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Il papa appoggia chi scende in piazza per i diritti umani

Udienza generale di papa Francesco nel cortile di San Damaso, Città del Vaticano, 16 settembre 2020. (Alessandro Di Meo, Ansa)

Un’estate di proteste, di cortei, di scontri violenti tra dimostranti e forze di polizia, di repressioni, di sangue. Gli ultimi mesi non sono stati segnati solo dalla pandemia ma anche da crisi politiche gravi in diverse parti del mondo. È avvenuto negli Stati Uniti a partire dall’uccisione del cittadino afroamericano George Floyd – per mano di poliziotti bianchi – il 25 maggio scorso a Minneapolis; è accaduto, ancora, in Bielorussia dopo le elezioni farsa per la presidenza, il 9 agosto, che hanno portato alla rielezione dell’autocrate Aleksandr Lukašenko; anche in Libano la popolazione è tornata in piazza dopo la tragedia del porto di Beirut (4 agosto) in seguito alla quale si è dimesso il governo del paese mediorientale.

È sullo sfondo di questi eventi e di altri episodi simili che papa Francesco, nel corso dell’angelus di domenica 13 settembre, celebrato in piazza San Pietro, ha chiesto ai governi e alle autorità coinvolte di rispettare le libertà civili e il diritto dei popoli a manifestare pacificamente. “In queste settimane si assiste in tutto il mondo a numerose manifestazioni popolari di protesta, che esprimono il crescente disagio della società civile di fronte a situazioni politiche e sociali di particolare criticità”, ha detto il papa. “Mentre esorto i dimostranti a far presenti le loro istanze in forma pacifica, senza cedere alla tentazione dell’aggressività e della violenza, faccio appello a tutti coloro che hanno responsabilità pubbliche e di governo di ascoltare la voce dei loro concittadini e di venire incontro alle loro giuste aspirazioni, assicurando il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà civili”. Non basta: il papa ha richiamato a un ruolo attivo anche le chiese locali presenti nei contesti di crisi invitandole, “sotto la guida dei loro pastori, ad adoperarsi in favore del dialogo e della riconciliazione”.

Già il 16 agosto del resto, mentre cominciavano a dilagare le proteste di piazza contro Lukašenko in Bielorussia, Francesco aveva affermato: “Seguo con attenzione la situazione post elettorale e faccio appello al dialogo, al rifiuto della violenza e al rispetto della giustizia e del diritto”. Dove l’accento, oltre che sul dialogo, cadeva sul rispetto del “diritto” e della “giustizia” quale strada maestra per scrivere pacificamente una pagina di libertà nel paese dell’Europa orientale. Ancora, nel corso dell’udienza generale del 2 settembre, dedicata in parte alla crisi libanese, il pontefice affermava fra le altre cose: “Domando ai politici e ai leader religiosi di impegnarsi con sincerità e trasparenza nell’opera di ricostruzione, lasciando cadere gli interessi di parte e guardando al bene comune e al futuro della nazione”. Un riferimento chiaro ai due mali che stanno distruggendo la democrazia libanese: l’etnonazionalismo delle diverse comunità religiose, legato spesso a interessi esterni al paese, e la grande piaga della corruzione che nutre e dà sempre nuova linfa alle diverse fazioni in lotta fra di loro per il controllo del Libano. In tale contesto anche la chiesa era chiamata in causa dal papa: “A voi, vescovi e sacerdoti chiedo zelo apostolico; vi chiedo povertà, niente lusso, povertà con il vostro povero popolo che sta soffrendo. Date voi l’esempio di povertà e di umiltà. Aiutate i vostri fedeli e il vostro popolo a rialzarsi ed essere protagonisti di una nuova rinascita”.

Due missioni diplomatiche
In questa prospettiva non ci sono però solo gli appelli del papa e i suoi ripetuti interventi: dalla Santa Sede è partita anche una importante azione diplomatica. Ha cominciato il segretario di stato, cardinale Pietro Parolin, che è volato a Beirut lo scorso 3 settembre (il papa aveva indetto una giornata di preghiera e di digiuno per il Libano per il 4 settembre, a un mese dall’esplosione). Il cardinale, celebrando la messa nella chiesa di Nostra Signora di Harissa di fronte a un gruppo di giovani cristiani, aveva affermato: “La ricostruzione del Libano non avverrà solo a livello materiale. Beirut, ‘madre delle leggi’, rinascerà dalle sue ceneri assistendo alla nascita di un nuovo approccio alla gestione della cosa pubblica, la res publica. Nutriamo tutti la speranza che la società libanese si baserà maggiormente sul diritto, i doveri, la trasparenza, la responsabilità collettiva e il servizio del bene comune”.

