“Avatar. Fuoco e cenere” è un’opera d’arte
Arriva in sala il terzo capitolo di una saga fantascientifica che è bello come un’opera di pittura naïf, come un’opera di alto artigianato che diventa arte benché sia realizzata con una sofisticata tecnologia digitale. È il terzo capitolo di Avatar, intitolato Fuoco e cenere, con il quale James Cameron chiude un primo ciclo su questo mondo immaginario che sembra molto più vero, oltre che ben più intriso di poesia e verità ultima, rispetto a quello reale.
Dove, per diretta ammissione del suo autore, la connotazione politica, sempre vicina a un fiabesco mitologico, ispirato e lirico, arriva al suo massimo. In particolare la parte che riguarda clima ed ecologia, legata alla questione del neocolonialismo, degli ultimi, dei diritti di tutte le etnie. Bisogna sapere usare le maniere forti, talvolta. Il regista lo dice in tutte le interviste: non crede più nella politica istituzionale, fatto salvo quella che parte dal basso, e si definisce un rivoluzionario. Eppure, è chiaramente un (poeta) pacifista.
Il terzo episodio della saga, dove ritroviamo Jake Sully e la sua famiglia su Pandora, illustra tutto questo grandemente. Fin dalle prime sequenze, riprese dall’alto, nel mare notturno che si confonde con un cielo australe. Appaiono le figure familiari dei giganti blu rannicchiati su una roccia, i na’vi, contemplativi e meditativi. Oppure l’impressionante maestosità dei tulkun, all’apparenza dei giganteschi cetacei mentre sono un’altra specie intelligente di Pandora (il loro linguaggio è tradotto dai nativi) i quali, molto più avanti, arrabbiati, si alzeranno dalle acque. O ancora – magia minimale alla Miyazaki – le mini meduse che fluttuano nell’aria della foresta, veicoli spirituali con la Grande Madre.
Quanto alla tecnologia 3d, raggiunge nuove vette, come nella sala di comando dei terrestri che sembra venirti addosso grazie al lavoro prospettico e sulla profondità di campo, quasi ponendo lo spettatore stesso su un “ultraset”.
Lo spirito di Hayao Miyazaki
Ma le meraviglie di Avatar nascondono la cenere del dolore, del lutto, fondamento simbolico dell’episodio insieme al fuoco, elemento che fa da motore per il popolo dei na’vi oscuri, come li definisce lo stesso Cameron, guidati da un risentimento fortissimo che sconfina nell’odio e che, sprofondando in questo abisso, subiscono anche l’attrazione fatale e smodata verso il potere. Come accade nei film western, saranno usati contro gli altri na’vi.
La serie di Avatar è un concentrato di exploit. Perché il regista di Titanic è riuscito a inventare con le tecniche digitali – quanto c’è di più lontano dall’autenticità che si presuppone necessaria per l’edificazione di una nuova mitopoietica – un mondo virtuale quasi da videogioco. Un universo che si delinea non solo come una saga epica cinematografica dal grande successo con il sapore e l’essenza delle parabole antiche – cosa già questa più unica che rara – ma che riesce, pur essendo postmoderna, a fondere tutto in un gigantesco affresco visivo, ma dal (sommo)movimento quasi permanente, anche grazie a cromatismi psichedelici che prendono sempre una connotazione spirituale.
In realtà, e lo abbiamo già osservato in altre occasioni, sembra proprio che lo spirito di Hayao Miyazaki pervada la saga poiché, oltre a riecheggiare in generale un po’ tutta la sua fantasmagoria. Trova un’eco particolare nel mondo segreto della natura – sinonimo di una verità primigenia assoluta – mista ad epica, che richiama in particolare uno dei capolavori del maestro dell’animazione giapponese, Principessa Mononoke (1997), altra parabola ecologica ma con al centro delle donne samurai e con l’apparizione di un dio cervo che ha segnato gli spettatori (il film tornerà nelle sale in 4K a giugno, mentre Porco rosso, raro esempio di una feroce opera antifascista d’animazione rivolta al grande pubblico, sarà in sala ad aprile).
Sembra un paradosso ma un cineasta giapponese che lavora sul disegno animato, cioè la forma di animazione considerata la più arcaica, e nonostante questo capace di ottenere un’ammirazione quasi religiosa da parte del pubblico rispetto alle (già stanche) animazioni digitali statunitensi, trova il suo prolungamento ideologico in un cinema digitale volto a rappresentare un mondo immaginario come quello edificato da Cameron.
