18 ottobre 2022 16:02

“I paparazzi esistono per la stessa ragione per cui esistono le star. Vogliamo vedere le loro foto. Le vogliamo vedere più felici, più ricche, più pazzescamente belle, più scatenate, con vite che noi possiamo solo sognare. Finché la festa finisce e ci troviamo rassicurati nella nostra convinzione che, dopo tutto, non essere loro è meglio”.

Così il giornalista statunitense David Samuels chiudeva un lungo articolo uscito nel 2008 su The Atlantic intitolato Shooting Britney, un titolo che poteva significare sia “fotografando Britney” sia “sparando a Britney”. Per chi volesse leggerlo è uscito in italiano nel 2008 con il titolo Paparazzi, per la collana Fusi Orari di Internazionale. Samuels ricostruiva l’industria che tra il 2007 e il 2008 ruotava intorno al crollo pubblico di Britney Spears, ex bambina prodigio e pop star internazionale data ormai per spacciata.

Riviste di gossip sia cartacee sia online, blog, agenzie fotografiche, i social network ancora ai loro albori, tutti volevano un souvenir della caduta di Britney Spears, un po’ come tutti si portavano a casa un pezzo del muro di Berlino nel 1989. Le foto di Britney che, con aria spiritata, afferra il rasoio dal parrucchiere e si rasa i capelli a zero, e quelle di qualche giorno dopo in cui dà in escandescenze e prende a ombrellate l’auto di un paparazzo sono state divorate da un pubblico in fibrillazione che stava scoprendo la forza dirompente che il branco poteva avere nella rete.

Ci si aspettava che Britney morisse e fotografarla in punto di morte sarebbe stato il vero colpaccio

L’immagine di Britney è stata fatta a pezzi pubblicamente: pessima madre, pop star alla deriva, donna sciatta e malvestita con un bicchierone di Starbucks in una mano e un pacco di Cheetos nell’altra, come una qualunque ragazzotta white trash. La distruzione di Britney Spears è stata una specie di reality show che ha finito per deragliare. Samuels nella sua inchiesta racconta il rapporto ambiguo e malsano che Britney e la sua gente avevano con le agenzie dei paparazzi e i mezzi d’informazione. La star aveva bisogno di loro per mantenere vivo l’interesse, loro avevano bisogno di lei perché ogni sua uscita, anche solo per fare la spesa, era oro. L’asticella si alzava sempre di più: Britney Spears cercava di stare al gioco ma alla fine ne è rimasta schiacciata. E i paparazzi, i loro committenti e il pubblico volevano sempre di più. Samuels lo dice chiaramente: ci si aspettava che Britney morisse e fotografarla in punto di morte sarebbe stato il vero colpaccio. Quello definitivo.

È singolare dunque che Blackout, a oggi il miglior album di Britney Spears, sia stato concepito durante quel periodo infernale. Il suo ultimo album di inediti, In the zone, risaliva al 2003 e conteneva pezzi di grande successo come Me against the music (un duetto con Madonna), Toxic (una produzione memorabile di Bloodshy & Avant), la ballad Everytime, e Outrageous, un pezzo di R Kelly il cui testo, oggi che l’autore è in carcere per violenza sessuale su minori, ci appare decisamente sinistro.

I quattro anni tra il 2003 e il 2007, l’anno di uscita di Blackout, sono un’era geologica nei tempi della musica pop. Britney Spears non produce musica nuova ma è più famosa che mai: si sposa, per la seconda volta, con il ballerino Kevin Federline con cui, prima del divorzio nel 2007, appare in un disastroso reality intitolato Britney and Kevin: chaotic. Nel 2005 nasce il suo primo figlio, Sean Federline, appena un anno dopo nasce il secondo, Jayden James. Nel febbraio 2007 comincia il vero reality show, quello che tutti vogliono vedere: il suo crollo. In quei quattro anni Britney smette di essere un’artista pop e diventa una celebrità da macello.

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La prima apparizione pubblica per lanciare un nuovo pezzo avviene il 9 settembre 2007, quando esegue in playback Gimme more agli Mtv Music Awards. L’esibizione è un disastro: Britney Spears ha lo sguardo vitreo e perso nel vuoto, non si muove a tempo e sembra una bambola rotta. Poco importa che Gimme more sia un gran pezzo, una produzione di Danja e Jim Beanz che fa presagire una nuova direzione synth pop. In pochi si accorgono anche dell’esclamazione, oggi un meme scolpito nell’immaginario collettivo di una generazione, che apre la canzone: “It’s Britney, bitch”.

Quando il 30 ottobre 2007 esce in fretta e furia il suo album, Blackout, la musica di Britney Spears non interessa più a nessuno. Ha perso la custodia dei figli, ha evidenti problemi psicologici e l’attenzione del pubblico è tutta puntata sulla sua vita privata. Ormai sembra scritto su un copione che ha avuto il via libera da tutta la produzione: Britney deve chiudere il suo reality morendo in scena. Magari schiantandosi in auto come lady Diana.

Lo stesso giorno di Blackout, gli Eagles, leggendaria rockband californiana, fanno uscire il loro primo lavoro di inediti dal 1979. Long road out of Eden degli Eagles vende sette milioni di copie fisiche negli Stati Uniti, Blackout di Britney Spears, abituata ad avere ogni suo nuovo album al numero uno delle classifiche da quando esiste, ne vende solo un milione. È la tempesta perfetta: la disfatta di Britney si inserisce anche in quel particolare momento del mercato discografico in cui il pubblico del pop smette di comprare dischi mentre quello del rock classico continua a farlo.

