17 marzo 2018 10:16

Il regno immaginario di Wakanda si trova, almeno secondo la storia del fumetto, dalle parti del Turkana, un luogo che esiste davvero ed è una delle più estese ma anche più povere delle 47 contee del Kenya.

Il caso ha voluto che mi trovassi nella contea di Turkana il giorno in cui Black Panther è stato ufficialmente presentato in Kenya, durante un evento abbastanza di basso profilo che si teneva nel cinema di Kisumu, la città dov’è cresciuta l’attrice Lupita Nyong’o, che recita nel film.

Quarant’anni fa, quando la casa editrice di fumetti Marvel ha creato il personaggio di Black Panther, Lodwar, la capitale della contea, era un luogo sonnacchioso e isolato nelle ampie distese del Kenya settentrionale, un punto di sosta nell’ipotetico itinerario da Città del Capo al Cairo percorso da Cecil Rhodes. Non certo un luogo da visitare in sé. Il principale motivo di vanto della città poteva essere il fatto che Jomo Kenyatta, il primo presidente del Kenya, era stato detenuto qui dall’amministrazione coloniale durante la lotta per l’indipendenza.

Si tratta di un piccolo dettaglio all’interno dell’imponente affresco creato tanto dai fumetti quanto dal film. Ma è quel genere di dettaglio che viene fuori quando un film ambisce a essere qualcosa di più di due ore d’intrattenimento. Così, tra le stravaganze di marketing e i successivi dibattiti, Black Panther (2018) ha acquisito lo status di evento culturale di portata globale, più che di ultimo capitolo di una saga cinematografica multimiliardaria.

Si tratta del film diretto da un regista nero che ha incassato di più nella storia, e si spera che rappresenti un punto di svolta per le opportunità lavorative dei registi neri a Hollywood. E soprattutto, per il pubblico nero, il film dovrebbe segnare il nostro ingresso nell’universo, finora inarrivabile, dei supereroi.

È questo il momento in cui le case cinematografiche comprendono il potere dei consumatori neri e i potenziali guadagni derivanti dalla loro rappresentazione.

Il film è stato analizzato in un centinaio di modi diversi. Ognuno è andato al cinema preparandosi a una moltitudine di significati, salvo poi uscirne avendone afferrati solo una manciata: la parte del film più congeniale, la metafora che colpisce nel segno, oppure il dettaglio storico che aggiunge al film un grano di realtà.

La mia è la centunesima analisi.

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È probabile che nessuno, nel Turkana, andrà a vedere Black Panther, almeno finché non uscirà in dvd o arriverà in versione pirata.

Non ci sono cinema da queste parti, e potrebbero non essercene mai. Anche se la misteriosa vastità delle sue aride campagne potrebbe aver ispirato il misterioso regno di Wakanda, la verità è che i terreni duri, caldi e secchi della regione hanno fatto sì che essa rimanesse, fino a poco tempo fa, ignorata dall’amministrazione centrale di Nairobi.

Nella vita reale, quando le persone di Nairobi visitano il Turkana, si sentono chiedere “come vanno le cose in Kenya ?”. Questo a causa dell’immaginaria geografia del paese, che opera una separazione tra l’arido nord e il fertile sud.

E così, anche se ho dovuto aspettare due settimane prima di poter finalmente comprare un biglietto per vedere Black Panther a Nairobi (alle 11 di mattina di un giovedì, nientemeno), mi permetto di dire che pochissime delle migliaia di persone che hanno visto il film nella capitale andranno mai davvero nel Turkana, perché il modo seducente in cui è stato infiocchettato Wakanda è molto più accessibile, per la loro immaginazione, di come appare nella vita reale questa contea di frontiera.

L’idea di Wakanda come surrogato dell’Africa reale è snervante

Questo dato, a mio avviso, si ricollega a una questione più ampia e connessa al trattamento riservato al film nel dibattito pubblico.

L’idea di Wakanda come surrogato dell’Africa reale, la strisciante tendenza a celebrare il trionfo capitalistico di Wakanda come una sorta di vittoria per tutta l’Africa, è snervante. Quando sento dei bambini africani ripetere frasi fatte come “finalmente possiamo vederci nei film”, come se non fossero trent’anni che i keniani producono i loro film, mi si spezza il cuore.

Avendo lavorato dietro le quinte in alcuni film keniani, la cosa è anche frustrante. È più facile impacchettare e consumare un’Africa fittizia che trovare mille dollari per sostenere un film che racconta una storia ambientata in luoghi reali. Mentre i film di Nollywood, il festival del Fespaco a Ouagadougou o una miriade d’istituzioni cinematografiche più piccole faticano a trovare i fondi necessari a sostenersi, in Black Panther l’idea di Africa è sbiancata, privata della sua complessità, aziendalizzata, lanciata sul mercato e perfino rivenduta in Africa come una parabola sul ritorno alla purezza interpretato da un cast fin troppo sexy.

