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PJ Harvey e la legge del desiderio

PJ Harvey fotografata per Is this desire? (Maria Mochnacz, Julia Hember, Nick Daly)

Quando uscirono i primi due album di PJ Harvey, tra il 1992 e il 1993, la stampa britannica era molto interessata alle origini rurali della leader del trio, Polly Jean Harvey, nata nel 1969 in una fattoria del Dorset da una famiglia che tutt’oggi possiede delle cave di calcarenite e un’azienda di estrazione e taglio della pietra. Se cercate su Google trovate il loro sito, harveystone.co.uk: ha l’aria di essere una bella azienda. Sebbene quella degli Harvey fosse un’impresa bene avviata e radicata nell’economia della zona, Polly Jean è sempre stata descritta come una specie di hippy, di nomade nata e cresciuta in una campagna romantica e ancestrale, lontana dalle scene musicali e dalle mode delle città inglesi.

I genitori ascoltavano Bob Dylan, Captain Beefheart e tanto blues elettrico, gusti musicali assolutamente in linea con la loro generazione, e Polly aveva cominciato fin da bambina a strimpellare canzoni folk alla chitarra acustica: cose che hanno contribuito a creare un’immagine di selvatica bimba prodigio, incantata dalle leggende di un Dorset arcaico e pagano. Era il modo più facile per spiegarsi da dove venissero le sue prime canzoni, strutturate come pezzi blues rock ma terribilmente scarne ed essenziali.

Un pezzo come Sheela-na-gig, uno dei suoi primi singoli, era ispirato a certe figure dell’arte celtica, donne accovacciate che mostravano ghignando la vagina aperta. Erano figure sbalzate nella pietra (la calcarenite di famiglia), tra la metopa medievale e il gargoyle delle cattedrali gotiche, figure apotropaiche che potevano essere tanto terribili nelle loro deformazioni quanto rassicuranti nelle loro funzioni materne di spiriti della fertilità. Erano i due estremi su cui danzava la musica abrasiva e viscerale della giovane Polly Jean Harvey. Faceva rock – il produttore del suo secondo album, Rid of me, era Steve Albini, lo stesso di Pixies e Nirvana – ma era lontanissima sia dall’ortodossia grunge sia dal punk rivisitato delle riot grrrls. I primi due album di PJ Harvey erano abbaglianti e inafferrabili: faceva comodo a tutti, forse anche a lei stessa, dipingerla come una bizzarra anomalia cresciuta nella campagna del Dorset battuta dai venti della Manica.

PJ Harvey, Sheela-na-gig, dal vivo al festival di Reading nel 1992


Polly Jean Harvey fin da subito ha cominciato a ragionare sulla sua evoluzione: non le è mai piaciuto rimanere ferma. Nonostante il successo notevole dei suoi primi lavori ha cominciato, già dal terzo album, To bring you my love (1995), ad allontanarsi da se stessa. La sua musica diventava più ricca e più prodotta, con più tastiere, più percussioni e più archi. Le fondamenta erano sempre un blues mutante e un folk sghembo e allucinato, ma lei sul palco si trasformava con trucco pesante, abiti da sera e tacchi vertiginosi. Quando la vidi in concerto nel 1995 fui colpito da come, prima che imbracciasse la chitarra e aprisse la bocca, sembrasse una bambina con addosso i vestiti della mamma. Caracollava su sandali dal tacco impossibile, gli abiti di scena da sciantosa le cadevano male sul corpo esile e androgino. Erano vestiti pensati per un décolleté generoso che Polly non aveva, per mettere in mostra fianchi e curve che non c’erano. Sembrava uno spaventapasseri, con la sua inconfondibile bocca un po’ storta, le labbra sottili piene di un rossetto che non le donava, sembrava scusarsi per la propria goffaggine.

Ma appena partiva la musica si trasformava, bastava che con il piede toccasse il pedale della chitarra e la schiena si raddrizzava, i capelli neri che prima le coprivano il viso le cadevano morbidi sulle spalle e davanti al pubblico avveniva una metamorfosi. Polly Jean Harvey diventava un uragano e il suo costume di scena prendeva vita: era un artificio evidente, una corazza, una protezione e un modo di staccarsi da se stessa, dalla ventenne che aveva avuto il coraggio di scrivere canzoni folgoranti sul desiderio e la sottomissione, di scrivere canzoni crudeli e impudiche, sia dal punto di vista di una donna sia da quello di un uomo. Ogni sera, quando saliva sul palco diventava una specie di diva in drag, o in abiti di raso scarlatto o con una tutina rosa shocking; era una dissociazione che le permetteva di guardare se stessa dall’alto, come in certi episodi allucinatori o in certi attacchi di schizofrenia in cui si deve uscire da sé per non essere costretti a rivivere un antico trauma.

