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Ryan Adams è uno dei talenti più sottovalutati della musica americana

Ryan Adams in concerto al festival South by Southwest di Austin, Texas, il 16 marzo 2016. (Christopher Polk, Getty Images per Universal Music)

C’è sempre stato uno scarto, una distanza tanto piccola quanto decisiva tra quello che Ryan Adams è diventato e quello che poteva essere. Se avesse controllato di più il suo talento, se fosse stato meno scontroso con i giornalisti e più rigoroso nella gestione della sua vita personale, forse sarebbe diventato davvero una grande star internazionale.

E invece no. Ha fatto come gli pareva, si è perso tra alcol e droghe, ha assunto e licenziato decine di musicisti, ha registrato dischi country, folk, rock, metal, alternando grandi album ad album mediocri, con un ritmo di pubblicazione frenetico e a volte incomprensibile. È rimasto uno splendido incompiuto.

Attenzione a sottovalutarlo, però. Ryan Adams non è mai stato particolarmente innovativo né originale, ma il suo canzoniere è fatto di ottimi brani, che si rifanno alla grande tradizione statunitense aggiornandola ai giorni nostri. Dopo aver riesumato il country con la sua prima band, gli Whiskeytown, Adams è stato un precursore del revival folk degli anni duemila e un raffinato autore di canzoni rock pop, dotato di una grande voce, mai abbastanza celebrata dalla critica oltreoceano.

Il suo nuovo album, Prisoner, è uscito il 17 febbraio (Ryan Adams sarà in tour in Italia l’11 luglio a Roma e il 12 luglio a Gardone Riviera) ed è un omaggio al rock britannico e americano degli anni ottanta, quello degli Smiths, di Bruce Springsteen e dei Replacements di Paul Westerberg. Ispirato alla separazione dalla cantante Mandy Moore, Prisoner è un disco malinconico nel quale, dopo qualche anno di appannamento, Adams ha ritrovato una buona vena compositiva e ha tirato fuori melodie all’altezza del suo talento: per esempio quelle del singolo Do you still love me, della dolente ballata Doomsday e del pezzo conclusivo We disappear, costruito su una tensione melodica che ricorda il miglior John Mellencamp.


Prisoner è il sedicesimo album di Ryan Adams, un artista che ha solo 42 anni. Basta questo dato a farci capire quanta musica abbia pubblicato fino a oggi. La sua carriera si è spesso incrociata anche con alcuni grandi avvenimenti della recente storia statunitense, trasformandolo in un inconsapevole testimone del cambiamento dei tempi. Dietro quell’espressione da bullo spesso si è nascosto un certo disorientamento, quasi un non sentirsi all’altezza delle aspettative che lo circondavano fin dagli esordi. L’uscita di Prisoner sembra il momento giusto per fare un piccolo bilancio sulla sua parabola.

Pini, punk e strip club
David Ryan Adams è nato nel novembre del 1974 a Jacksonville, in North Carolina. Secondo di tre fratelli, è figlio di una maestra e di un costruttore edile. I suoi genitori divorziarono quando aveva quattro anni e suo padre lo abbandonò. Da quel momento Ryan è cresciuto con i nonni materni. La sua infanzia non è stata semplice a causa di alcuni problemi di salute, in particolare di un disturbo cronico del sonno. Ha raccontato alcune delle storie della sua infanzia durante un’intervista rilasciata a The great songwriters, una trasmissione di Channel 4.

Suo nonno era stato un militare, aveva combattuto nella seconda guerra mondiale e nella guerra di Corea. Jacksonville in quegli anni era una città dominata dalla presenza delle basi militari, come quella di Camp Lejeune. Come ha raccontato lo stesso Adams al sito Buzzfeed in un interessante articolo uscito nel 2014:

Ai margini della città c’era una specie di linea immaginaria dove si alternavano un banco dei pegni, un tatuatore e uno strip club e poi di nuovo un banco dei pegni, un tatuatore, uno strip club, così fino in fondo. Poi c’era una fila di pini e dietro gli alberi si vedeva la base militare. La base stava tra noi e la spiaggia. Si erano presi tutta quella terra.

Da ragazzino, oltre a leggere fumetti e romanzi di Henry Miller, Ryan Adams diventò un appassionato di musica metal (soprattutto dei Black Sabbath) e punk grazie a Jere McIlwean, il commesso di un negozio di dischi morto di overdose negli anni novanta che fu uno dei suoi primi compagni di sala prove. Fu proprio un disco punk intitolato Fuck, registrato da una sconosciuta band di Los Angeles, i Leaving Trains, a fargli decidere di diventare un musicista.

Imparò in poco tempo, da autodidatta, a suonare batteria, chitarra e basso. Cominciò a suonare nei bar della città con una band chiamata Patty Duke Syndrome. Pian piano ampliò i suoi ascolti, avvicinandosi a Hüsker Dü, Misfits e soprattutto agli Smiths. Il cantante della band britannica, Morrissey, è ancora oggi uno dei suoi eroi musicali.

I Nirvana dell’alt country
Dopo la morte del nonno, nel 1991, Adams decise di andarsene da Jacksonville. Si trasferì a Raleigh, dove trovò lavoro come lavapiatti in una pizzeria. Nel 1994, nonostante abbia sempre detto di non amare il country (“lo odiavo, mi piaceva ascoltarlo solo da sbronzo”, ha raccontato ancora a Buzzfeed) formò insieme alla violinista e cantante Caitlin Cary i Whiskeytown, una band country, perché il punk “era troppo difficile da cantare”.


