12 novembre 2022 09:11

I film Marvel sono in gran parte dei film-giocattolo senz’anima e senza ricerca, soprattutto da un punto di vista visivo, inteso in senso ampio, dalla regia alla fotografia. Sono esteticamente poco interessanti, prima di tutto perché spesso non hanno un vero regista, cioè un talento che domina sugli altri. Sono all’opposto delle produzioni Warner, che attraggono anche un pubblico adulto, con i vari cicli dedicati ai personaggi di Batman, Joker e così via (ci siamo soffermati a lungo sul bel The Batman di Matt Reeves). Il perché di questa scelta è un mistero, perché va in parte contro le logiche commerciali e priva le produzioni Marvel di una parte consistente di spettatori.

È il caso anche di Black Panther. Wakanda forever, ora in sala, diretto e cosceneggiato da Ryan Coogler, come il precedente Black Panther del 2018. A dire il vero, tra i film Marvel recenti è uno dei migliori. Tutto sommato è godibile, non mancano le buone idee di sceneggiatura né i brevi momenti di suggestione. Non c’è, però, la messa in scena, la visione. Eppure le occasioni non mancherebbero. Per esempio, quando il personaggio di Namor il Sub-mariner (interpretato da Tenoch Huerta) emerge solitario dalle acque, nella notte, davanti alla regina del Wakanda, non c’è nulla di davvero mai visto che affiori dal pelo dell’acqua, nulla che inquieti veramente o che rimandi all’inconscio più profondo per far emergere qualcosa di altrettanto profondo. Non c’è la meraviglia, fosse anche per il fascino dell’oscurità. Come, per esempio, riesce a fare straordinariamente Jordan Peele nel suo splendido Nope, un film che suscita un’intensa fascinazione, dove la messa in scena è sempre portatrice di una visione potente e di significati profondi.

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Rivedere in sala Avatar (2009) – per prepararsi all’uscita di Avatar 2. La via dell’acqua, il prossimo 14 dicembre – dà la misura di come si possa fare un film altamente spettacolare, con lati politicamente forti, anche se didascalici: nel capolavoro di James Cameron degli esseri disegnati in digitale diventano poesia – se non entità – e ciò che è didascalico prende il sapore della parabola arcaica. È come se il regista giapponese Hayao Miyazaki avesse fatto un film in digitale anziché in animazione. Dietro l’infantilismo dell’apparente film-giocattolo, c’è la verità assoluta e primigenia dell’infanzia. Avatar è un racconto profondamente spirituale e simbolico, ancora oggi potentissimo. E questo perché c’è un autore, con la sua interiorità, che piega al proprio volere gli effetti speciali, invece di essere dominato dallo strumento, cioè la tecnologia (peraltro una delle tematiche che pervadono la cinematografia di Cameron), un autore che trasfigura magicamente il kitsch in arte.

Fino all’eccesso

Tornando a Black Panther e ai film Marvel, anche le idee politiche veicolate, spesso anticonformiste e inclusive (a volte forse fino all’eccesso), sono in buona parte didascaliche. Quando ben aggregate, creano rovesciamenti o sconvolgimenti interessanti riguardo alla parità dei generi o razziale, talvolta con trovate gustose. Ma anche in questo caso non mancano i difetti. C’è la tendenza a fare di questioni importanti un piccolo catalogo delle varie tematiche o sottotematiche, assemblato da geometri del politicamente corretto. Più nello specifico, questo sistema a volte rende i personaggi meno efficaci.

Namor, figura mitica e ambivalente delle produzioni a fumetti Marvel, a parte essere il capo del popolo del mare e le piccole ali ai piedi, non ha più nulla a che vedere con l’essere atlantideo originario, dal volto affusolato e dal corpo longilineo, misterioso, inquietante e dalla grande forza ieratica. In questo film è un discendente degli antichi maya. Va benissimo averlo fatto diventare un antenato degli ispanici statunitensi, oltre a essere un’ottima scelta di marketing. Ma aver scelto un attore dal corpo tozzo e dal volto comune (caratteristiche molto diverse dal fumetto) lascia perplessi. Anche qui la suggestione manca di potenza.

Tuttavia, il problema principale è l’assenza di messa in scena e di forza estetica nella costruzione fotografica – dai cromatismi sostanzialmente uniformi e intercambiabili con altri film –, un’estetica che preannuncia omologazione all’ennesima potenza. È un grande problema di tutti i film Marvel. E, se pensiamo al patrimonio visivo ad alto tasso di sperimentazione dei grandi disegnatori Marvel degli anni sessanta e settanta, pare uno scempio. Soprattutto appare incomprensibile. Artisti come Steve Ditko, Jim Steranko e, ovviamente, il geniale Jack Kirby hanno lavorato esplicitamente sulla sperimentazione, sul pop, sul concettuale o sull’astrazione (sotto quest’ultimo aspetto i risultati raggiunti da Kirby lasciano ancora oggi a bocca aperta). E questo per citare solo i tre disegnatori più emblematici. Qualcosa all’altezza di questi autori, o delle grandi narrazioni di maestri della graphic novel supereroistica come Frank Miller o Alan Moore paradossalmente la ritroviamo nelle produzioni Warner, che detiene la licenza dei personaggi Dc Comics, l’editore storico di Batman, Joker e Superman. In Black Panther non troviamo nulla di questo.

Un altro esempio magnifico proveniente dal mondo dei fumetti è l’uscita dell’edizione italiana di Fantastici quattro: full circle, un racconto di Alex Ross, maestro del fumetto pittorico di supereroi, bello prima di tutto per la straordinaria messa in scena grafica, senza dimenticare le ottime idee nella sceneggiatura. Perché le ottime idee trovano senso nella visualizzazione grafica, non sono una mera illustrazione di una storia.

È stato simpatico ritrovare tutti gli uomini ragno dei precedenti film Marvel nell’ultimo Spider-Man: no way home, un’idea che diverte chiunque abbia un minimo di senso ludico e di amore per il personaggio. Ma, all’interno del cavallo di Troia del divertimento, i blockbuster hollywoodiani contengono sempre meno i soldatini dell’interiorità e dell’arte. Si fanno sempre più film-giocattolo, veicoli dell’infantilismo galoppante di un’intera società, i cui gusti si omologano invece di diversificarsi. Se si pensa a quanta arte, a quanti autori abbia sfornato la Hollywood del grande periodo classico, troviamo immediatamente risposta alla domanda su cosa danneggi il cinema. Pur facendolo paradossalmente incassare.

Più ambizione da parte di chi produce e concepisce i film, insieme a un pubblico più maturo ed esigente, sono l’unica soluzione possibile. Anche perché con la saga di Black Panther c’è materiale per fare dei capolavori del cinema.

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