La luna di miele di Lana Del Rey
Honeymoon, il terzo album della cantautrice statunitense Lana Del Rey, si apre con un lungo e drammatico preludio orchestrale, quasi i titoli di testa di un film noir degli anni quaranta. Le prime parole che canta sono: “We both know that it’s not fashionable to love me”, sappiamo tutti e due che amarmi non va di moda. Effettivamente nel 2015 non andava di moda amare Lana Del Rey. Andava più di moda vivisezionarla come un ranocchio da laboratorio per vedere cosa ci fosse dentro.
Da quando il suo primo singolo, Video games, nel 2011 si era diffuso sui social network con un video autoprodotto, c’è stata una duplice reazione: da una parte l’apprezzamento generale per un pezzo pop praticamente perfetto come non se ne sentivano da anni, e dall’altra una gara per dimostrare quanto fasulla e inconsistente fosse questa misteriosa ragazza californiana sempre così imbronciata. Nel frattempo la canzone diventava un classico istantaneo e si insinuava nell’immaginario del pubblico.
Un mix decisamente camp
Era facile non fidarsi di Lana Del Rey: in lei tutto sembrava artefatto, a cominciare dal nome d’arte, un mix decisamente camp tra due dive della vecchia Hollywood: Lana Turner e Dolores Del Rio. E poi quel piccolo tatuaggio sul dito, quella manicure, la messa in piega e l’aria eternamente annoiata, stanca di tutto. Anche di cantare. La sua estetica degli inizi arrivava dritta da Tumblr, un social network oggi quasi in disuso, e combinava il sex appeal finto amatoriale degli scatti pubblicitari del marchio American Apparel, oggi defunto, e quello che veniva chiamato soft grunge, una sorta di versione ultrafemminile e un po’ bamboleggiante di tendenze rock vecchie e per lo più percepite come ruvide e maschili.
E Video games piaceva a tutti: era un pezzo triste che con le sue corde pizzicate e i suoi archi aveva qualcosa di barocco ed eccessivo che, almeno all’inizio, copriva quello che con l’uscita del primo e del secondo album (Born to die e Ultraviolence) sarebbe stato il vero, imperdonabile peccato originale di Lana Del Rey: mettere in scena non l’empowerment femminile ma quasi il suo opposto, una sorta di ennui compiaciuto, di descrizione nichilista della sua fragilità e della sua sottomissione. In Video games la protagonista si veste, si profuma e si sveste per un cattivo ragazzo che a malapena la guarda e che fischia per chiamarla mentre si apre una birra. Lui una caricatura del ragazzaccio dei film anni cinquanta e lei una bambolina rassegnata al suo ruolo subalterno.
Il suo sguardo sul mondo e su stessa era tutt’altro che consolatorio
Di Lana Del Rey spaventava la capacità di raccontare in maniera così vivida la passività, la decadente rassegnazione di una giovane donna che sa di essere destinata sempre e comunque all’uomo sbagliato perché “questo è un mondo fatto per due e vale la pena di viverlo solo con te”. Un tema non certo nuovo ma che Lana Del Rey riproponeva senza filtri alla generazione del “sii te stessa a ogni costo”, della body positivity e degli albori dell’attivismo performativo sui social. Lana Del Rey era l’anti-Beyoncé perché non parlava di riscatto e indipendenza, era l’anti-Katy Perry perché non la prendeva certo a ridere, era l’anti-Lady Gaga perché non aveva un’agenda così ecumenica e inclusiva. Però, dettaglio non da poco, non era neanche una vittima come Britney Spears.
La leggenda di Harvey Weinstein
Per quanto “born to die” (nata per morire, come tutti noi del resto), Lana Del Rey è una narratrice nata; nessuno e nessuna come lei, nel pop contemporaneo, ha la capacità di descrivere se stessa e il proprio ambiente, le relazioni, le fragilità e le paure con uno sguardo così freddo e distaccato. Lana Del Rey guarda e descrive e, in una sorta di trance dissociativa, esce da se stessa per poter raccontare. È stata la prima a parlare di Harvey Weinstein in una canzone del 2012 (ben prima che, nel 2017, cominciasse il #meToo a Hollywood). Lo ha fatto in un pezzo ambiguo e disturbante intitolato Cola, in cui la narratrice racconta di come Harvey (nome poi espunto dal testo definitivo), un uomo maturo e potente, le dicesse che “la sua fica sapeva di Pepsi-Cola”. Nel ritornello originale Lana Del Rey cantava, citando i Beatles, “Harvey’s in the sky with diamonds” e poi aggiungeva: “Conosco tua moglie e so che a lei non importa”. Raccontava di sé? Raccontava una leggenda metropolitana che girava per Los Angeles? Ma poi è davvero così importante?
