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A Shanghai il lockdown è finito, ma uscirne non è facile

Sotto un ponte di Shanghai dopo la fine del lockdown, 2 giugno 2022. (Anadolu Agency/Getty Images)

La buona notizia è che dopo tre mesi Shanghai è uscita dal lockdown, la cattiva è che per i 25 milioni di abitanti della metropoli più cosmopolita della Cina riprendersi non sarà così facile. In Italia ne sappiamo qualcosa, e vedere le immagini della città che dalla mezzanotte del 31 maggio ha cominciato a rianimarsi fa riemergere sensazioni che forse avevamo dimenticato.

In realtà un confinamento così rigido e mal organizzato – con cittadini lasciati senza cibo e medicine – non è stato sperimentato in nessun altro paese, forse solo in India, dove nel 2020 lo scarsissimo preavviso aveva lasciato milioni di persone nel panico. Ma la particolarità del caso di Shanghai, scrive Chang Che in un articolo sulle ricadute profonde di quest’esperienza sulla società, “è che è stato come una malattia autoimmune: le morti per covid si sono evitate al costo di uno spaventoso autolesionismo”. Mentre a Wuhan oltre al terrore del virus c’era stato quello delle autorità, gli abitanti di Shanghai temevano solo le autorità, ha commentato un libraio parlando con Chang.

Il risultato è “un oceano di sfiducia e sensazione di tradimento” tra i giovani, simile, secondo Chang, a quello lasciato nel giugno del 1989 dalla repressione delle proteste di piazza Tiananmen, di cui oggi ricorre il 33° anniversario. “Come gli studenti di Pechino allora, i giovani shanghaiesi sono pronti ad andarsene”. Entrambe le esperienze hanno implicato morti deliberatamente perpetrate per mano di esseri umani, un totale malcontento giovanile e la distruzione di un’azione collettiva. Solo che la repressione di Tiananmen è avvenuta in una piazza pubblica, sotto gli occhi dei giornalisti stranieri, mentre il dramma di Shanghai si è consumato dentro le case, al riparo dai testimoni.

Era inevitabile? L’alternativa al lockdown rigido anche in presenza di pochi casi di covid-19 è lasciare che il virus circoli, con il rischio che la parte più vulnerabile della popolazione – gli anziani, di cui solo una minoranza è vaccinata – ne paghi il prezzo. Secondo uno studio di Nature citato da Chang, la convivenza con il virus costerebbe 1,5 milioni di vite.

Se chi può medita di andarsene, tra i meno fortunati si sta diffondendo una nuova forma di resistenza. Recentemente su Internazionale è uscito un bel reportage della Zeit sul fenomeno degli “sdraiati”, tanping in cinese: i giovani che per reazione a una società ipercompetitiva che gli chiede troppo scelgono di mollare la rincorsa del successo, di ritirarsi in disparte. Quello che sta succedendo a Shanghai è qualcosa di ancora più radicale, con una punta di nichilismo, un “tanping con gli steroidi”, come un amico cinese di Chang ha definito il nuovo fenomeno, quello dei bailan, letteralmente “rinunciare alla vita”, “perdere di proposito”. Dato che il futuro è nero, senza prospettive, tanto vale buttarcisi in toto e accelerare il processo di deterioramento.

Pare che il termine all’inizio si sia diffuso sui social network tra le comunità di appassionati di videogame grazie a un influencer per poi dilagare. Comprare una casa costa troppo? Lascia perdere e vai in affitto e preparati a pagare sempre di più. Cercare un o una partner è faticoso? Rimani single e vivi in solitudine. Non c’è speranza di uno scatto di carriera? Prendi più ferie e poltrisci. Questa in sintesi la filosofia dei bailan, la versione cinica e disperata degli sdraiati.

Questo articolo è tratto da una newsletter settimanale che racconta cosa succede in Asia. Ci si iscrive qui.

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