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La pandemia non ha fermato le lotte sindacali in Indonesia

Un supermercato a Yogyakarta, Indonesia, 30 maggio 2020. (Ulet Ifansasti, Getty Images)

Negli ultimi trent’anni il piccolo e frammentato movimento sindacalista indonesiano ha fatto leva soprattutto sulla sua capacità di mobilitazione in importanti centri industriali per strappare concessioni a datori di lavoro e governo. La pandemia di covid-19 l’ha privato di quest’arma, e nessuno si sarebbe stupito se questo avesse cancellato qualsiasi traccia del movimento dei lavoratori dalla scena pubblica.

Invece i sindacati hanno colto l’occasione sfruttando altre strategie del loro repertorio classico per chiedere misure di contenimento più efficaci e se non altro rinviare il tentativo di usare la pandemia per approvare una nuova legge contro i lavoratori.

In Indonesia quando si dice che qualcuno sta “come una rana in un guscio di cocco” si intende che quella persona pensa di sapere tutto ma in realtà non sa nulla, irretita dall’eco della sua voce che rimbalza intorno. Questo è accaduto al governo indonesiano di fronte alle implicazioni del covid-19 sulla salute pubblica.

In Indonesia è in atto un processo di negazione su vasta scala, riguardante la diffusione del virus, la necessità di misure sanitarie più rigide per contenerlo e i rischi che il virus pone al benessere di 270 milioni di cittadini. Quanto questa negazione sia profonda si è visto soprattutto nelle risposte del ministero della salute e dei funzionari più importanti, che inizialmente hanno snobbato la minaccia, suggerendo che la posizione geografica dell’Indonesia, sulla linea dell’Equatore, e le specificità genetiche della sua popolazione – e perfino l’intervento divino – avrebbero protetto il paese da qualsiasi danno.

Provvedimenti contraddittori
Il covid-19 è stato riconosciuto ufficialmente come potenziale epidemia solo il 28 gennaio 2020, quando è stato proclamato uno stato di emergenza di un mese in cui le autorità regionali avrebbero dovuto adeguarsi alle politiche del governo. Per la formazione di una task force si è dovuto aspettare fino al 13 marzo. E nonostante lo stato di emergenza nazionale sia stato prolungato, il covid-19 è stato dichiarato un’emergenza per la salute pubblica solo il 31 marzo. Quando il governo ha cominciato a occuparsi della pandemia, i suoi sforzi sono stati nella migliore delle ipotesi poco convinti, nella peggiore contraddittori.

A partire dal 27 gennaio sono stati cancellati i voli provenienti dalla provincia cinese dell’Hubei, dal 5 febbraio quelli provenienti dal resto della Cina. In questa fase non era stato ancora rilevato alcun caso di contagio, sebbene qualche centinaio di persone successivamente rimpatriate da Wuhan fossero state messe in quarantena sull’isola di Natuna. Subito dopo sono arrivate le restrizioni sui viaggiatori provenienti da Iran, Italia e Corea del Sud. È stato tuttavia necessario aspettare il 20 marzo per il blocco dei viaggi per alcune tipologie di visti e per tutti i viaggiatori provenienti da Spagna, Francia, Germania, Svizzera e Regno Unito. Di fatto, mentre a metà febbraio gli altri governi stavano prendendo in considerazione l’ipotesi di chiudere i loro confini, il presidente Joko Widodo (Jokowi) annunciava una serie di incentivi per incoraggiare i turisti a visitare l’Indonesia.

I dati sul coronavirus in Indonesia risultavano poco attendibili a causa dei numeri molto bassi di tamponi effettuati e di un sistema di registrazione confuso. Il primo caso di covid-19 nel paese è stato confermato ufficialmente solo il 2 marzo. Il 19 marzo Jokowi ha annunciato l’avvio di una rapida e massiccia campagna di tamponi, ma ai primi di maggio ne erano stati effettuati solo 400 ogni milione di abitanti.

In quello stesso periodo le Filippine, il secondo paese più popoloso del sudest asiatico, avevano effettuato più di mille tamponi ogni milione di abitanti. Vietnam e Thailandia, il terzo e quarto paese più grande della regione, avevano effettuato ciascuno più di 2.500 tamponi ogni milione di abitanti.

Il 1 maggio in Indonesia erano stati identificati 10.551 casi e 800 morti, la metà nella capitale Jakarta. Quando alcuni funzionari hanno evidenziato un picco nel numero dei funerali in città, che a marzo e ad aprile è stato di 2.500 unità in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, si è cominciato a parlare di sottovalutazione del problema. In assenza di altre minacce straordinarie alla salute pubblica, si può tranquillamente affermare che molti di questi decessi sono stati provocati dal covid-19.

