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In Birmania la giada è un tesoro che fa gola a molti

Vicino a Hpakant, nello stato birmano di Kachin, 4 luglio 2020. Soldati e operatori della Croce rossa portano via la vittima di una frana in una miniera di giada. (Ye Aung Thu, Afp)

L’impunità e la ricchezza a portata di mano. Invitato a Mosca lo scorso 23 giugno in uno dei suoi rari viaggi all’estero, il capo della giunta birmana, generale Min Aung Hlaing, sfoggiava un lussuoso orologio svizzero del valore stimato di diverse decine di migliaia di euro e, all’anulare, un anello con una giada luccicante di valore inestimabile. Il golpista in uniforme esibiva il suo patrimonio davanti agli alleati russi, fornitori di armi e sostenitori leali del regime dopo il colpo di stato del 1 febbraio 2021.

Quello dell’estrazione della giada, il cui più grande giacimento al mondo si trova a Hpakant, nello stato Kachin (nella Birmania settentrionale) è un settore opaco, corrotto e redditizio, controllato sin dagli anni novanta dai militari. “La scatola nera delle Tatmadaw (le forze armate birmane)”, lo definisce un rapporto dell’ong britannica Global witness pubblicato martedì 29 giugno 2021, a cui Mediapart ha avuto accesso in esclusiva.

Questa lunga inchiesta svela gli ingranaggi sconosciuti di un settore che generava ogni anno tra i due e i ventisei miliardi di euro, corrispondente alla metà del pil birmano. È difficile però stimarne con precisione gli introiti, perché fino al 90 per cento delle pietre viene venduto illegalmente in Cina, paese frontaliero e principale consumatore di giada al mondo.

Mentre la giunta birmana affronta milizie di autodifesa e gruppi etnici ribelli, scatenando una violenta repressione contro gli oppositori al colpo di stato (con più di 880 morti secondo l’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici), i proventi della giada sono un modo per ricompensare gli ufficiali e garantire la coesione dell’esercito.

La zona di Hpakant, sigillata da posti di blocco, consente ai militari di raggranellare cospicue mazzette, al punto che gli ufficiali si contendono i posti strategici della regione, quelli ritenuti particolarmente remunerativi. “La giada è una fonte di clientelismo e di ricchezza individuale che permette di garantirsi la lealtà delle truppe”, afferma Keel Dietz, autore del rapporto ed esperto presso Global Witness.

Affari di famiglia
Secondo l’ong britannica la corruzione coinvolge anche la famiglia di Min Aung Hlaing, l’uomo forte della giunta: suo figlio, Aung Pyae Sone, si è ricavato un piccolo impero nel settore immobiliare, in quello delle palestre, nell’industria farmaceutica e nel turismo. L’uomo d’affari ha tratto enormi benefici dall’ascesa del padre nell’esercito.

Secondo diverse fonti, esigerebbe delle commissioni su ogni consegna di dinamite a Hpakant. “La dinamite è essenziale per l’estrazione mineraria”, sottolinea Keel Dietz. “Le Tatmadaw controllano l’accesso alle miniere e l’importazione di esplosivi. Per avere l’autorizzazione a portare la dinamite bisogna pagare il comando militare del nord e una parte di quel denaro finisce nelle tasche del figlio di Min Aung Hlaing. È poco probabile che suo padre non sia a conoscenza di un simile accordo”.

Prima del colpo di stato il governo della Lega nazionale per la democrazia (Lnd), guidato dall’ex leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi, imprigionata dalla giunta, aveva cercato invano di regolamentare il settore della giada, facendo votare nel 2019 una nuova legge sulle pietre preziose che conteneva un provvedimento molto forte: i permessi per scavare non sarebbero stati rinnovati dopo la scadenza.

La norma però ha avuto un effetto perverso imprevisto. Le compagnie minerarie hanno cominciato a scavare a gran velocità, nonostante i rischi, per estrarre la maggior quantità di giada prima della scadenza dei loro permessi. Non si preoccupavano nemmeno più di smaltire i rifiuti, lasciandosi alle spalle una scia di ammassi di terra pronti a crollare.