I molti colloqui avuti dal segretario di stato nel paese dei cedri, il ruolo attivo giocato nella crisi dal cardinale Béchara Raï , patriarca della chiesa maronita (in comunione con Roma), che chiedeva un’inchiesta internazionale sull’esplosione al porto e un nuovo esecutivo in piena discontinuità con i precedenti governi libanesi, gli aiuti materiali fatti arrivare dal Vaticano, hanno mostrato un protagonismo diplomatico della Santa Sede simile a quello mostrato dal presidente francese Emmanuel Macron, con una certa intesa sui temi di fondo tra Vaticano e Francia. Difficile sarà tuttavia per il Libano uscire da una logica di spartizione del potere su base confessionale che occupa da molti anni il sistema politico istituzionale.

Il dialogo e la mediazione restano il motore dell’azione diplomatica e politica della Santa Sede

L’altro importante scenario di crisi è quello bielorusso. In questo caso si è innescato un braccio di ferro diplomatico fra Santa Sede e regime di Minsk in conseguenza probabilmente degli interventi pubblici del papa sulla crisi che si è aperta nel paese. Lo scorso 31 agosto, infatti, al presidente della Conferenza dei vescovi cattolici in Bielorussia, monsignor Tadeusz Kondrusiewicz, di ritorno da una trasferta nella confinante Polonia dove aveva partecipato a celebrazioni per la madonna di Częstochowa, è stato impedito di rientrare in Bielorussia e il suo passaporto è stato invalidato. Per quanto quella cattolica sia una minoranza in un paese a maggioranza ortodosso e dove è forte la componente dei non credenti, ogni osservatore indipendente – tanto più se di rilievo internazionale – come ogni oppositore, viene visto con estremo fastidio e sospetto dal regime di Lukašenko. Non a caso la stampa straniera è stata allontanata per scatenare una durissima repressione lontano dagli occhi del mondo.

Per rispondere alla mossa del regime, tuttavia, papa Francesco ha spedito in Bielorussia una delegazione diplomatica guidata dal segretario per i rapporti con gli stati, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher (stretto collaboratore di Parolin), dall’11 al 14 settembre. Gallagher ha avuto un lungo colloquio con il ministro degli esteri, Vladimir Makei, e con altri esponenti politici, quindi ha incontrato i vescovi cattolici e alcuni ambasciatori cattolici presenti nel paese. Un largo giro d’orizzonte per far sentire ai vari attori coinvolti nella crisi l’attenzione della Santa Sede verso gli avvenimenti in corso. E se il regime ha potuto arbitrariamente tenere fuori dei confini del paese un arcivescovo (per il ritorno del quale si stanno svolgendo ora negoziati), si è dovuta comportare diversamente con una missione diplomatica ufficiale inviata dal papa (anche in considerazione delle buone relazioni tra la Santa Sede e Mosca, grande alleata di Minsk, sia sul piano politico sia su quello religioso).

La democrazia, lo stato di diritto in generale, il rispetto dei diritti umani, il rilievo dato alla libertà d’espressione, la vocazione a risolvere i conflitti anche più aspri attraverso il dialogo e la mediazione, restano - e anzi sono sempre di più – il motore dell’azione diplomatica e politica della Santa Sede. In tal senso il papa e il segretario di stato hanno operato con maggior rapidità e chiarezza d’intenti di grandi player politici internazionali come l’Unione europea (che solo il 24 settembre ha dichiarato, tramite l’alto rappresentante per la politica estera Javier Borrell, di non riconoscere “i risultati falsificati delle elezioni”) e le stesse Nazioni Unite, paralizzate entrambe da troppi veti e interessi specifici di potenze locali o mondiali.

Il 3 ottobre, infine, papa Francesco firmerà ad Assisi un’enciclica dal titolo Fratelli tutti (che sarà poi pubblicata il 4 ottobre), dedicata ai temi della cittadinanza globale (povertà e disuguaglianze, crisi ecologica, ruolo delle grandi tradizioni spirituali del mondo) in chiave cristiana; una visione in cui necessariamente la dottrina sociale della chiesa, aggiornata al terzo millennio, sposa, e anzi promuove, l’espansione dei diritti umani e dei princìpi democratici. Un segnale importante in un’epoca in cui tali riferimenti sono messi in discussione, sia concretamente sia sotto il profilo ideologico, da diversi leader mondiali.

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