Blackout trasforma la fragile lolita in disgrazia in un gigantesco robot da combattimento

Quello che rende Blackout un album unico, a tutt’oggi il migliore della cantante di McComb, nel Mississippi, è proprio la consapevolezza di non avere niente da perdere. È un lavoro in cui un gruppo di superproduttori (Danja e Bloodshy and Avant in testa) si stringono a coorte intorno a un’artista in caduta libera e prendono i comandi dell’aereo che sta per schiantarsi. Il contributo creativo di Britney è minimo: l’unico pezzo che firma come coautrice è anche il più tradizionale, Ooh ooh baby. Eppure lei è ovunque, la sua storia è spalmata su ogni traccia di questo apocalittico e spigoloso album di synth pop acidissimo.

Gli album precedenti di Britney Spears erano una sorta di manuale Cencelli della musica pop commerciale: pesi e misure, generi e suoni erano distribuiti al milligrammo. Dovevano esserci le due o tre hit pop dance, spesso abbastanza simili tra di loro, le due ballad e magari il pezzo più rnb o più latino per accaparrarsi una fetta del mercato “urban”. In Blackout non succede niente di tutto questo: è un monolite, l’album più coeso che Britney abbia mai realizzato perché tutti i pezzi sembrano dei giganteschi, sferraglianti esoscheletri meccanici che trasformano la fragile lolita in disgrazia in un gigantesco robot da combattimento.

Nulla in Blackout suona, neanche per finta, come uno strumento tradizionale: forse solo un giro di chitarra nell’intro di Ooh ooh baby; il resto è tutto sintetico, acido e robotico e ogni traccia di umanità è volutamente risucchiata via da una produzione radicale che, in un contesto pop, ha qualcosa di suicida. È come se i produttori stessero cercando un suono per descrivere l’autosabotaggio di Britney. Rolling Stone nel 2017 descrisse Blackout come “un capolavoro punk”, suggerendo in modo forse un po’ enfatico che Britney avesse fatto qualcosa di simile a Metal machine music di Lou Reed, forse l’esempio più fulgido di autodistruzione di una carriera nel rock.

Anche la voce di Britney è trattata in modo da diventare irriconoscibile. In Blackout nessuno cerca di farla cantare in modo tradizionale. Le distorsioni di autotune lasciano emergere solo il pesante accento del sud e quel suo vibrato da cantante country. Per il resto la presenza di Britney nel disco è un fantasma intrappolato nella macchina, “the ghost in the machine” per citare i Police.

Piece of me è la pietra angolare dell’album e, forse, il pezzo migliore dell’intera carriera di Britney Spears. La canzone è figlia di Leave me alone di Michael Jackson, forse il primo pezzo pop che metteva in scena la persecuzione di una pop star da parte dei mezzi di comunicazione di massa. Ma se Michael Jackson cercava di difendere la sua privacy e s’interrogava sulla rapacità dei tabloid, Britney sa di essere carne già fatta a pezzi per essere venduta: “Vuoi un pezzo di me?”. Canta con voce robotica e deumanizzata per poi restituirci tutte le distorsioni della sua immagine pubblica: “Sono la signora stile di vita dei ricchi e famosi (volete un pezzo di me?) / Sono la signora oh mio dio quella svergognata di Britney! (volete un pezzo di me?) / Sono la signora esclusivo! Ultimissime notizie! (volete un pezzo di me?) / Sono la signora è troppo grassa è troppo magra (volete un pezzo di me?)”. Il suono è claustrofobico e compresso, un groove circolare e implacabile che anche al momento del breakdown, quando cioè si ferma per poi ricomporsi e ripartire, non lascia passare neanche un filo d’aria: è come se continuasse a vibrare e a ronzare anche in quei brevissimi interstizi di silenzio.

La Britney di Blackout è una macchina soprattutto nei pezzi in cui si propone come party girl. In Radar è un robot del divertimento: un ammasso di pixel sparatutto nella pista da ballo. L’attacco del pezzo di Bloodshy and Avant cita in modo obliquo Tainted love dei Soft Cell (già campionata da Rihanna in Sos nel 2005) e ancora una volta il groove è inarrestabile nel suo essere così sintetico e meccanico. Britney è una macchina anche quando si ipersessualizza e si espone al voyeurismo dell’ascoltatore in Freakshow e nella esilarante Get naked (I got a plan). Non c’è niente di davvero liberatorio nella sessualizzazione di Britney in questi pezzi: a differenza di quando, a 17 anni, appariva seminuda in mezzo ai peluche in una copertina di Rolling Stone scattata da David LaChapelle, Britney ora è adulta e usa l’esibizionismo come piccone per fare ulteriormente a pezzi la sua immagine pubblica. La vera profezia di Blackout è proprio in questi brani minori troppo assurdi per essere dei singoli: canzoni dance che raccontano di come l’esibizionismo sarà la moneta corrente della nuova stagione dei social network e in cui tutti e tutte, e non solo più le pop star, saranno pezzi di carne esposti ai giudizi più crudeli ed estremi.

Blackout è un atto di autosabotaggio, un fallimento promozionale, un glorioso album di synthpop avanti di almeno cinque anni rispetto ai suoi tempi e soprattutto è il suono di una fase della cultura pop che si conclude per sempre.

Britney Spears
Blackout
Jive-Zomba, 2007

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