La risposta del governo
Le misure di salute pubblica hanno inoltre diverse perplessità. Il 15 marzo Jokowi ha chiesto agli indonesiani di lavorare e pregare da casa. I provvedimenti specifici per le scuole e i posti di lavoro e i limiti per le preghiere e altre attività in pubblico sono arrivati solo il 31 marzo, quando è stata dichiarata l’emergenza di salute pubblica.

Anche successivamente, però, le amministrazioni regionali potevano chiudere le scuole, i luoghi di lavoro e di culto e impedire gli assembramenti in luoghi pubblici solo dopo aver ricevuto l’approvazione del ministero della salute. Il governo ha inoltre esitato a bloccare i viaggi interregionali nonostante lo spettro incombente del mudik, l’esodo annuale dei musulmani indonesiani dalle città più grandi verso la fine del Ramadan. Finalmente, dopo molto tergiversare, il 21 aprile Jokowi ha annunciato che sarebbero stati vietati gli spostamenti dalla “zona rossa” intorno a Jakarta nel periodo compreso tra il 24 aprile e il 31 maggio. Questo periodo lasciava scoperto il primo giorno del mese di digiuno e la prima settimana dei festeggiamenti per l’Eid, la sua fine.

In mancanza di una guida chiara da parte del governo centrale, la responsabilità di gestire la pandemia è ricaduta sui governi locali. La risposta più determinata è stata quella di Jakarta. A metà marzo il governatore della città ha limitato i trasporti pubblici e ha decretato la chiusura generalizzata di strutture dedicate all’intrattenimento e al turismo.

Poco dopo ha annunciato uno stato di emergenza esteso a tutta la città, chiedendo agli abitanti della capitale, tranne quelli di alcune aree specifiche, di lavorare da casa, riducendo gli orari e la capacità del sistema di trasporto pubblico, vietando gli assembramenti di più di cinque persone e imponendo il distanziamento sociale. Alla fine del mese ha invocato il blocco degli spostamenti in autobus da Jakarta alle altre regioni, nel tentativo di impedire la diffusione del virus, ma il governo centrale gliel’ha impedito. Anche altri leader locali hanno agito unilateralmente, istituendo posti di blocco e spingendosi fino a chiudere gli aeroporti regionali.

Sebbene l’Indonesia sia oggi un paese a reddito medio, la sua infrastruttura sanitaria è fragile

Questo mosaico di misure di contenimento, basato in larga misura sulle decisioni dei governi regionali, è stato purtroppo inadeguato. Gli abitanti di Jakarta si sono affrettati a lasciare la città nei tre giorni precedenti l’entrata in vigore del divieto di viaggio per il mudik. I tentativi di mettersi in viaggio sono proseguiti anche dopo il 24 aprile, e nei primi dieci giorni di chiusura la polizia ha rimandato indietro 25.728 veicoli. Altrove interi quartieri sono stati inondati di disinfettante, ma i messaggi sul distanziamento sociale sono caduti quasi ovunque nel vuoto. I mezzi di trasporto pubblici continuano a essere sovraffollati e gli abitanti della città continuano a riunirsi. A Sulawesi, il leader di un quartiere è stato denunciato alla polizia per blasfemia perché ha cercato di seguire le indicazioni del governo e disperdere gli assembramenti per le preghiere del venerdì.

Il rischio naturalmente è che la pandemia si diffonda a tal punto che diventerà difficile liberarsene. Sebbene l’Indonesia sia oggi un paese a reddito medio, la sua infrastruttura sanitaria è fragile. Ha solo quattro medici e dieci posti letto in ospedale ogni diecimila persone. In tutto il paese ci sono 3.300 posti in terapia intensiva, un numero che può arrivare a ottomila se altre unità specialistiche saranno rese operative tutte insieme. Quest’ultima cifra corrisponde a soli 0,3 posti di terapia intensiva ogni diecimila persone. Se il covid-19 non sarà contenuto è difficile credere che l’Indonesia possa sfuggire a un disastro umanitario di proporzioni immense.