Indirettamente la nazione antica (il Giappone) e quella giovane (gli Stati Uniti) – sebbene anche questa sia ormai una democrazia con i suoi anni, ora in crisi – si trovano messe allo specchio, rovesciate. Se Miyazaki nel ricercare la fonte primigenia crea un universo primordiale, attingendo alla memoria arcaica e simbolica del Giappone, Cameron, mosso dallo stesso intento, in modo appunto speculare, crea un arcaismo ex novo, che assorbe tutto e tutti, invece che globalizzato e omologante. In fondo, già nel secondo Avatar era come se il primo film, ambientato tutto nell’aria, si rispecchiasse nel mondo delle acque.
Il punto fondamentale è che questo mondo sottosopra, dove grandi frammenti di rocce sono eternamente sospesi nell’atmosfera, creando una sensazione di cielo, terra e acque che (con)fondono e si (ri)specchiano, è in realtà esso stesso un vaso di Pandora alla rovescia: invece che presagi nefasti, nasconde la luce di una nuova alba. Oppure sono effettivamente brutti presagi ma per un mondo sbagliato che muore.
In un pianeta di guerra, sempre in guerra, come il nostro e per colpa nostra, in cui è continua l’allusione ai genocidi coloniali, si muovono le eterogenee popolazioni di Pandora, vero e proprio mosaico composito: i na’vi, che di primo acchito sembrano dei giganteschi esseri un po’ folletti e un po’ elfi, simboleggiano i nativi degli Stati Uniti (gli ex “pellerossa”, cioè dei na(ti)’vi rossi, qui con sembianze blu; del resto gli esseri umani sono definiti “pelle rosa”). Ma sono anche i masai africani per le loro pose ieratiche e soprattutto nobili, per i loro corpi alti, longilinei, asciutti e dai lunghi colli, che affascinarono la grande fotografa e regista, creatrice dell’estetica nazista, Leni Riefenstahl. Come pure i mercanti del vento che richiamano le popolazioni dell’Oceania o il popolo delle ceneri che richiama invece gli indigeni dell’Amazzonia.
Per usare un linguaggio antropologico, le popolazioni di Pandora, composte all’apparenza da alieni, sono piuttosto un mosaico di tipologie umane appartenenti a etnie diverse, e quello operato da Cameron potremmo quasi definirlo una forma di sincretismo culturale, coagulatosi per mezzo dell’immaginario cinematografico. Perché la loro estetica eterogenea non rivela quel postmoderno dove moderno o antico si consumano nel simulacro del passato; quel postmoderno che, fin dagli anni ottanta, svuota ogni fenomeno dell’essenza, filosofica o religiosa, come pure della dimensione interiore (nell’arte ma anche nel singolo essere umano), rendendolo un cavallo di Troia senza guerrieri (dell’interiorità e del pensiero profondo, o della rabbia contestataria radicale, ecc.). Così, la rabbia sociale punk, nichilista ma disperata, del Regno Unito degli anni settanta diventa pura estetica, magari variopinta e quasi psichedelica, pura posa ludica nel punk fiorentino e milanese degli anni ottanta. Deriva infinita che dura ancora oggi, praticamente in ogni ambito.
Qui invece l’estetizzazione e la psichedelia rimandano sempre a una rappresentazione che trasfigura l’autenticità di un mondo arcaico perduto e le sue ideologie culturali in una sorta di sintesi mistica (la psichedelia di Avatar è sempre sinonimo di spiritualità, i due elementi sono anzi inscindibili). E ne fa la metafora del cosiddetto melting pot statunitense, cioè il crogiolo multietnico su cui si fonda l’entità di quel paese pervaso da tensioni interne che sembrano strutturali.
|
Iscriviti a Schermi |
Cosa vedere al cinema e in "tv". A cura di Piero Zardo. Ogni giovedì.
|
| Iscriviti |
|
Iscriviti a Schermi
|
|
Cosa vedere al cinema e in "tv". A cura di Piero Zardo. Ogni giovedì.
|
| Iscriviti |
Fondamentale nel conferire genuinità al ciclo, è la presenza di attori veri ma “travestiti”, per così dire, mediante appunto le tecniche digitali della motion capture, interpreti che fanno in verità un gran lavoro (e infatti il film assume un’evocazione e un lirismo pieno nella sua versione originale), mentre la virtual cam girovaga incessante tra loro negli ambienti reali, quelli del set, dove nulla esiste del mondo rappresentato con tanta intensità e fantasia sullo schermo, fatto salvo gli attori che hanno però tutt’altra apparenza.