In quel periodo Polly Jean Harvey stava anche avendo una burrascosa storia d’amore con Nick Cave che le avrebbe lasciato addosso diversi segni. Non doveva essere facile per lei esibirsi ogni sera e prima di fare un quarto album, dopo To bring you my love, sarebbero passati tre, difficili anni. Tre anni di pausa per lavorare su di sé, ma anche d’intensa sperimentazione musicale. Polly Jean, avvicinandosi ai trent’anni, stava imparando a lasciarsi alle spalle quella che era stata per trasformarsi in qualcosa di nuovo. La collaborazione nel brano Broken homes con Tricky, uno degli artisti più influenti del cosiddetto trip-hop britannico, la vede allontanarsi coraggiosamente dalle sue certezze.

In Broken homes, un pezzo che ha un andamento da marcia funebre di New Orleans, Polly Jean canta usando la voce in modo nuovo, più rilassato e con meno spinta dal diaframma. Se prima, nei suoi live, usava la voce come se fosse uno strumento a percussione, ora cerca di usarla come uno strumento a corde. Nel Vhs Reeling with PJ Harvey, uscito nel 1994, la vediamo, in camerino, cantare le Arie antiche di Parisotti, una specie di manuale del bel canto per aspiranti cantanti lirici. Polly si stava ponendo fin dai tempi di Rid of me il problema di come far crescere e come curare la sua voce: evidentemente aveva già un bravo insegnante di canto che la seguiva. In Broken homes il suo canto più morbido viene sovrapposto al quasi parlato di Tricky che invece sussurra appena, prima che la canzone sia portata in fondo da un coro che copre tutto. È un territorio nuovo per lei, solitamente così asciutta, un mondo con più colori e una grana del suono tutta diversa.

Il lavoro sul suo quarto album, Is this desire?, è difficile per varie ragioni. Polly Jean Harvey trova complicato scrivere, è come bloccata. Al momento di registrare il demo di un nuovo pezzo, My beautiful Leah, ha un momento di rigetto: è tutto troppo devastante, troppo triste, troppo plumbeo. La canzone parla di una persona alla ricerca di una ragazza scomparsa. Una ragazza fragilissima che diceva di sentirsi sola al mondo anche quando veniva abbracciata, una ragazza che aveva incubi appena chiudeva gli occhi per riposare. La persona che la cerca, che forse è la stessa Leah sdoppiata alla ricerca di qualcuno o qualcosa fuori da sé, è ossessionata dalle ultime parole che le ha sentito dire: “Se non lo trovo ora, allora è meglio morire”.

Il crollo e la lunga pausa
Polly Jean crolla e per un anno si ferma. Is this desire? è un album difficile anche perché è stato registrato in due occasioni diverse a distanza di un anno una dall’altra. La prima era in un piccolo studio a Yeovil, una cittadina nel Somerset. Quella successiva in un grande studio di Londra dotato delle più recenti tecnologie.

Polly Jean Harvey faceva fatica a tenere insieme se stessa e i suoi produttori – Flood, Head e Marius de Vries – facevano fatica a tenere insieme il suono di un lavoro che si stava sviluppando in modo troppo caotico e frammentario. Più o meno in quel periodo Flood era impegnato con gli U2 e gli Smashing Pumpkins e de Vries con un’altra artista molto famosa che stava vivendo un momento di profonda trasformazione: la Madonna di Ray of light.

PJ Harvey, A perfect day Elise, regia di Maria Mochnacz, 1998


Alla fine però Polly Jean Harvey ritrova la sua voce, anzi sarà proprio la sua nuova voce a fare da collante per tutti quei frammenti così sparpagliati. In una bella, recente intervista sul Guardian, Harvey ricorda come Flood la fermasse e le dicesse di non cantare “con la voce di PJ Harvey” ma di provare qualcosa di nuovo, assecondando il testo delle canzoni e la musica.

Quella che Flood chiama “la voce di PJ Harvey” è la voce che l’aveva resa famosa: quel ruggito tutto proiettato in avanti, quel grido selvaggio ma controllato, pensato, insieme al fragore delle chitarre e al ronzio del feedback, per interrompere quelle sacche di breve, minaccioso silenzio che tanto piacevano al suo primo produttore Steve Albini. Quella che Flood le chiede in Is this desire? è una voce diversa, più duttile, fatta più di registro centrale che di estremi, una voce per raccontare più che per colpire allo stomaco, per descrivere più che per sfogarsi.

Un album di racconti
Is this desire? è il primo album di PJ Harvey fatto di racconti più che di subitanei blitz emotivi. Ed è il primo ad avere, nel libretto del cd, i testi delle canzoni. È anche l’album che la vede tornare sul palco senza i travestimenti e gli orpelli di To bring you my love. Quasi ogni pezzo di Is this desire? ha per protagonista una donna con un nome: Leah, Angelene, Joy, Elise, Dawn e Catherine. E nelle b-side dei singoli troviamo anche una Rebecca e una Nina. Ognuna di queste donne potrebbe essere un lato della personalità di Polly Jean, un aspetto del suo malessere, una sfumatura diversa della sua lotta con se stessa. Leah l’abbiamo già incontrata in My beautiful Leah: è scomparsa ed è molto probabile che sia persa per sempre. Persa nel tempo, con la voce di Polly che, a un certo punto, scandisce i mesi che passano: “October, november, december…”.

