando avevo vent’anni ero convinto che sarei morto giovane in un incidente d’auto come James Dean e grazie a questo avrei conquistato l’immortalità. Poi però sono diventato troppo vecchio per morire giovane e comunque non avevo fatto nulla per essere immortale, così non ci ho pensato più fino a quando, a 55 anni, ho cominciato invece a provare un certo interesse per la longevità. Era l’anno in cui avevo concepito una bambina, che con il suo arrivo al mondo aveva alzato la mia posta in gioco nel futuro. Era una cosina allegra. Mi guardava raggiante e rideva quando la portavo sulle spalle e la facevo roteare. Una volta ha scritto“papà” a lettere enormi sul vialetto d’ingresso con un gessetto verde e per molte settimane, malgrado la pioggia battente, ho continuato a leggerlo quando tiravo fuori la macchina dal garage. Un pomeriggio di primavera si spingeva in alto sull’altalena di corda dei vicini, ridendo come una pazza perché sfiorava con la testa i rami di un melo. Mi sono spaventato a morte, ma lei rideva e rideva. Io ero fermo sulla porta della cucina, pronto ad accorrere per farla rallentare, quando la testa le è scomparsa tra i fiori,e subito dopo ha messo i piedi per terra ed è scivolata fino a fermarsi e rotolare nell’erba, ridendo.

Ho ancora più interesse per la longevità ora che lei ha 15 anni e io ne ho 70. Un uomo soffre all’idea di abbandonare i suoi piccoli ai coyote e agli alligatori, perciò ho ordinato al mio medico di farmi raggiungere gli 85anni e lui si sta impegnando (ho già rinunciato alle sigarette e qualche anno fa una sera mi sono preso una bella sbronza e ho detto addio all’alcol). Il mio sangue è fluidificato per scongiurare un ictus, prendo un betabloccante per prevenire la fibrillazione atriale e dodici anni fa un chirurgo che si chiamava Michael Orsuzulak mi ha ficcato le dita nel cuore per cucire una valvola mitrale ballerina. Ho molti vantaggi di cui i miei nonni, scomparsi entrambi a poco più di 70 anni, non hanno mai goduto e così, avendo recentemente sepolto una mamma di 97 anni sopravvissuta a mio padre (di 88), mi concedo di pensare ai 90 e perino ai 95. E ora la scienza medica ha annunciato che presto sarà normale raggiungere i cento. Ottimo. Credo di essere pronto.

Un uomo soffre all’idea di abbandonare i suoi piccoli ai coyote e agli alligatori, perciò ho ordinato al mio medico di farmi raggiungere gli 85 anni e lui si sta impegnando

I rischi della vecchiaia li conosciamo tutti grazie alle riunioni familiari e alle feste di compleanno. I cugini con cui un tempo scorazzavi all’impazzata si sono appesantiti ed entrano vacillando nella stanza per crollare in un posto morbido e appisolarsi. La conversazione si riduce a un mormorio. Tu cerchi di mantenere un tono leggero stando alla larga dall’argomento delle malattie, ma a un certo punto inevitabilmente escono fuori e allora, a meno che tu non faccia cadere un vassoio di porcellana per terra o il cane si strozzi con un osso, sei condannato a sentire parlare della prostata di qualcuno.

A settant’anni io stesso ogni tanto ho un’improvvisa sensazione di decrepitezza. Se attraverso di corsa una strada a quattro corsie piena di traffico, mi rendo conto di non avere più la falcata dei miei vent’anni, quando giocavo come esterno destro nella squadra di softball del Jack’s auto repair e balzavo nel parcheggio per intercettare una palla. Ora corro come una papera e inclino la testa quando qualcuno mi parla. Scendo le scale tenendomi al corrimano. Il cervello è vecchio e a volte i circuiti della memoria non scattano al momento giusto: devi ringraziare Dio per Google quando il tuo cervello ti suggerisce tatto, afta, taffetà, e tu non fai altro che prendere il cellulare e cercare su Google “presidente obeso degli Stati Uniti” ed eccolo qui, William Howard Taft. Se questo mi succede a settant’anni, figuratevi come sarò tra un paio di decenni. Il comico Jonathan Winters faceva una crudele caricatura dello stato confusionale degli anziani, io e i miei compagni di scuola cercavamo di imitarlo – la voce querula, i vuoti mentali ai limiti della demenza – e ora l’autore della satira si trasforma nella sua vittima.