Proprio come nel film ci sono veri ma anche finti na’vi (quest’ultimi sono appunto degli avatar), che però guardando in fondo a loro stessi potrebbero diventare anch’essi dei veri na’vi: tutti possono diventarlo, poiché la questione qui posta è puramente interiore, spirituale.
È il caso del marine ossessivo e fanatico Miles Quaritch, che biologicamente non esiste più ma che, motivato solo dal suo odio, continua a esistere esclusivamente nel mondo virtuale di Pandora, denso concentrato di bellezza e meraviglia. Ma è una bellezza che lui vuole uccidere e calpestare senza pietà, senza voler accettare che ormai esiste solo su Pandora e in quanto na’vi.
Non riesce a scegliere tra il suo essere del passato – quello di umano travagliato dalla nostalgia o dal rimpianto provato per la sua antica identità perduta – e il suo essere del (possibile) futuro: per ora è un na’vi solo in apparenza, ma è appena una sottile membrana a separarlo dalla nuova condizione, da una sua consapevole trasformazione, che qui equivale a vera elevazione spirituale.
Una metafora della paura
Il personaggio di Quaritch è una metafora per tutti gli esseri umani che non riescono ad accettare il cambiamento nei confronti dell’Altro. Anche se certamente, nello specifico, è la metafora del bianco impaurito da quello che, in realtà, è semplicemente un processo accelerato di quel che è sempre esistito nella storia umana, un processo spesso portatore di molti progressi.
In questo senso Quaritch rappresenta anche il suprematista bianco in crisi d’identità che reagisce sempre più violentemente. È ragionevole immaginare che nel prossimo capitolo della saga possa diventare finalmente quell’Altro che alberga in tutti noi, poiché noi tutti siamo l’uno e l’altro. Un Noi con la N maiuscola che, panteisticamente, diventa (il) Tutto.
Quaritch, sempre all’apparenza, è un Terminator alla rovescia, essendo il contrario dell’androide che, per quanto programmato per questo scopo, in Terminator 2 (1991) finisce per proteggere l’adolescente con una motivazione sotterranea e nascosta (o latente) assolutamente romantica, cioè con un moto interiore che inaspettatamente sorge nella macchina. L’ex umano è mosso come un automa dal suo odio meccanico e bellicoso, privo di qualsiasi connotazione epica, e sembra chiaramente destabilizzato interiormente dal figlio che ha scelto invece con nettezza l’altra identità, cioè l’Altro, pur restando nella dimensione corporea dell’essere umano.
Una destabilizzazione che lavora dentro di lui in modo latente, sotterraneo. Anche perché, a sua volta, ci lavora in modo pervasivo l’ex marine Jake Sully – di cui Miles Quaritch in qualche modo è l’alter ego – passato consapevolmente dall’altra parte: “Questo mondo è molto più profondo di quello che credi. Impara a vedere”, dice Sully a Quaritch.
Avatar è in definitiva una saga epica in cui la mascolinità virile e saggia esiste, non è ripudiata, ma convive in osmosi con l’ecosistema essenzialmente spirituale di Pandora, intrinsecamente maschile e femmineo, quando non androgino. In cui si passa dall’animismo a concezioni prossime al buddismo, sull’apparenza delle cose, sul velo sottile e illusorio che separa la realtà dalla verità dei fenomeni concreti, della loro strutturale impermanenza.
L’intenzione di fondo è, candidamente, la volontà di ritrovare l’umano che è in noi – i na’vi sono gli invasi e noi siamo gli alieni invasori, “il popolo del cielo” che non ha niente di celestiale, ma che scende per uccidere e distruggere – e primo specchio ne è la produzione stessa, dove Cameron, per dirne una, si dice sostanzialmente contro l’intelligenza generativa perché in realtà può diventare degenerativa (o “arte degenerata”, per riprendere in senso rovesciato la celebre definizione nazista rivolta all’arte contemporanea).
Ultimo erede dei grandi di Hollywood che hanno trasfigurato il kitsch – da Busby Berkeley a Cecil B. De Mille – James Cameron, da vero artista, lavora il digitale con l’umanità del grande artigiano.