Lana Del Rey fin degli esordi ha manipolato il suo pubblico, suggerendo e poi negando e andando volentieri anche in contraddizione con se stessa. Chissà perché solo alle pop star, soprattutto alle donne, chiediamo un’autenticità e una sincerità che solitamente non pretendiamo dagli scrittori. Nei testi delle cantanti pop cerchiamo la confessione diaristica, il disvelamento di un intimo segreto, magari già anticipato in qualche intervista promozionale. Soprattutto siamo abituati ad aspettarci una morale, un esempio positivo da seguire. Quando questo non succede smettiamo di capire e ci chiediamo: ma questa ci fa o ci è? Nel 2015 non andava di moda amare Lana Del Rey perché lei non sottostava al gioco della confessione dolente da reality show. Mentre molte sue colleghe descrivevano, o nelle interviste o in video musicali carichi di sponsor, abusi, bulimie, solitudini e inadeguatezze, Lana Del Rey continuava a rivendicare le sue scelte sbagliate, le sue storture e le sue debolezze. Il suo sguardo sul mondo e su stessa era tutt’altro che consolatorio e la sua realtà non era mai fatta di un prima e di un dopo ma di un eterno presente opaco, indecifrabile e vischioso.
Con Honeymoon, il suo terzo album, ha deciso di cristallizzare questa sua opacità in uno stile. Honeymoon è l’album di passaggio che ha reso Lana Del Rey quella che è oggi, ovvero una cantautrice affermata e non più una strana, scomoda novità rigurgitata dai recessi della rete; è il lavoro con cui ha scolpito se stessa e il proprio stile.
Se con Born to die e Ultraviolence sembrava ancora alla ricerca di un suo suono, con Honeymoon lo fissa e lo impone. Gli elementi con cui lavora sono gli stessi di sempre ma sono stati metabolizzati: hip hop, trap e pop radiofonico sono presenti nel suo suono quasi in filigrana, sono scheletri appena percettibili nella struttura di canzoni riccamente orchestrate, ampie e ambiziose che guardano al grande songbook americano, non alla top ten. Più che una raccolta di canzoni Honeymoon è un film, forse il più lynchano degli album di Del Rey. Ha un suo ritmo, un suo svolgimento e quasi una trama. Lana abita questi pezzi come un’eroina da film noir degli anni quaranta: labbra e unghie scarlatte, capelli sul volto stile Veronica Lake e un revolver nella borsetta. È un personaggio di finzione che si muove in un metaverso che ogni tanto sconfina nel nostro mondo aprendoci squarci d’introspezione a volte ironica e a volte spietata.
Bulimia citazionista
Con Honeymoon Lana Del Rey ha anche imparato a gestire la sua bulimia citazionista: nel suo metaverso il rap della West coast, David Bowie (citato diverse volte in modo letterale in questo album), gli Eagles, Leonard Cohen, Nina Simone, Peggy Lee, la trap e Nancy Sinatra convivono in una sorta di timeline orizzontale, proprio come convivono nelle nostre playlist. Non è una nostalgica o una retromaniaca, ma una manierista nel senso più classico del termine. Per lei la cultura pop del passato non è tanto una matassa da dipanare quanto una materia viva e calda da plasmare. Il tempo per Lana Del Rey è orizzontale e appiattito su un eterno presente: lo esplicita nell’intermezzo Burnt Norton in cui recita dei famosi versi del poeta statunitense T.S. Eliot:
“Il tempo presente e il tempo passato/sono forse entrambi presenti nel tempo futuro,/e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato./Se tutto il tempo è eternamente presente/tutto il tempo è irredimibile”.
