Il potenziale enorme della Festa del cinema di Roma
Va detto subito: alla diciottesima edizione della Festa del cinema di Roma si sono visti fotografati, rappresentati e scandagliati quasi tutti i problemi del mondo contemporaneo, insieme alle magie senza tempo di un Hayao Miyazaki o di un Trần Anh Hùng. O ancora, uscendo dall’Asia e tornando in Italia, di un’Alice Rohrwacher.
Con la nuova linea inaugurata l’anno scorso – rilancio della rassegna attraverso varie sezioni di richiamo, insieme al concorso, chiamato Progressive cinema, coniugato a un lavoro pedagogico su cinema e immagine – la Festa si conferma un evento in crescita, che bisognerà far crescere ancora di più. Dalla scorsa primavera, oltre alla manifestazione, la fondazione Cinema per Roma gestisce anche la Casa del cinema a villa Borghese, permettendo di ampliare l’offerta del festival, insieme agli spazi dell’auditorium Conciliazione, del museo Maxxi, del teatro Palladium, del cinema Adriano e di quattro sale del Giulio Cesare, oltre ovviamente a quelle dell’auditorium parco della musica Ennio Morricone. Un’offerta, quella della Casa del cinema, che peraltro riprende in questo mese di novembre con la terza parte della rassegna Carta bianca curata da Martin Scorsese.
Certo, l’assenza delle grandi star angloamericane si è fatta sentire, anche se la presenza di dive del cinema europeo come Juliette Binoche o Isabella Rossellini – premio alla carriera insieme al musicista giapponese Shigeru Umebayashi, autore di molto colonne sonore indimenticabili del cinema asiatico (per esempio il tema principale di In the mood for love di Wong Kar-wai) – hanno comunque regalato al festival le sue emozioni glamour, insieme a diversi registi ed interpreti italiani. Tra cui Paola Cortellesi, protagonista del film d’apertura di cui è anche regista, C’è ancora domani, un’opera diseguale ma importante.
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La direttrice artistica Paola Malanga e il presidente della fondazione Gian Luca Farinelli, già direttore della prestigiosa cineteca di Bologna e del festival Il cinema ritrovato, con la Festa stanno dando vita a una struttura e a una meccanica dal potenziale gigantesco, capace di creare una sinergia unica con l’industria romana del cinema e dell’audiovisivo, insieme alle cineteche sul territorio, a cominciare da quella di Roma – in corso di rilancio – che, oltre a non intaccare il prestigio e l’attrattiva della Mostra di Venezia, potrebbero anzi fare di quest’ultima il punto terminale di un complesso meccanismo commerciale, culturale e pedagogico.
Bisognerà tuttavia vedere chi sarà nominato dal neopresidente della Biennale d’arte Pietrangelo Buttafuoco alla guida della Mostra dal 2025. Il mandato di Alberto Barbera scade infatti l’anno prossimo. Intanto, i numeri della Festa del cinema di Roma confermano il notevole aumento di pubblico di tutte le età, insieme a quello di studenti e ragazzi, la cui presenza crea un’atmosfera vitale ben visibile, grazie anche al successo della sezione Alice nella città.
I premi
La giuria presieduta dall’attore-regista Gael García Bernal, che ha assegnato il palmarès del concorso, ha scelto bene. Il premio maggiore, quello del miglior film, è andato al brasiliano Pedágio. Con questo suo secondo film, Carolina Markowicz riesce a costruire un’opera breve e densa dalle belle atmosfere – con personaggi molto ben delineati, al pari delle situazioni di cui sono protagonisti – sui pregiudizi e soprattutto sull’ipocrisia che in quel paese tocca ancora gli omosessuali, con sullo sfondo il dilagare del cristianesimo integralista. Il tutto in un film dal tono anche intimo, che mette in scena con finezza il complicato rapporto tra una madre e un figlio. Davvero un’opera migliore rispetto a un altro film brasiliano, Regra 34 di Júlia Murat, vincitore di Locarno nel 2022, che ostentava in maniera piatta le tematiche gender.
Blaga’s lessons di Stephan Komandarev, al quale è andato il gran premio della giuria, forse lo preferisco di poco al brasiliano: conferma come il cinema bulgaro, nel panorama dell’Europa dell’est, sia da seguire con attenzione, al pari di quello romeno. Grazie al potente ritratto di una pensionata, che sembra un monolite d’onestà, assistiamo al dissolvimento di questo valore, e il film diventa così lo specchio della società bulgara, sopraffatta da corruzione e liberismo. Lettura cementata dal finale senza scampo, che lascia il segno nell’animo dello spettatore.
Vince invece il premio per la miglior regia Un silence del belga Joachim Lafosse, un regista discreto ma dalla notevole coerenza e rigore nell’indagare i meandri delle relazioni umane e familiari. Anche in questo caso non fa eccezione: sono le violenze sessuali tra le mura di casa a essere messe davanti all’obiettivo della macchina da presa. E più precisamente i silenzi, di ciascuno ma in particolare della madre-moglie. Notevole tutto, magistrale la scelta di tenere fuori campo, invisibile dall’inizio alla fine, il figlio maggiore, oggetto delle violenze. Tre film che speriamo davvero escano in Italia.
