È davvero una bella sorpresa The Batman di Matt Reeves, dal 3 marzo nelle sale. Un film importante anche perché consente una riflessione sullo stato delle pellicole sui supereroi, delle grandi produzioni hollywoodiane ad alto tasso di spettacolarità, delle connessioni, qui davvero quasi infinite, tanto con la mitologia a fumetti di Batman quanto con quella cinematografica. E importante perché è un’opera cinematografica originale, connotata dalla forte critica al sistema sia politico sia economico. Cercheremo di spiegarlo con un testo un po’ lungo, una sorta di abbozzo di saggio, tentando di interessare e condurre il lettore, anche quello non appassionato a Batman o ai supereroi, nei complessi e variegati meandri di quest’opera dalle molte implicazioni.
“Non sono nell’ombra. Io sono l’ombra”. Questa frase è pronunciata da Batman, per la prima volta interpretato da Robert Pattinson, in una sorta di monologo interiore inserito a mo’ di prologo. E diciamo subito che Pattinson “è” Batman. Nel suo senso sia nobile sia quasi dandystico che ha in Neal Adams, disegnatore per eccellenza dell’uomo pipistrello negli anni sessanta, il suo interprete grafico paradigmatico. Ma anche nella sua chiave oscura, nell’ombra appunto. La parte oscura presente sia nel Batman di Bob Kane – che lo creò nel 1939 con l’aiuto alle sceneggiature del suo assistente Bill Finger – sia nella rivisitazione postmoderna e psicanalitica, ma epica malgrado tutto, operata da Frank Miller nella quadrilogia di graphic novel Batman: The Dark Knight Returns (1986), che ha avuto anche due seguiti, entrambi piuttosto distanziati nel tempo.
Sempre mantenendosi sul filo tenue tra l’ombra e la (flebile) luce si muove infatti il Batman di Pattinson, un attore di indubbia bravura oltre che dal fascino dark, come si dice, che ha spesso interpretato parti più o meno tenebrose. E va detto che Pattinson e Reeves – quest’ultimo ha cosceneggiato e coprodotto il film oltre a dirigerlo – sembrano marciare come all’unisono nel dare la giusta anima a questo Batman. La produzione peraltro ha accettato quasi tutte le richieste del cineasta che all’inizio non voleva dirigere questo nuovo capitolo dell’infinita saga batmaniana che Ben Affleck aveva già cosceneggiato e che avrebbe dovuto anche interpretare prima di abbandonare del tutto il progetto.
Tra le pieghe
Con Reeves e Pattinson il nuovo Batman ha preso così una direzione del tutto inaspettata rispetto a quanto previsto inizialmente dalla produzione, a cominciare dal suo ringiovanimento. Non un prequel attenzione, non la giovinezza di Batman, ma una linea alternativa con una nuova interpretazione di quel personaggio in chiave giovanile. Ma non per questo meno problematica e inquieta. Anzi, potremmo dire che tra le pieghe di questo nuovo Batman si annida gran parte dell’oscurità, intesa qui come strumento sia stilistico sia contenutistico, di molte delle migliori narrazioni dell’uomo pipistrello, cinematografiche e a fumetti. Oltre a tanti riferimenti a vari graphic novel pubblicati negli ultimi venti o trent’anni incentrati sul personaggio creato da Bob Kane.
Come nella lunga parte iniziale dopo il bel prologo. Questo è il punto dove il film, della durata di quasi tre ore, sorprende un po’ meno. Pare un film di malavita e gangster combattuti da Batman. Un buon film, certo, ma come altri del genere, anche se molto interessante visivamente. Mancano i grandi cattivi mascherati, pittoreschi quanto folli, che siamo abituati a vedere o a leggere nelle avventure di Batman. In verità, anche qui, siamo in linea con la tradizione più o meno recente e addirittura con le origini del personaggio. Il boss mafioso Falcone (interpretato nel film da John Turturro), è apparso in vari graphic novel di Batman, a cominciare da un romanzo a fumetti importante come Batman Year One, sceneggiato da Frank Miller ma disegnato da David Mazzucchelli, grande disegnatore poi passato al graphic novel sperimentale e d’avanguardia. Come pure in vari graphic novel, minori ma interessanti, tra cui quelli della coppia Joseph Loeb-Tim Sale. E vogliamo ricordare che Panini Comics sta riportando in libreria vari titoli del personaggio, tra cui la collana con Batman in versione manga e quella con il Batman black and white che ha visto la partecipazione sia di maestri del fumetto d’autore sia di grandi firme del fumetto popolare provenienti dal mondo intero.