In Music to watch boys to (Musica per guardare i ragazzi), Lana Del Rey riesce anche a dare una chiave di lettura sorprendente alla sua passività, così notata e spesso stigmatizzata dai suoi ascoltatori e ascoltatrici. Su una base vagamente trip-hop, anzi trap-hop se questo ibrido esistesse, la voce della cantante, pesantemente effettata, sembra emergere dalle nebbie di un’allucinazione: “Mi piaci un sacco, metto su la mia musica mentre guardo i ragazzi… nessun limite, sono stata mandata qui per distruggere”. Del Rey si dipinge più passiva che mai: è mollemente distesa, chiaramente fatta di qualcosa, a guardare i ragazzi che le piacciono e di cui sa di non poter fare a meno. Eppure si mette nella posizione tipicamente maschile di chi guarda, di chi possiede l’altro con lo sguardo. Mentre canta “I do what you want” (Faccio quello che vuoi) in realtà fissa l’altro, lo inchioda, in un ironico capovolgimento dello sguardo maschile. E quando dice “Sono stata mandata qui per distruggere” è Dalila che silenziosamente e quasi teneramente guarda Sansone, la sua vittima designata, che si addormenta tra le sue braccia. Music to watch boys to è una rivendicazione ironica e molto letteraria della sua sottomissione e passività. Se i personaggi delle sue canzoni non hanno iniziativa (“agency” nel linguaggio femminista), sicuramente ce l’ha la loro creatrice.
La ragazza con la pistola
God knows I tried (Dio sa se ci ho provato) è un altro pezzo forte di Honeymoon. Stavolta è una specie di blues in cui Lana canta: “A volte mi sveglio la mattina sotto cieli rossi, blu e gialli/è pazzesco potrei bere quel cielo come una tequila sunrise/metto su Hotel California/E ballo come una pazza/Mi sento libera solo quando non vedo nessuno/E nessuno conosce il mio nome”. Sembra una rilettura psichedelica di quella famosa scena di Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci in cui Liv Tyler, walkman nelle orecchie, volteggia e grida al ritmo di Rock star delle Hole. Ancora citazioni incrociate in cui Hollywood slitta sulla realtà e il tema stucchevole di quanto la fama non faccia la felicità è affrontato di sbieco, in modo finalmente originale e non didascalico.
Dal quasi blues di God knows I tried si passa alla trap eterea e rallentata di High by the beach (Strafatta sulla spiaggia), l’ennesima revenge song potenziale, in cui Lana fantastica di poter lasciare un uomo di cui non riesce a fare a meno: “Non sopravviveremmo e sprofondiamo nella sabbia” canta, arrendendosi all’inevitabilità della sua situazione. Eppure, sul finale un crudele sprazzo di iniziativa: “Tutti possono ricominciare da capo/Non attraverso l’amore ma attraverso la vendetta/Nel fuoco possiamo rinascere/La pace ottenuta dalla vendetta può portarci alla fine”. Ancora una volta Lana Del Rey accarezza fantasie di vendetta e la diva del noir cerca il suo revolver nella borsetta, come per assicurarsi che sia sempre lì.
E il revolver è nascosto nel vano portaoggetti dell’auto in The blackest day (Il giorno più nero), un altro blues dai contorni lynchiani in cui la narratrice della canzone non fa che ascoltare Billie Holiday e accarezzare fantasie omicide (se non anche suicide): “Portami a casa, ho una macchina nuova e una pistola/il vento nei capelli, la tua mano nella mia, ascoltiamo una canzone/portami a casa, non voglio parlare di quel che sarà”.
Honeymoon, questo album-film noir, arriva alla fine e, come in Mulholland drive di Lynch i contorni tra fantasia e realtà implodono e si sfumano confusamente. In un pezzo malinconico ma non disperato chiamato Swan song (il canto del cigno), Lana del Rey dice: “E io non canterò mai più e tu non lavorerai un giorno di più, non canterò mai più e basterà una sola ondata per spazzare via tutto”. L’idea di non cantare più e quindi di non essere più Lana Del Rey, di ucciderla in scena, è accarezzata come una possibilità alla fine di un album che, canzone dopo canzone, non faceva che costruire il personaggio hollywoodiano di Lana Del Rey.
Titoli di coda
I titoli di coda arrivano con una cover di Don’t let me be misunderstood di Nina Simone, in cui Lana canta: “Tesoro, ora mi capisci/A volte mi sento un po’ pazza/Non lo sai che nessuno può sempre essere un angelo?/Quando le cose vanno storte sembro cattiva/Ma in realtà sono un’anima piena di buone intenzioni/O signore ti prego, fa’ che mi capiscano”.
Con questa preghiera decisamente ironica che sembra recitata da un’assassina davanti alla giuria, lacrime di glicerina che s’intravedono dalla veletta, Lana Del Rey risponde rivendicando la sua differenza e la sua libertà di autrice e di narratrice. Una libertà che, dopo il successo di critica di album come Norman Fucking Rockwell (2019) e l’ultimo Did you know there’s a tunnel under Ocean blvd (2023), in pochi hanno più messo in discussione.
Lana Del Rey
Honeymoon
Interscope, 2015