Mi rendo conto che vivere oltre i settanta, la soglia biblica, è una cosa innaturale. La longevità non è il piano della natura per noi. Un uomo è programmato per declinare. La natura voleva solo che trovassi una femmina, la montassi, la ingravidassi, allevassi la prole fino a quando è in grado di cavarsela da sola e poi mi togliessi di mezzo, andassi a morire e lasciassi spazio ai giovani. La natura non ha nessun interesse per i miei anni crepuscolari e per il mio piano pensionistico. Una volta che hai cresciuto i tuoi figli, la natura non sa che farsene di te, ed è per questo che gli uomini sopra i cinquant’anni hanno la disfunzione erettile. La natura vuole che tu abbia un bel cazzo duro negli anni dell’accoppiamento e dopo, quando il tuo sperma diventa scarso, appannato e meno ambizioso, la natura è ben contenta di lasciarti il pisello floscio e senza vita. Il Viagra in natura non c’è. La soddisfazione sessuale dei maschi in pensione non ha alcuna importanza per il progresso della specie. Dissipare denaro per prolungare la vita di gente inutile non è naturale. La natura sa che, passati i dodici anni, i tuoi figli non hanno assolutamente niente da imparare da te. È per questo che i loro ormoni si scatenano durante l’adolescenza e loro ti trattano come una pezza da piedi: è la natura che gli dice “allontanati da queste persone, hanno torto, non li ascoltare, va’ a trovarti un compagno”. Vivere fino a cent’anni, o anche solo 80 o 90, è un’idea artificiale. Lo so. Eppure, penso, è una bella idea artificiale. Come volare, o la protesi del femore, o la panna senza grasso per il caffè.

Gli statunitensi sono favorevoli alla longevità. Con uno scarto di 69 a 22, sono contrari ai tagli all’assistenza medica. È questo che ha consegnato la Florida, uno stato repubblicano, a Barack Obama e ha fatto affondare Romney: il vivo interesse dei settuagenari ad avanzare nella terra degli otto e persino, a dio piacendo, dei nove e dei cento. La sanità pubblica ha provveduto a garantire a mia madre i suoi ottant’anni e più introducendo negli Stati Uniti un’idea rivoluzionaria: solo perché sei vecchio non significa che tu debba accettare di sentirti una schifezza. Mia madre non esitò ad andare dal dottore e così il suo cancro al colon fu scoperto per tempo e lei optò per un grosso intervento chirurgico e andò tutto bene. Mio padre non si fidava dei medici e quando diventò sempre più sordo si ritirò in un suo mondo personale. Aveva paura degli ospedali. Una volta, in una clinica, gli inserirono in gola un tubo per l’alimentazione e per papà questa fu l’ultima goccia. Mai più, disse, a qualunque costo. Fu messo in assistenza domiciliare e si addormentò dolcemente. Mia madre continuò a navigare. I medici si prendevano cura dei suoi occhi e del suo benessere mentale: negli ultimi anni i suoi attacchi di panico furono alleviati da un farmaco, un fisioterapista convinse la vecchia signora ad allenarsi quotidianamente e fino alla fine, quando un infermiere ci consegnò una bottiglia di morfina da spruzzarle in bocca mentre moriva, il sistema sanitario è stato pronto a rendersi utile. E se la scienza medica dice che i cento anni presto saranno i nuovi 80, io sono disposto a crederci.