Un po’ meno convincente è sembrato Black box, della tedesca di origini turche Asli Özge, soprattutto nella fotografia e nella regia. Infatti è stato premiato per la miglior sceneggiatura. Il dissolvimento di quasi tutto quel che abbiamo conosciuto è concentrato nel cortile e nelle abitazioni di un condominio di Berlino, in Germania, dove ogni cosa si disintegra in piccoli gruppi d’interesse contrapposti tra loro. Peccato che la regia e il montaggio manchino della sufficiente tensione per conferire una reale potenza all’assunto del film: persi nel particolare non vediamo oltre il nostro naso, la linea d’orizzonte all’esterno.
Il premio ad Alba Rohrwacher per la sua interpretazione di Monica, sorta di alter ego di Monica Vitti in Mi fanno male i capelli di Roberta Torre vale il film ora in sala. Lei sta perdendo la memoria e per sopravvivere s’identifica sempre di più nella sua attrice feticcio: ma più la perde e più aiuta tutti noi a ritrovare e mantenere la memoria del mezzo d’espressione che ha segnato il novecento: il cinema. Torre, che continua la sua esplorazione della memoria, lo fa con un film breve, suggestivo e davvero originale. Un film-sogno leggero e profondo, in cui ibrida la finzione con filmati di repertorio e immagini create ad hoc, che sembrano di repertorio anche quelle, e non meno belle.
Ma sono molti, la maggior parte, i titoli del concorso davvero apprezzabili. Bisogna almeno segnalare il francese Comme un fils di Nicolas Boukhrief, realizzato grazie all’interesse per il progetto del suo protagonista, Vincent Lindon: questo racconto di un ragazzino rom abbandonato da tutti, che sembra già condannato a una vita da ladro o di violenza fisica, asciutto e del tutto privo di retorica, ma profondamente umano, rivela un raro volto di un’infanzia rubata. E il titolo del film rispecchia anche un sentimento che nasce nello spettatore al pari dell’insegnante interpretato da Lindon.
Nella sezione Freestyle – bel mescolamento di tipologie e formati diversi di cinema, ma anche di documentari d’autore – va segnalato almeno lo splendido Segnali di vita di Leandro Picarella, cineasta parte della nuova tendenza che guarda al documentario di poesia e alle videoinstallazioni. Questo visionario e delicato racconto di un astronomo in fuga dalla città e da se stesso per andare a dirigere in solitudine un osservatorio astronomico in una valle sperduta della Valle d’Aosta avrebbe potuto essere inserito in concorso. Più si avanza e più le certezze granitiche dello scienziato vengono meno. Più si avanza e più la sua alienazione è messa a nudo, invece che quella della comunità rurale. Infine, più si avanza e più il film di Picarella appassiona, sorprende e dimostra un’immaginifica capacità figurativa, sempre però coerente al tema e alla narrazione.
L’atteso Miyazaki
Molte le cose belle viste nelle altre sezioni. Su tutti spicca il nuovo, attesissimo, lungometraggio d’animazione di Hayao Miyazaki, Il ragazzo e l’airone, presentato in anteprima italiana nella sezione Grand public. Lucky Red lo porterà nelle sale dal 1 gennaio 2024. Senza dubbio il maestro giapponese ha centrato un nuovo capolavoro, un’opera di notevole profondità e originalità poetica, anche se rielaborando le consuete tematiche, ossessioni, leit motiv. Ma qui per la prima volta, dopo alcuni accenni in altre opere e pur restando il suo un film del tutto personale, Miyazaki sembra arrivare vicino all’universo e alla visione esoterico-poetica di un David Lynch, in particolare quello delle varie serie e film di Twin Peaks (la stanza con il sipario rosso e la scacchiera, sorta di porta verso altre dimensioni), ma anche di lungometraggi che hanno segnato radicalmente i percorsi del cinema contemporaneo, come Strade perdute e Mulholland Drive. Ma ci sarà modo di tornare su questa nuova storia di mutazioni, in cui la favola equivale più che mai a un viaggio nell’inquietudine, a un’esplorazione degli archetipi e dell’anima, proprio come lo erano le fiabe di un tempo, al contrario di tanta favolistica plastificata dei prodotti audiovisivi di oggi.
