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La pandemia mette in evidenza le fragilità del Medio Oriente

Un venditore di lanterne tradizionali al Cairo, Egitto, 19 aprile 2020. (Mohamed al Shahed, Afp)

Ci sono sempre due modi di vedere il bicchiere. Se lo si vede mezzo pieno, si può considerare che la temuta catastrofe sanitaria in Medio Oriente e nei paesi del Maghreb non si è verificata. Per lo meno finora, perché nulla fa pensare che la crisi del coronavirus sia sul punto di concludersi e la situazione può ancora evolvere in modo sostanziale. Se si vede il bicchiere mezzo vuoto, si può constatare che la regione uscirà comunque indebolita da questo periodo, e che la conta dei morti non basta a fare un bilancio serio delle conseguenze della pandemia.

In Medio Oriente e nel Maghreb ci sarà un prima e un dopo coronavirus. Questo non vuol dire che la pandemia abbia profondamente sconvolto gli animi (la regione ha visto ben altro) o che i conflitti di ieri siano improvvisamente scomparsi. Ma piuttosto che la crisi ha accelerato alcune dinamiche che erano già in corso e ha messo in risalto la necessità di (ri)pensare il contratto sociale che unisce governanti e governati nella maggior parte di questi paesi.

La crisi del coronavirus ha questo di particolare: senza essere spettacolare, è capace soprattutto di andare a colpire le ferite già dolenti e di riportare a galla le fragilità di uno stato e di una società. Alla regione in questione certo non mancano le fragilità, per dirla con un eufemismo. Gli stati sono nel complesso deboli e il loro autoritarismo non fa altro che evidenziare questa debolezza; i modelli economici, quando esistono, sono estremamente vulnerabili; la cooperazione è un concetto quasi sconosciuto, anche se la crisi ha riservato qualche bella sorpresa.

La fine di un’epoca
Tornando al bilancio. Quello dei contagi non dice molto, considerato lo scarso numero di test effettuati nella maggioranza di questi paesi e il fatto che una parte consistente delle persone affette dal virus ha pochi o nessun sintomo. Invece, il bilancio dei morti è piuttosto lusinghiero, specialmente se paragonato a quello europeo o statunitense. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dall’inizio della crisi in Medio Oriente e nel Maghreb sono morte a causa del coronavirus 8.350 persone, di cui 6.783 solo in Iran.

La pandemia ha già fatto 300mila morti nel mondo, di cui oltre 80mila negli Stati Uniti. In molti dei paesi dell’area si può certo dubitare dell’attendibilità delle cifre, ma bisogna prendere atto che siamo lontani dalla catastrofe temuta, e questo malgrado i campi profughi in condizioni disastrose, le zone di guerra e un sistema sanitario precario nella maggior parte dei paesi.

Il bilancio economico e politico è molto meno confortante di quello sociale e sanitario

Gli stati hanno reagito piuttosto rapidamente (il Libano per esempio ha adottato alcune misure prima di diversi paesi europei) e le società nel complesso hanno rispettato le direttive ed evitato grandi assembramenti, nonostante un contesto favorevole da un punto di vista sia politico sia religioso.

I buoni risultati della regione potrebbero essere legati a fattori non controllabili: la giovane età della popolazione, il clima, la mobilità internazionale sul territorio o anche il numero notevole di fumatori. Sono solo delle ipotesi, ma considerato il contesto di partenza e nonostante le misure prese dagli stati sembrano abbastanza plausibili.

Ma adesso guardiamo al bilancio economico e ai potenziali effetti politici. Qui il quadro è molto meno confortante. Le misure di contenimento hanno effetti nettamente più dannosi quando lo stato non è in grado di aiutare la sua popolazione, per lo meno i più poveri, com’è il caso nella maggior parte dei paesi del Medio Oriente. Si pensi all’Egitto con i suoi cento milioni di abitanti, che già aveva una situazione economica instabile, e dove la pandemia avrà probabilmente un forte impatto sul turismo e potenzialmente sugli aiuti che lo stato riceve dall’estero, soprattutto dai paesi del Golfo. Sembra proprio questa la principale rottura geopolitica dell’epidemia per l’area mediorientale: la fine dell’epoca d’oro per le monarchie petrolifere del Golfo e tutto quello che implica per l’ecosistema regionale. Se la rottura dovesse essere confermata nel lungo periodo e il prezzo del barile restasse così basso si dovrebbe instaurare una nuova dinamica, nella quale probabilmente saranno molti di più i perdenti che i vincitori.

In futuro la crisi attuale potrebbe essere ricordata come il momento della quiete prima della tempesta

L’11 maggio l’Arabia Saudita, il paese più ricco della regione, ha annunciato per la prima volta nella sua storia l’adozione di misure di austerità. Per il regno la transizione verso un nuovo modello diventa una necessità. Le perdite previste per le monarchie petrolifere avranno delle conseguenze per i paesi che dipendono in parte dai loro aiuti o dalle rimesse che molti dei loro cittadini che lavorano nel Golfo inviano alle famiglie. Se l’Arabia Saudita vacilla, la crisi del petrolio avrà effetti ancora più gravi per i paesi con economie meno solide e che dipendono da questa risorsa, come l’Iraq o l’Algeria.

Serve un nuovo contratto sociale
Anche l’Iran, il paese di gran lunga più colpito dalla pandemia nella regione, già strozzato dalle sanzioni economiche statunitensi, uscirà ancora più indebolito da questa crisi, che riduce ulteriormente le sue entrate a causa della crisi petrolifera.

Considerato che siamo ancora nel bel mezzo della crisi del coronavirus, il bilancio in Medio Oriente e Nord Africa è meno lieto di quello che sembra. La situazione sanitaria potrebbe degenerare, tanto più in caso di una possibile seconda ondata che arriverebbe in un clima meno favorevole. Ma è soprattutto la situazione economica e politica a preoccupare.

Le primavere arabe sono nate dall’incapacità dei regimi al potere di offrire ai loro cittadini un’alternativa alla politica della repressione. A quasi dieci anni di distanza gli stati sembrano ancora più fragili, i modelli economici ancora meno sostenibili, senza che nessuno o quasi sia riuscito a proporre un nuovo contratto sociale. Potremmo vedere sempre più spesso stati falliti nella regione, mentre i conflitti già in corso non necessariamente troveranno una soluzione a breve.

Le manifestazioni sono già ricominciate in Libano, in Iraq e in Algeria e potrebbero estendersi ad altri paesi. Tanto che tra qualche anno questa crisi del coronavirus potrebbe essere ricordata come il momento della quiete prima della tempesta, il momento in cui la pentola bolle in silenzio prima di traboccare violentemente.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è uscito sul quotidiano libanese L’Orient-Le Jour.

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