Il bello della vecchiaia è la libertà di vivere secondo i ritmi del tuo corpo senza curarsi delle esigenze di un’organizzazione o, nel caso di scrittori come me, dell’ostinata ricerca di ricchezza e notorietà. Puoi svegliarti la mattina a qualunque ora e infilarti dei vestiti logori, oppure puoi andare in giro in mutande, far uscire il gatto, scaldarti una cialda surgelata, leggere il giornale, andare su internet e far visita ai tuoi eroi preservati su YouTube, Ike e Tina Turner, i ragazzi di Liverpool, Chuck Berry, Janis Joplin, e scivolare graziosamente verso il mezzogiorno e poi prendere la grande decisione della giornata: una passeggiata veloce prima e poi un pisolino o viceversa. C’è anche tua moglie, ma la guerra tra voi è finita e lei non strilla più. Non dice: “Perché non mi parli mai?”. Non comunicate da tanto di quel tempo che lei ormai lo accetta. Hai il diritto di rimanere zitto e ora, in vecchiaia, questo diritto è stato sancito, come il tuo diritto di possedere un angolo della casa e tenerci la tua roba senza pensare all’ordine. Vi aggirate sperduti nel vostro domicilio, gingillandovi, lavorando a progetti che non hanno una spiegazione logica: lei mette a posto vecchie lettere e fotografie, tu frughi in barattoli di caffè pieni di dadi e bulloni accoppiandoli, poi apri una lattina di fagioli, la scoli, ci spremi sopra un po’ di ketchup e di rafano e li mangi freddi, e lei non fa commenti. Anni fa avrebbe detto: “Aspetta che ti scaldo i fagioli”. E poi, per vari anni, ha detto: “Come diavolo fai a mangiare i fagioli freddi senza tirarli neanche fuori dalla lattina?”. Ora è irrilevante. E lo è anche la tua igiene personale. Per anni hai coltivato la teoria che lavarsi regolarmente uccida i batteri naturali del corpo e renda vulnerabili a infezioni e pestilenze, ma la pressione sociale ti impediva di testare questa teoria. Ora puoi farlo. E grazie al tuo rifiuto di farti il bagno, non ti becchi un raffreddore da sei anni. Lei ha imparato a vivere con un te non lavato. I tuoi vecchi amici del Five spot bar invidiano la tua libertà. Tu arrivi intorno alle quattro del pomeriggio, Jimmy ti porta un bicchiere di birra e un goccio di whisky e ora se ti va puoi parlare liberamente. Puoi sostenere il presidente su una certa questione oppure no, puoi essere un fedele episcopale oggi e un ateo militante domani, puoi essere pro o contro le armi, dipende da te. Non sei inibito dalla necessità di conformarti ai tuoi colleghi e non sei condizionato dalla paura del sarcasmo di tua moglie. I tuoi compagni sono più giovani, devono ancora rispettare orari rigorosi, ma tu hai ottant’anni e nessuno ti farà una scenata se non torni a casa entro le sei. Nessuno si metterà a inveire e farneticare se il tuo alito puzza di birra. L’obbrobrio morale non ha un grosso peso nella tua vita. Sei più libero di quanto tu sia mai stato. E ora guardi negli occhi Jimmy, che è preoccupato per la sua prostata, e dici“amico, quando mi hanno tolto la prostata, otto anni fa, pensai che fosse la fine, e ora vorrei averlo fatto molto tempo prima. Perché? Te lo dico io perché. Non penso più al sesso. Non ho assolutamente nessun impulso.Nessuno. Che sollievo. Ti lasci tutte quelle sciocchezze alle spalle”. I beni materiali non t’interessano, e neppure l’aspetto personale e l’attrattiva sessuale: sei diventato un santo. Questo è il lato positivo della longevità.

Ormai comincio a essere consapevole di questo lasciarsi andare, ed è un cambiamento significativo. Gli obiettivi di quando avevo sessant’anni – imparare il tango, diventare campione di rovesci a tennis, scalare l’Himalaya, scrivere il Grande Romanzo Americano – sono appassiti come le rose della settimana scorsa, e ho rinunciato all’obiettivo di tutta la mia vita – ridete se vi va, non me ne importa – quello di vincere il premio Nobel per la letteratura.

Gli svedesi hanno fatto chiaramente capire che gli Stati Uniti non sono benvenuti nel club, è dal 1993 che nessuno di noi lo vince. Preferiscono autori sconosciuti di paesi minuscoli come Ishtar Waha Mahnoosh, poeta che scrive nel suo dialetto piccoli epigrammi noti come wihi (“La cicala contusa canta per un pomeriggio e muore sotto il tacco del mendicante dalle enormi sopracciglia”), e se siete John Updike o Philip Roth andate a farvi fottere. Permettere agli svedesi di assegnare il premio Nobel per la letteratura è come consentire agli svizzeri di decidere chi deve entrare nell’albo d’oro del baseball. Per un po’ mi ha fatto rabbia e mi sono rifiutato di ascoltare le canzoni degli Abba e di comprare una Volvo, ora mi è passata. Me ne infischio. Non penso assolutamente al premio Nobel. Quel pallone si è sgonfiato. Non ha nessunissimo significato per me. Passo più tempo a pensare al Nord Dakota che al premio Nobel.

E allora via il premio Nobel, addio, adieu o, come direbbero gli svedesi nella loro piccola lingua curiosa, avsked, del plauso mondiale non mi importa un’acca, un fico secco, un accidenti. Il premio Pulitzer, il titolo di poet laureate del Minnesota, una targa per meriti speciali, diecimila chilometri come frequent flyer: dateli a qualcun altro. Questo è un cambiamento radicale nella vita di un uomo, la scomparsa della sete di gloria. Puff!