Angelene è una ragazza giovane e bella, bocca graziosa e occhi verdi. Si prostituisce e sa bene che è un peccato ma sa anche che non lo farà per sempre. Parla con Dio che le promette una felicità che lei non ha mai conosciuto e davanti a sé vede una strada aperta che la porterà lontano. È ingenua Angelene, ma si mette in viaggio. The sky lit up sembra continuare la storia: c’è una donna che cammina sola in una città. Sente che il mondo è suo, si sente forte, una cosa sola con l’aria, il vento e il cielo che la sovrasta, un cielo che improvvisamente s’illumina, il sole o uno squarcio di luce mistica, lei si sente leggera e sente che la sua “bella preghiera” è stata esaudita.

È un mondo di elementi che, come nella poesia romantica, dialogano con i sentimenti delle protagoniste: in The wind si parla di una Catherine che è niente meno che Santa Caterina di Alessandria, donna colta e vergine che, secondo la Legenda aurea, viene salvata dal martirio da un fulmine che spacca la ruota dentata che la stava uccidendo ma che viene, alla fine, decapitata. La Catherine di cui canta Polly Jean è viva e, come una di quelle divinità di American gods di Neil Gaiman, si è ritirata dal mondo moderno in una cappella, nella gola di una montagna, una cappella con la sua stessa immagine dipinta su una parete. L’artista si è ispirata a una sperduta chiesetta di Santa Caterina davvero esistente ad Abbotsbury, nel Dorset. Da lì Catherine ascolta il vento che soffia e pensa alla voce dei bambini e al supplizio della ruota. Catherine è lì da sola che si lamenta. La voce di Polly Jean, che in questa canzone si doppia – il suo cantato è quasi sovrapposto alla sua stessa voce che bisbiglia i testi – a un certo punto si domanda: “Oh madre, perché non troviamo un marito per Catherine? Un uomo bello, un buon partito?”. Santa Caterina è appunto anche la patrona delle donne nubili.

In A perfect day Elise, un singolo che ebbe un inatteso successo, si parla di un femminicidio: Joe, un uomo respinto, si presenta davanti alla porta della stanza d’albergo di Elise, dice una preghiera e piangendo le spara. Sì, proprio un giorno perfetto per la povera Elise. Nella canzone seguente, Catherine (un’altra Catherine) viene maledetta dall’io narrante della canzone che potrebbe essere o non essere un uomo: “Catherine de Barra hai ucciso i miei pensieri, ti ho dato il mio cuore e l’hai lasciato marcire, mi libererei di questo incantesimo se non fosse per il bere… Quando la luce del giorno brilla su di me maledico ogni secondo che tu respiri”. Chi sta cantando è un potenziale assassino mosso da un’invidia che ha qualcosa di Shakespeariano, soprattutto nel verso “I envy to murderous envy your lover”, Invidio il tuo amante di un’invidia assassina. I testi di questo album di PJ Harvey sono complessi, stratificati, pieni di riferimenti letterari e di contorcimenti narrativi. Sono chiaramente la sua via d’uscita da un labirinto emotivo ed esistenziale.

Electric light è un’altra canzone memorabile: stavolta l’elettronica accompagna la voce in modo sottile e senza stridori o dissonanze. È forse l’unico pezzo propriamente trip-hop dell’album, basato solo su loop e tastiere. La voce che canta osserva una bellezza immobile (forse morta?), sotto la luce elettrica. Quanto è un vezzo letterario vittoriano, questo specificare che la luce è elettrica (e non una candela o una lampada a olio)? È una bellezza che gli (o le) spacca il cuore. Lì fuori, ad aspettare questo ignoto narratore/osservatore c’è una donna di nome Dawn (che in inglese significa alba). E da lontano, nel cielo, si sente il suono delle sirene.

Ritroviamo Dawn nell’ultima canzone dell’album, Is this desire? E stavolta è in cammino in una foresta con un uomo di nome Joseph. I due sono stanchi, quando cala la notte fanno un fuoco e lui si sente come un re e lei gli dice che non ha paura. Ed è Dawn che sente, “guardando i segreti nei suoi occhi”, che quello che li lega è il desiderio, anzi “la dolcezza del desiderio”. Joseph, mentre il sole cala tra gli alberi, si chiede ad alta voce: “È questo il desiderio?”.

Is this desire? è l’album di passaggio che ha permesso a Polly Jean Harvey di diventare l’artista che è oggi. La rottura dolorosa con la ragazza e la rocker che era stata e lo sviluppo della donna e dell’autrice, della musicista e della performer che è oggi, a 54 anni. Lei stessa ha ammesso che Is this desire? è stato l’album più difficile da realizzare della sua carriera, quello che trova impossibile riascoltare per intero ancora oggi, ma allo stesso tempo è il lavoro di cui è più orgogliosa.

PJ Harvey
Is this desire?
Island, 1998

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