Preoccupazioni economiche e politiche
Come è accaduto in altri paesi, il governo ha agito con lentezza anche per il timore degli effetti economici, sociali e politici di provvedimenti più severi concernenti la salute pubblica. Sebbene l’Indonesia sia stata relativamente risparmiata dalla crisi finanziaria globale del 2008, i ricordi della crisi finanziaria dei mercati asiatici del 1997-98 sono ancora vivi. All’epoca la valuta era crollata e la crescita del pil era passata da una media del 7,2 per cento annuo nel periodo 1983-1996 al -6,4 per cento nel periodo 1997-1999. La crisi aveva provocato un diffuso malcontento sociale, esplosioni di violenza e alla fine il crollo del regime di Suharto, al potere per 32 anni.

L’economia indonesiana si è ripresa dalle perdite devastanti dell’epoca, e negli ultimi anni ha registrato una crescita media del pil del 5 per cento. Continua a essere però molto fragile e gli impatti del covid-19 sono molto pesanti. Sebbene l’economia continui in gran parte a restare operativa, gli scenari peggiori ai primi di maggio prevedevano una crescita del pil pari a 0. Secondo i dati del governo, quasi tre milioni di persone avevano già perso il lavoro a metà aprile. Secondo il ministero delle finanze, sono a rischio circa 70 milioni di persone impiegate nel settore informale. Se le cose dovessero peggiorare, diventerebbe concreto il timore di disordini sociali.

Per tutte queste ragioni, non c’è forse da sorprendersi se il governo si sia concentrato in primo luogo sulla messa in sicurezza dell’economia, nonostante i rischi connessi a questa strategia. Per farlo ha destinato 26,36 miliardi di dollari (23,5 miliardi di euro), ossia il 2,5 per cento circa del pil nazionale, a misure di stimolo per la sanità, la protezione sociale e la ripresa economica. Tra i provvedimenti destinati alle persone più vulnerabili c’è la distribuzione di alimenti di base e di sussidi diretti in denaro contante, oltre all’elettricità gratuita per i clienti con i contratti di fornitura elettrica più bassi e ad alcuni alloggi a basso costo. Sussidi e prestiti sono stati introdotti per le micro, piccole e medie imprese.

Il settore manifatturiero è stato al centro del pacchetto di incentivi. Sono in vigore incentivi fiscali per i produttori che prevedono, tra le altre cose, un rinvio dell’imposta sulle aziende e rimborsi dell’iva accelerati in 19 sottosettori. Il governo ha inoltre annunciato un’esenzione fiscale di sei mesi per i dipendenti del settore manifatturiero con un reddito annuo inferiore a 12.500 dollari (11.100 euro), una soglia abbastanza generosa da includere molti manager di medio o basso reddito e gli impiegati alla catena di montaggio.

Il ministro della manodopera ha inoltre sollecitato i governatori provinciali non solo ad affrontare in modo attivo i rischi di contagio sul posto di lavoro ma anche a imporre ai datori di lavoro di pagare gli stipendi degli operai costretti all’isolamento o al congedo a causa del virus. Il governo ha inoltre esteso il programma di ammortizzatori sociali per coprire le perdite di posti di lavoro provocate dal covid-19 e consentire ai lavoratori colpiti di avere per tre mesi un reddito di 62,5 dollari (55 euro) al mese (o circa un quarto del salario minimo nella capitale).

La risposta dei sindacati
Con provvedimenti così generosi in campo, ci si aspetterebbe una scarsa preoccupazione dei sindacati. Tuttavia in Indonesia, così come in altri paesi simili, esiste un grande divario tra ciò che viene sancito e ciò che poi viene attuato, il che dà ragione alle preoccupazioni delle organizzazioni sindacali.

Il piccolo movimento dei lavoratori indonesiano era già sotto pressione quando è scoppiata la pandemia di covid-19. Dopo la caduta del regime di Suharto era riuscito a ritagliarsi uno spazio sorprendente, ripristinando i sindacati indipendenti che, pur non essendo particolarmente forti secondo parametri convenzionali, hanno mirato in alto.

In soli due decenni questi sindacati, prima politicamente invisibili, hanno cominciato a essere corteggiati da governatori e candidati presidenziali. Hanno ottenuto anche delle importanti vittorie economiche, sfruttando la loro capacità di mobilitazione per convincere i funzionari pubblici a schierarsi dalla loro parte nelle commissioni locali sui salari e ottenere dei consistenti aumenti degli stipendi minimi, che nel 2013 sono aumentati in media del 54 per cento nelle aree metropolitane. In un distretto industriale è aumentato del 57,6 per cento, un risultato enorme.