Lo spettatore lungo il film assiste alla difficile e dolorosa costruzione di un uomo degno. Elegante ma non artificiale, forte ma non macho
Questa dimensione poco supereroistica è in realtà pienamente connaturata allo spirito dei primordi del personaggio dove erano presenti molti elementi del poliziesco. Batman, prima di avere una testata propria, venne infatti pubblicato per la prima volta sulla rivista Detective Comics, e nasce come supereroe della vendetta perché un semplice rapinatore uccide i suoi genitori davanti a lui, ancora bambino.
Vendetta è quasi il nuovo nome che il Batman giovane in versione cinematografica sembra essersi scelto e che viene ripetuto innumerevoli volte. Non per caso. Perché è un Batman dark e rock pervaso da un’angoscia interiore. A volte esplicita, altre volte meno. Un’angoscia sorda, quasi sotterranea, e Pattinson pare molto bravo a trasmettere, fin dal volto, questa tristezza, questa mestizia. Quella di una generazione, la sua, che si sente senza futuro e oscilla tra il cinismo e il desiderio quasi irrefrenabile di rapporti umani radicalmente nuovi.
Chissà, forse meglio abbandonarsi all’ombra. E alla vendetta, come fa Catwoman con vero cruccio di Batman, un grande cruccio che sfocia nella tenerezza. Perché Batman è sempre sul crinale, rischiando di scivolare nella parte oscura, nei meandri potenzialmente patologici di una psiche torturata. Tanto più che scopre una verità sulla sua famiglia che quasi lo distrugge. Un equilibrio ben precario il suo. Ma che alla fine tiene: lo spettatore lungo il film assiste alla difficile e dolorosa costruzione di un uomo degno. Elegante ma non artificiale, forte ma non macho, inquieto ma non fragile. Anzi, trae linfa per trovare forza proprio dall’inquietudine, dalle sue fragilità. Dalle quali non fugge, ma le affronta e ne fa virtù. Accetta nella forza la sua antinomia, la debolezza. E soprattutto cerca di restare retto malgrado la società sia marcia fin nelle sue fondamenta. Per questo, qui è tutto oscuro. Il denaro è un blob, un nero magma inarrestabile che divora ogni cosa. La società capitalistica è entropica e porta verso il nero, verso il buio. E qui ritroviamo il Batman della trilogia di Christopher Nolan, oltre quella sua maniera di parlare sotto la maschera quasi terrorizzante. Del resto qui tutti “governano”, Batman compreso, facendo uso della paura.
Nemici storici
Il film, al contempo, è anche un proseguimento, una variazione e il rovescio di Joker, il film di Todd Philips di cui avevamo scritto molto bene, sempre prodotto dalla Warner Bros (e di cui sta per arrivare il seguito sempre con Joaquin Phoenix). Batman, nella versione di Reeves, scopre molte cose non proprio edificanti, anche riguardo alle due famiglie miliardarie fondatrici di Gotham City, i Wayne e gli Arkham (Bruce Wayne è il figlio nato dall’unione di entrambe). L’arrivo, abbastanza veloce nella cronologia degli avvenimenti, dell’Enigmista, uno dei nemici storici tra quelli in calzamaglia del pipistrello vendicatore, se ravviva spettacolo e forza espressiva del film al contempo ne rivela pian piano la natura di personaggio sovversivo e anarchico al pari del Joker di Philips, pur essendo incontrovertibilmente uno psicotico. Il suo costume è grezzo, povero, verde militare. Tetro. Non solo è un terrorista – contrariamente al Pinguino (interpretato da un irriconoscibile ma carismatico Colin Farrell) che è un puro gangster – ma è anche colui che smaschera in profondità il sistema. I soldi, il capitalismo, sono l’ombra che tutto divora, che tutto fagocita.
Entrambi i titoli sono poi una deambulazione – scegliamo questo termine perché ha una connotazione sonnambula che si confà al film – e una rivisitazione di luoghi cinematografici, luoghi della memoria del cinema. Il Joker di Philips deambula in una New York che è quella onirico-psichedelica e post conflitto vietnamita che Martin Scorsese delineò magistralmente in Taxi Driver (1976) facendone una metropoli-oblio. Il Batman di Reeves si muove in un (non)luogo nel quale si è stratificata l’estetica della metropoli schiavista cinematografica per eccellenza che ha nutrito i due Batman di Tim Burton: Metropolis (1927) di Fritz Lang. E ricordiamoci che il gotico della Gotham City burtoniana è impregnato della lezione espressionista tedesca. Paradossalmente guardare in bianco e nero la bellissima sequenza di lotta tra Batman e Joker in cima al campanile nel primo film che Burton ha dedicato all’uomo pipistrello mette ancora più inquietudine se non paura e rivela d’un sol colpo, mediante due maschere cupe, la forza plastica di quest’estetica della malvagità oscura, dell’oscurità che alberga in tutti noi e non solo nel mostro di turno (si veda M - Il mostro di Düsseldorf, 1931, sempre di Fritz Lang).