Quando scruto la foschia della vecchiaia, capto degli indizi su come potrebbe andare (fatta eccezione, Dio non voglia, per qualche disastro invalidante). Le mie amiche Mona, 79 anni, e Suzanne, 76, sono ottimi modelli: zampettano in giro, si allenano in palestra, fanno pranzi conviviali, camminano di buon passo, vanno al teatro e ai concerti, conservano una personalità gentilmente spiritosa e stoica. Ma cento? Cosa fare degli anni extra? L’assistenza medica che ti consegna al tuo centenario non garantisce che il pacco arrivi intatto. I marmi rischiano di andare persi. Il silenzio e il buio potrebbero avvolgerti. Potresti sembrare una vecchia tartaruga. O un ciocco di legno.

Eppure un uomo deve avere una missione e la longevità comporta una grande responsabilità. Sei un reperto vivente e devi accettare questo ruolo bizzarro con grazia, senza giustificarti, e recitare la parte. Quando ero un ragazzo e assistevo alle parate in Minnesota, vidi l’ultimo reduce della guerra civile ancora in vita accasciato sul sedile posteriore di una decappottabile e con un berretto blu in testa. Era Albert Woolson di Duluth, e fino alla sua morte a 109 anni, nel 1956, partecipò a molte parate. Era stato il tamburino del primo reggimento del Minnesota e ora era un relitto macilento che alzava la piccola mano e salutava la folla acclamante, il nostro ultimo legame con Abraham Lincoln, il generale Grant e la carica di Gettysburg ancora in grado di respirare nell’epoca di Elvis Presley, dei drive in e della bomba H. Quando vidi Woolson avevo dieci anni e fu un’esperienza illuminante. La guerra civile, i carri tirati dai cavalli, le signore con gli abiti di crinolina, le locomotive a vapore, le dolci canzoni sulla luna e gli addii malinconici, gli accampamenti degli Ojibway davanti alla piccola cittadina di Minneapolis: quel mondo non era poi così lontano dal nostro. Esisteva nella memoria di quel vecchio seduto in una decappottabile, tutto colorato e brulicante nella sua testa. Non era una storia, era vero. Lui c’era stato.

Non sarò arcaico e affascinante come l’ultimo reduce, ma come reperto storico non sono privo di interesse. Sono stato su un carro di fieno con mio zio Jim quando ancora lavorava la terra con un tiro di cavalli belgi e qualche volta li ho cavalcati attaccandomi alla loro criniera, con le briglie che tintinnavano mentre salivano la strada fino al campo di fieno. Ho visto New York nel1953 e ho dormito su una scala antincendio durante un’ondata di caldo. Ho sentito alla radio quando Buddy Holly morì in un incidente aereo. Ho cantato i gospel a un angolo di strada mentre un predicatore esortava i passanti a dedicare la vita al signore. Ho scritto i miei primi articoli su una macchina da scrivere Underwood usando la carta carbone. Ho visto suonare i Rolling Stones in un campo di hockey durate il loro primo tour americano. Ho avuto come redattore William Shawndel New Yorker. Ho condotto un programma radiofonico. Ho rifiutato la leva militare durante la guerra del Vietnam. Non sono certo l’ultimo reduce ma quando, a Dio piacendo, mi avventurerò negli ottanta e traballerò nei 90 e 91, queste esperienze diventeranno sempre più interessanti per i giovani. Me ne starò seduto nel cortile della mia casa a Saint Paul, nel Minnesota, con un completo nero e un berretto da baseball, ed elargirò ai giovani storie di metà novecento ogni volta che qualcuno di loro ne avrà voglia.

Me ne starò seduto al sole a cantare Frankie and Johnny e donerò al mondo una qualche ampiezza e maestà mentre nel tempo libero potrei scrivere un sonetto o sonnecchiare su un volume di Orazio o Norman Mailer. Se verrò allontanato dal mondo prima, così sia, ma se la scienza medica desidera che tenga duro, allora farò del mio meglio. Tutto quello che chiedo è che gli altri centenari mantengano le distanze. Mi lascino spazio. Niente rimpatriate, per favore. Preferisco frequentare ragazzi di venti e trent’anni per i quali averne cento è davvero straordinario. Se cento diventa comune e normale, allora tanto vale che mi spari. Non ho vissuto un secolo solo per essere normale.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è stato pubblicato il 17 maggio 2013 sul numero 1000 di Internazionale.

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