Presto però sono rimasti vittime dei loro stessi successi. Dopo un notevole aumento dell’influenza economica e politica del lavoro organizzato nel periodo compreso tra il 2009 e il 2014, il governo ha reagito. Nel 2015 ha introdotto una formula per calcolare gli aumenti del salario minimo che di fatto annullava gli spazi di trattativa locali, indebolendo il peso politico delle organizzazioni durante i negoziati che si svolgono ogni anno sull’andamento dei salari.

Il sindacato è riuscito a bloccare la discussione della legge di riforma del lavoro che minacciava di cancellare diritti acquisiti negli ultimi anni

Il governo ha intrapreso ulteriori passi per addomesticare i sindacati nel febbraio 2020, quando ha presentato al parlamento il suo decreto legge “omnibus” sulla creazione di posti di lavoro. Il disegno di legge, che prometteva di agevolare le imprese e attirare investimenti stranieri, avrebbe dovuto apportare emendamenti a 73 leggi esistenti sui più svariati argomenti, dalla protezione ambientale alle disposizioni fiscali.

Tuttavia, come ha sottolineato il presidente dell’associazione dei datori di lavoro, “è soprattutto la riforma del lavoro a ispirare il disegno di legge”. I sindacati hanno espresso in particolare timori sulla proposta di riduzione dei trattamenti di fine rapporto, da tempo nel mirino della confindustria nazionale e che, in assenza di sussidi di disoccupazione, offrono un supporto vitale a lavoratori licenziati per esubero mentre cercano un nuovo impiego. Tuttavia, in caso di approvazione, la legge eliminerebbe anche le misure per il congedo retribuito per ragioni familiari, allenterebbe i controlli sui subappalti e introdurrebbe ulteriori modifiche al processo che fissa le retribuzioni minime. Inoltre, prevede l’impossibilità di ricorrere ai tribunali del lavoro in caso di licenziamento.

I sindacati erano già preoccupati per la chiusura delle fabbriche e per i rischi che correva chi non poteva lavorare da casa. I loro timori si sono aggravati quando è diventato chiaro che il parlamento voleva proseguire la discussione del disegno di legge.

I sindacati e le ong ambientaliste avevano cominciato a mobilitarsi prima che il covid-19 colpisse l’Indonesia, ma le norme sul distanziamento sociale hanno cancellato la possibilità di proteste legali, e le manifestazioni previste, come quella del 23 marzo, sono state cancellate. Tuttavia, undici giorni dopo, quando il parlamento ha scelto di continuare i lavori, hanno minacciato di organizzare una protesta su vasta scala ma rispettosa del distanziamento sociale. Sadiq Iqbal, il leader della Confederazione dei sindacati indonesiani, ha minacciato di portare cinquantamila lavoratori a manifestare davanti al parlamento. In risposta alle domande dei giornalisti sull’intenzione di sfidare le norme sul distanziamento sociale, ha risposto: “Ci sentiamo minacciati. Prima di tutto sono minacciate le nostre vite, perché continuiamo a lavorare durante la pandemia. In secondo luogo, l’approvazione del decreto legge omnibus minaccia il nostro futuro”.

I leader delle tre principali organizzazioni sindacali hanno poi annunciato per il 30 aprile una protesta congiunta che avrebbe coinvolto centinaia di migliaia di lavoratori. Forse preoccupato l’effetto del contagio sociale – la polizia aveva ricevuto istruzioni di agire contro chiunque criticasse i funzionari governativi per il modo in cui stavano gestendo la pandemia – Jokowi ha reagito convocando i leader delle confederazioni sindacali al palazzo presidenziale il 22 aprile per lavorare a un compromesso.

Due giorni dopo ha annunciato di aver siglato un accordo con il parlamento per rinviare la discussione della sezione del disegno di legge dedicata alle relazioni industriali. Il rinvio, ha dichiarato, avrebbe offerto a tutte le parti interessate la possibilità di dare dei suggerimenti. In risposta a queste dichiarazioni, le confederazioni sindacali hanno annullato la manifestazione del 30 aprile. Hanno inoltre dato istruzioni ai loro affiliati di non festeggiare il 1 maggio scendendo in piazza come al solito, ma donando attrezzature mediche agli ospedali e agli ambulatori e mascherine ai lavoratori in esubero e alla comunità.

Proseguono però le loro campagne sui social media sui timori per la salute e la perdita di posti di lavoro durante la pandemia e sui rischi che i lavoratori continuano a correre a causa del decreto legge ominbus. In un periodo di grande incertezza hanno trovato un modo per evitare la catastrofe, almeno per il momento. La speranza è che continueranno a essere in grado di combattere la battaglia giusta anche dopo il covid-19.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito su openDemocracy.

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