Ma al contempo ritroviamo la Gotham più realistica dei film di Nolan e ne è un buon esempio il personaggio del Pinguino, un grasso e laido gangster che non ha nulla a che vedere con la maschera sofferente del marginale scolpita da Tim Burton nel1992 per Batman - Il ritorno (peraltro la Warner Bros si appresta a produrre una serie derivata da questo Batman con il Pinguino protagonista, connotata da una violenza furiosa simile a Joker). Anche questo registro realistico è qui sovrapposto per strati molto ben amalgamati.
Entrambi i film stanno fermi in quei luoghi, nel senso che sono impaludati, stagnanti, impantanati. Come degli universi paralleli dove non si è più andati avanti, dove è scomparsa la nozione di futuro. Sono luoghi da intendersi come estetiche cinematografiche che hanno preso nel tempo vita a sé stante, come dei limbi. E in questo senso The Batman di Reeves è una continuazione con delle variazioni importanti del Joker di Philips. Ma prima di dire perché sia anche il suo opposto va sottolineato che questa nuova interpretazione di Batman è edificata sulle stratificazioni senza farsi fagocitare dal riciclaggio delle estetiche. La regia e la fotografia sono sontuose, il montaggio sa usare il ritmo del videoclip per abbandonarlo al momento giusto, le inquadrature di questa città-cunicolo sono claustrofobiche, ma al momento giusto lasciano il posto all’ampliamento della visione, alla sua respirazione, proprio come Batman allarga il suo mantello per volare alto. A cui si saldano, a tratti, le pose e le andature maestose del Batman di Pattinson.
L’estetica ha però infiltrazioni dal cinema sperimentale anni settanta – si pensa pure a titoli più recenti ma importanti come Under the Skin (2013) di Jonathan Glazer – come dichiarato dal regista in un’interessante intervista a Le Monde dove parla anche dell’ispirazione che gli ha suscitato il lavoro di Miller. E del rock. Il film si apre infatti con un pezzo dei Nirvana usato con intelligenza (Something in the way), ma si pensa anche ai Cure. E passare dal grunge e al rock alternativo di Kurt Cobain, che era torturato nella sua identità di rocker quanto Batman, a quello dark-gotico e post-punk dei Cure è un percorso del tutto lineare.
In un cinema hollywoodiano patologicamente impantanato nei seguiti, da quelli di Matrix a quelli quasi infiniti degli Avatar di James Cameron (alla fine dell’anno il secondo titolo prima di molti altri), per il momento incapace di creare nuovi prototipi dell’immaginario, ecco allora fiorire un film ispirato e fresco grazie al processo delle stratificazioni, che qui assurgono a concime intriso di nutrimento. E se le critiche positive sono quasi unanimi negli Stati Uniti, è significativo notare che in una rivista storica di pensiero sul cinema come la francese Cahiers du Cinéma il giudizio positivo al film sia accompagnato da copertina e dossier in cui ci si interroga sulle capacità del cinema statunitense di oggi nel creare realmente nuovi terreni fertili dell’immaginario. Come in The Batman.
È infatti alla ricerca dell’amore, del romanticismo, questo Batman disorientato, quasi sociopatico, ma che in tutte le prove subite ritrova sempre l’equilibrio umanistico. Vi gioca un ruolo fondamentale il bellissimo personaggio di Catwoman, una nera, proprio come il commissario Gordon è mutato in poliziotto afroamericano. Una nera (Zoë Kravitz, figlia del rocker Lenny Kravitz) che veste di nero e che tenta di portare verso il nero dell’interiorità il cavaliere oscuro il quale, invece, intravede in lei la luce interiore. Batman, però, non può diventare nero. Mentre per Capitan America, il supereroe più conservatore e privo di sfumature della Marvel, può avere senso che diventi un nero, Batman – un prodotto dell’oscurità della civiltà bianca – è filosoficamente più giusto che resti di pelle bianca, anzi diafana come quella di Pattinson, e ricerchi tortuosamente la luce per tutti gli altri, per tutti noi. E sia così per davvero il rovescio del Joker.
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