Uno sfondo affascinante
È significativo che la notizia di un immaginario paese africano che resiste al colonialismo si sia diffusa più velocemente e in modo più capillare delle notizie reali sui disordini politici nel paese reale che davvero ce l’aveva fatta a resistere. Perché le notizie delle recenti proteste in Etiopia non hanno avuto la stessa copertura delle tensioni cinematografiche tra T’Challa ed Erik Killmonger? Perché per i giovani degli Stati Uniti è più facile farsi un piano di studi basato su Black Panther che sull’Etiopia, un paese reale con persone reali che hanno resistito con successo al colonialismo ma oggi devono fare i conti con le conseguenze dell’imperialismo autoctono?

Per me la risposta è che, nonostante tutti gli appelli per un’identità nera comune, Black Panther rimane un film occidentale, girato con sguardo occidentale e rivolto soprattutto a un pubblico occidentale. Promuove idee occidentali di militarizzazione e conquista e perfino di imperialismo nella sua celebrazione di un sovrano apparentemente infallibile.

Può darsi che si tratti di uno sguardo afroamericano che celebra la pelle scura e i capelli crespi, ma rimane comunque perlopiù uno sguardo occidentale. Basti pensare che in uno dei momenti cruciali del film l’antagonista enumera le città che saranno fondamentali per portare a termine il suo piano, e nessuna di queste si trova in Africa.

Nel film l’Africa è un affascinante sfondo che aggiunge profondità e complessità, ma alla fine non è altro che questo: un trampolino che permette all’occidente di guardarsi dentro e proiettare la sua immagine di sé in tutto il mondo.

Un’Africa militarizzata sul modello delle nazioni occidentali non è certo il più grande sogno di chi finora è stato colonizzato

Un altro elemento da considerare è il diverso trattamento riservato a schiavitù e colonialismo. Se è vero che la tratta degli schiavi è il momento storico che definisce l’identità nera in occidente, qui in Africa dobbiamo ancora fare i conti con le conseguenze del colonialismo. Le due cose sono legate, ma non intercambiabili.

Non è una gara tra due sistemi d’oppressione, e nessuno dei due è intrinsecamente migliore o peggiore dell’altro, ma si tratta di esperienze sociali e politiche quantitativamente diverse. Un’Africa militarizzata sul modello delle nazioni occidentali non è certo il più grande sogno di chi finora è stato colonizzato. Lo sappiamo bene perché, proprio di questi tempi, i nostri governi stanno inseguendo questa chimera a danno delle nostre scuole, dei nostri ospedali e del nostro benessere.

Un altro elemento rivelatore è il rapporto tra il protagonista e l’antagonista e l’idea alla base della loro interazione moralmente ambigua. Laddove il pubblico occidentale sembra faticare ad accettare la malvagità del protagonista, alla fine del film, mi permetto di credere che molti di noi africani vedono le cose in maniera leggermente diversa.

Conosciamo il capitolo successivo di questa storia. Erik Killmonger è Mobutu Sese Seko, Joseph Kabila e suo padre prima di lui. Ma anche Menghistu Hailè Mariàm e l’imperatore che lui ha deposto. Oppure Jean-Bedel Bokassa della Repubblica Centrafricana o Idris Déby del Ciad. Non vale la pena soffrire per un qualsiasi governante che considera un massacro nient’altro che un dettaglio tecnico nella sua strada verso il potere. Soprattutto se deve la sua esistenza alla Cia o a un’altra potenza straniera, indipendentemente dall’ideologia a cui s’ispira. Poiché alla fine quest’uomo (ed è quasi sempre un uomo) verrà a prenderti.

Un cast eccellente
Naturalmente è importante riconoscere che, date le caratteristiche della saga a fumetti originaria e le molteplici interconnessioni nell’universo dei fumetti, gli autori del film sono obbligati a rimanere fedeli a un certo tipo di storia.

Ed è altrettanto importante notare che, muovendosi all’interno di questa storia, il regista Ryan Coogler ha fatto un lavoro fantastico. Il cast è eccellente e i personaggi femminili di questo film sono particolarmente riusciti: forti, consapevoli e sicuri di sé anche nei loro passaggi emotivi più snervanti. I costumi meritano tutti i premi possibili, e le sequenze di combattimento sono un trionfo della computer-grafica contemporanea. La sceneggiatura e l’immaginario del film hanno alimentato vari e complessi dibattiti sulla società e la politica contemporanea, il che non era una cosa scontata.

Visto nella sua dimensione specifica, cioè come parte di una più ampia strategia capitalistica di un grande studio cinematografico, si tratta di un film veramente fantastico.

Ma è importante considerarlo proprio in questa dimensione specifica. La sua dimensione non è l’Africa, e va bene così. Non sarebbe giusto aspettarsi che un singolo film si facesse carico della rappresentazione di un unico continente, quando sta già lottando per la visibilità e la rappresentazione di più di quaranta milioni di afroamericani in un settore (il cinema) che continua a considerarli solo una moneta di scambio. Il film è un trionfo della cinematografia afroamericana e dovrebbe essere apprezzato in quanto tale senza bisogno di sfruttare l’Africa come argomento di vendita.

Perché, come dice un proverbio africano che in realtà sto inventando di sana pianta, per avere valore, una cosa non deve per forza rappresentare tutto per tutti quanti.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato su Al Jazeera.

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