A Hpakant si sono moltiplicati gli incidenti mortali. Nell’aprile del 2019 una miniera è collassata con violenza su una cinquantina di minatori. L’anno successivo, il 2 luglio 2020, un giorno di nebbia, un’onda di acqua melmosa alta sei metri e provocata da un crollo ha inghiottito quasi duecento persone. È stata la catastrofe mineraria più letale della storia della Birmania. Le ricerche sono state lente perché si era nel pieno della stagione delle piogge. Dopo qualche giorno i soccorritori hanno capito che l’argilla non avrebbe più restituito i corpi dispersi.

Una tregua per sfruttare la giada
Lo sfruttamento frenetico della giada si basava prima del colpo di stato su una sorprendente collaborazione tra i militari birmani e i gruppi etnici ribelli presenti nella zona, come l’Esercito di indipendenza del Kachin (Kia), l’Esercito unito dello stato Wa (Uwsa) e l’Esercito dell’Arakan (Aa). A svelarlo è sempre Global Witness.

Le Tatmadaw e i loro avversari, che si scontrano talvolta nelle aree periferiche, collaboravano in un clima di pace relativa. “Hpakant non è un luogo in cui si combatte, è un luogo in cui si fanno soldi”, afferma un politico birmano citato nel rapporto.

Società minerarie che appartengono all’esercito e gruppi ribelli condividevano perciò ruspe e manodopera per scavare il più rapidamente possibile nell’area assegnata, prima che il loro permesso scadesse. I profitti venivano suddivisi e successivamente usati nei conflitti. La pietra verde era dunque uno dei motori delle interminabili guerre etniche che lacerano la Birmania dalla sua indipendenza nel 1948.

Dopo il colpo di stato dell’1 febbraio la situazione è cambiata. I militari, alla guida del governo, hanno adesso il controllo dei permessi di trivellazione e a Hpakant sono ripresi violenti combattimenti. I ribelli kachin hanno attaccato diverse postazioni dell’esercito birmano nei pressi delle miniere.

Il tempo delle alleanze di circostanza sembra ormai finito e l’attività va avanti a rilento. Ad aprile del 2021 la giunta ha organizzato una vendita all’asta nella capitale Naypyidaw, per consentire alle imprese di smerciare le loro pietre preziose: giada, perle o rubini. Secondo il rapporto, in eventi di questo tipo un tempo giravano centinaia di milioni di dollari. Stavolta in dieci giorni le aste hanno fruttato solo 32 miliardi di kyat, la moneta birmana, ossia circa 22 milioni di dollari.

Il 21 giugno del 2021 l’Unione europea ha stabilito delle sanzioni contro la Myanmar Gems Enterprise (Mge), azienda pubblica birmana e uno degli attori principali nel settore della giada, ormai sotto il controllo dell’esercito. “Prendendo di mira il settore delle pietre preziose e del legname lo stesso giorno (anche la Myanmar timber enterprise è stata colpita da sanzioni, ndr), questi provvedimenti puntano a limitare la capacità della giunta di trarre profitto dalle risorse naturali della Birmania, pur essendo state concepite in modo tale da non alimentare pregiudizi eccessivi nei confronti della popolazione”, ha dichiarato in un comunicato il Consiglio d’Europa.

Due mesi prima i 27 stati dell’Ue avevano già sanzionato le conglomerate dell’esercito Myanmar economic holdings limited (Mehl) e Myanmar economic corporation (Mec), che oltre a svariate attività che vanno dalla birra alle telecomunicazioni possiedono numerosi permessi di sfruttamento minerario. Gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno preso provvedimenti simili. Nonostante ciò, poiché una grande porzione del commercio della giada è illecito e ha come destinazione la Cina, alleata storica dell’esercito birmano, “gli effetti delle sanzioni occidentali saranno limitati”, osserva Keel Dietz.

L’epidemia di covid-19, che ha provocato più di tremila morti in Birmania, ha spinto poco prima del colpo di stato numerosi lavoratori poveri e disoccupati nella zona di Hpakant. Con un guadagno mensile di poco superiore ai duecento dollari al mese, questi minatori indipendenti, che sono già più di trecentomila nell’area, perlustrano pericolosamente gli scarti delle compagnie minerarie e dormono nei campi devastati dall’eroina e dalla metanfetamina.

Di notte i più temerari continuano a cercare alla luce di lampade da minatore, abbarbicati alle falesie, trasformati in schiavi di un settore crudele. L’anello del generale Min Aung Hlaing costerà numerose vite.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito su Mediapart.

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