Tanti i film di Best of 2023, la sezione che presenta il meglio dei grandi festival, oltre alla Palma d’oro di Cannes, Anatomia di una caduta, ora in sala. C’era un po’ di diffidenza su La passion de Dodin Bouffant di Trần Anh Hùng, che Lucky Red distribuirà l’anno prossimo, per via della sua tendenza al leccato-retorico. Ma se è vero che nel nuovo lungometraggio del regista di Il profumo della papaya verde (1993), vietnamita ormai naturalizzato francese, il leccato e il retorico non mancano, è altrettanto vero che siamo di fronte a un potente oggetto sensoriale che nutre anche gli occhi della mente: con gradualità il film ti invade con la storia di questo rinomato gastronomo degli ultimi vent’anni dell’ottocento e del suo rapporto professionale con la sua cuoca, un’intensa Juliette Binoche, che si muta in potente sentimento amoroso, simbiotico all’amore per la cucina; e pur essendo ambientato in Francia, sembra fatto della stessa sostanza di cui è fatta la luce voluttuosa dell’Italia, in particolare quella delle colline toscane. E questo anche se è essenzialmente girato in interni, in particolare in una grande cucina che diventa quasi un simbolo arcaico/favolistico.
Altri due capolavori di Best of 2023. Il primo è The zone of interest, Grand prix speciale della giuria a Cannes, del britannico Jonathan Glazer. Dopo lo straordinario Under the skin, presentato in concorso nel 2013 a Venezia – dove il cineasta rinnovava la tradizione di un certo tipo di sperimentazione nel cinema di fantascienza tipico degli anni settanta – Glazer adatta l’omonimo romanzo di Martin Amis incentrato sulla vita familiare, quasi soave e immersa nella natura, del comandante del campo di concentramento di Auschwitz, un film di una perfezione assoluta e dalla sperimentazione discreta, ma ben presente nell’apparente classicismo formale. Lo porterà in sala I wonder pictures.
Il secondo è Eureka del regista argentino Lisandro Alonso, una delle figure più originali del cinema degli ultimi venti-trent’anni, interpretato da Viggo Mortensen e Chiara Mastroianni. Selezionato per Cannes première, è forse l’unico film della sezione Best of 2023 che rischia di non avere un distributore italiano. Eppure è un’opera dalla grande raffinatezza e suggestione – con le apparenze del western – sulla violenza coloniale, in cui si passa dalla riserva di Pine Ridge in South Dakota alla foresta pluviale brasiliana. Anche questo viaggio tra antipodi costituisce per lo spettatore una potente immersione sensoriale.
Sempre in questa sezione vanno citati Past lives, fine e delicata opera d’esordio, in cui la drammaturga newyorchese Celine Song di origini sudcoreane parte dal proprio vissuto. Incentrata sui sentimenti amorosi di gioventù, è ritenuta una delle sorprese dell’ultimo festival di Berlino e sarà portata in sala da Lucky Red. E poi il folle ma appassionante Orlando, ma biographie politique, esordio del filosofo Paul B. Preciado, vincitore di tre premi alla Berlinale, che sarà distribuito da Fandango. E ancora Firebrand del brasiliano Karim Aïnouz, in concorso a Cannes, nei cinema grazie alla FilmNation Entertainment.
Rispetto al lungometraggio precedente, La vita invisibile di Eurídice Gusmão (vincitore nel 2019 di Un certain regard a Cannes), ci si sposta dal Brasile all’Inghilterra della metà del cinquecento, per un film in costume incentrato sulla regina Caterina Parr, sesta moglie di Enrico VIII. Tuttavia, a essere raccontata è sempre una storia di donna schiacciata fino all’estremo dalle mostruose convenzioni sociali e patriarcali. Forse un po’ meno originale del titolo precedente, anche se il risultato resta notevole. Infine, Chimera di Alice Rohrwacher, sempre dal concorso di Cannes, che conclude la trilogia aperta da Le meraviglie (2014) e proseguita con Lazzaro felice (2018). Un’ultima favola figurativamente potente incentrata sulle reminiscenze di un inconscio collettivo, emanazione di un comune passato arcaico.
Non è invece ancora ben chiaro da chi saranno distribuiti due bei titoli angloamericani di Grand public, come lo splendido Saltburn, secondo film della cineasta inglese Emerald Fennell. Non si capisce perché non possa trovare il suo pubblico in sala questa commedia satirica anarcoide sullo scontro tra classi, che prende delle direzioni inattese e raffinate, dal ritmo perfetto, dalla scrittura divertente e caustica, e sempre ben calibrata nel fare a pezzi l’aristocrazia capitalista britannica, insieme a un recitazione superlativa da parte degli interpreti, su tutti Jacob Elordi, l’Elvis Presley di Priscilla di Sofia Coppola, qui oggetto del desiderio di donne e uomini, e soprattutto Barry Keoghan, che in Gli spiriti dell’isola interpreta la figura dello scemo del villaggio e qui idealmente rovescia quel personaggio. Merita anche Gonzo girl, diretto dall’attrice Patricia Arquette, con un ottimo Willem Dafoe nella parte Walter Reade, padre di quel particolare e rivoluzionario stile giornalistico chiamato gonzo, e una sorprendente Camila Morrone, in quella della sua assistente Alley Russo. Una lettura al femminile di una personalità, quella di Hunter S. Thompson, l’inventore del gonzo journalism nella realtà, già narrata al cinema da Terry Gilliam in Paura e delirio a Las Vegas.