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Le vittime che Israele vuole dimenticare

I funerali di Inas e Bayan Khammash a Deir al Balah, nella Striscia di Gaza, il 9 agosto 2018. (Said Khatib, Afp)

A Uri Avnery, giornalista e pacifista israeliano

Mentre la sete di sangue si impossessava dei mezzi d’informazione, mentre l’opinionista Shimon Riklin twittava “vogliamo che uccidiate i terroristi, più terroristi possibile, fino a quando il pianto delle loro famiglie seppellirà la loro follia omicida”, mentre il ministro per l’edilizia Yoav Galant, le cui mani sono indelebilmente macchiate dal sangue di Gaza, prometteva con lirismo biblico “darò la caccia ai miei nemici e non tornerò fino a quando non saranno annientati”, mentre il leader di Yesh Atid, Yair Lapid, scriveva “le forze della difesa devono colpirli con tutta la loro potenza, senza esitare, senza pensare” – mentre accadeva tutto questo Inas e Bayan Khammash sono state uccise.

Inas e Bayan erano madre e figlia. Inas aveva 23 anni ed era incinta, al nono mese. Bayan aveva 18 mesi. Sono morte perché l’8 agosto un missile ha colpito la loro casa, un appartamento in affitto in un palazzo di un piano a Deir al Balah, nella Striscia di Gaza. Il marito di Inas e padre di Bayan, Mohammed, è rimasto gravemente ferito.

La morte di Inas e Bayan non ha minimamente placato la sete di sangue sui social network. La notizia è stata quasi del tutto ignorata dai più importanti mezzi d’informazione israeliani, molto più preoccupati dalla cancellazione di un matrimonio a Sderot. Le priorità di Israele sono queste.

La completa indifferenza dell’opinione pubblica davanti a ogni omicidio è l’ennesima prova che siamo arrivati al punto più basso

Le pene degli abitanti delle comunità israeliane nei pressi di Gaza meritano molta attenzione, ma il totale disprezzo delle vittime dall’altro lato del confine, anche se si tratta di una madre incinta e di sua figlia di pochi mesi, è un atto di collaborazione con la propaganda bellica. La completa indifferenza dell’opinione pubblica davanti a ogni omicidio, abbinata alla sete di sangue diventata politicamente corretta, è l’ennesima prova che siamo arrivati al punto più basso.

Non è difficile immaginare cosa sarebbe accaduto, in Israele e all’estero, se Hamas avesse ucciso una donna israeliana incinta insieme alla sua bambina. Inas e Bayan, invece, erano palestinesi di Dir al Balah.

C’è ancora qualcuno in Israele capace di osservare i propri cari e immaginare quanto è atroce uccidere una madre incinta mentre tiene in braccio sua figlia? Mi chiedo se c’è ancora qualcuno che per un attimo si rende conto che Inas e Bayan erano una madre incinta e sua figlia, non diverse dalla vicina di casa e la sua bambina, non diverse da tua figlia e tua nipote. O da tua moglie e tua figlia.

Siamo ancora capaci di pensieri del genere anche se per un momento, considerato il vortice di disumanizzazione, propaganda e lavaggio del cervello che giustifica ogni omicidio e incolpa il mondo intero tranne i veri responsabili? Considerando i mezzi d’informazione, quasi tutti bramosi di vedere sempre più sangue versato a Gaza e decisi a fare tutto ciò che possono per farlo scorrere? Considerando la solita scusa secondo cui le forze di difesa non avevano intenzione di colpire una madre incinta, è semplicemente capitato, come capita e continua a capitare?

Considerato tutto questo, c’è ancora una possibilità che l’omicidio di una madre con sua figlia possa sconvolgere qualcuno? C’è ancora qualcuno che rimane colpito da tutto questo?

Da quasi 12 anni Gaza è inaccessibile ai giornalisti israeliani per ordine delle autorità israeliane. I mezzi d’informazione accettano questa restrizione di buon grado. Quanto vorrei poter essere in questo momento in casa di Inas e Bayan, raccontare la loro storia e ricordare al lettore che erano esseri umani, persone. Nell’atmosfera che si respira oggi in Israele è estremamente difficile farlo.

Vittime sconosciute
In occasione di uno dei nostri ultimi viaggi a Gaza, nel settembre 2006, il fotografo Miki Kratsman e io avevamo visitato la casa della famiglia Hammad nel campo profughi Brazil, a Rafah. A poche centinaia di metri dalla baracca in cui eravamo entrati c’era un enorme cratere. In quella stanza quasi buia non c’era niente, solo una sedia a rotelle rotta e una donna invalida stesa su un divano.

Qualche sera prima la famiglia Hammad aveva sentito il rumore degli aerei nel cielo sopra le loro teste. Basma, che allora aveva 42 anni ed è completamente paralizzata, era distesa sul suo letto di ferro. Aveva urlato alla sua unica figlia Dam al Iz, di 14 anni, di correre verso di lei per proteggerla con il suo corpo. Il tetto di cemento era crollato e aveva ucciso Dam, stretta tra le braccia di sua madre.

Da quando Inas e Bayan sono state uccise ho ricominciato a pensare a Dam al Iz e a sua madre.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz.

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