Con i Whiskeytown, atteggiandosi come una sorta di moderno Gram Parsons, Adams registrò tre album, facendo intravedere ottime doti di autore e performer. Attorno al gruppo però c’era un grosso problema di aspettative: secondo la critica i Whiskeytown erano destinati a diventare “i Nirvana dell’alt country”. Peccato che i loro dischi vendessero pochino. In questi anni, Adams sperimentò comunque i frutti di un modesto successo, a cui seguirono i primi flirt con alcol e droga e alcuni problemi psicologici, inclusi gli attacchi di panico.

Dopo tante liti e qualche musicista licenziato, il gruppo si sciolse nel 1999, giusto in tempo per finire il terzo disco, Pneumonia, uscito poi postumo nel 2001. Nel frattempo Ryan Adams si era trasferito a New York con la sua nuova fidanzata, la discografica Amy Lombardi, e aveva cominciato a progettare la sua carriera solista.

Alla vigilia degli anni duemila, Ryan Adams, a soli 25 anni, aveva già un grande futuro alle spalle. Ma la sua carriera, nonostante le apparenze, aveva ancora molto da dire. Andò a Nashville e, insieme a un gruppo di musicisti di prim’ordine come Gillian Welch, David Rawlings e Emmylou Harris, registrò il suo primo disco solista: Heartbreaker. L’album era ispirato alla fine della sua relazione con Amy Lombardi, dalla quale si era da poco separato.


Heartbreaker è un disco dolente, pubblicato per la casa discografica indipendente Bloodshot, nel quale Adams abbandona un po’ le sue pose da cantante country e trova il suo genere: un country folk molto orecchiabile che vira verso il pop e il rock, influenzato tanto da Bob Dylan quanto dagli Smiths. Non è un caso che negli anni successivi alcune di queste canzoni (per esempio Come pick me up) abbiano fatto capolino nelle più famose serie tv statunitensi. Il disco vendette bene, circa 300mila copie.

Una canzone per l’11 settembre
Il 7 settembre 2001 Ryan Adams girò il videoclip di New York New York, la canzone scelta contro il suo volere come primo singolo del nuovo album, Gold, da poco registrato a Los Angeles. I rapporti con la nuova casa discografica, la Lost Highway, erano già tesi: l’etichetta aveva cestinato il successore di Heartbreaker, un disco acustico intitolato The commercial suicide handbook, e costretto Adams a registrarne un altro in fretta e furia.

Come l’album precedente, anche New York New York era ispirata alla fine della storia d’amore con Amy Lombardi. Nel ritornello, Adams cantava “nonostante tutto ti amo ancora, New York”. Non parlava della città, ma di Amy. La prima versione del videoclip fu filmata dentro un taxi, ma fu scartata. Si decise allora di girarlo sotto il ponte di Brooklyn, con le torri gemelle sullo sfondo.


Quattro giorni dopo ci fu l’attentato dell’11 settembre. La canzone, trasmessa a rotazione da radio e televisioni, divenne in poco tempo l’inno perfetto per una New York che non c’era più. Ryan Adams, ossessionato dall’idea di sembrare uno sciacallo, smise di suonarla dal vivo e cercò inutilmente di far togliere il videoclip dalle tv musicali. Altra coincidenza curiosa: per dare ancora più forza al crescendo strumentale finale, il musicista decise di inserire un assolo suonato da un giovane sassofonista chiamato Kamasi Washington, che oggi è diventato una star mondiale del jazz.

Gold, per chi conosceva Adams fino a quel momento, fu un disco inaspettato. Era un album dove restavano forti le influenze del country e del southern rock, ma nel quale erano entrati di prepotenza tanti altri generi: il folk di Bob Dylan, Bruce Springsteen, ma anche i Rolling Stones.

Nonostante i soldi spesi dalla casa discografica per la promozione e le tre nomination ai Grammy, Gold vendette “solo” 400mila copie. Ma ad arricchire Adams ci pensarono i diritti d’autore di un altro brano (quello che lui voleva come primo singolo) intitolato When the stars go blue, registrato dai Corrs insieme a Bono Vox in una versione ancora più mielosa dell’originale. Ryan Adams ormai era una celebrità: girava pubblicità della Gap insieme a Willie Nelson e faceva comunella con Elton John, con il quale registrò una puntata del programma Crossroads.

I rapporti con il pubblico non sono sempre stati idilliaci. Nel 2002 cacciò da un concerto uno spettatore che gli aveva chiesto di suonare Summer of ’69 di Bryan Adams

L’amore e l’inferno
I rapporti con la casa discografica restavano tesi, perché l’etichetta si rifiutava di pubblicare tutti i dischi che lui registrava. Dopo aver pubblicato contro il suo volere l’insipida raccolta di inediti Demolition, la Lost Highways si rifiutò di stampare Love is hell, poi pubblicato in seguito, nel 2004, in due ep separati, una scelta commercialmente demenziale.

In tutta risposta, Adams registrò in fretta e furia Rock’n’roll, un disco non particolarmente ispirato, che fu pubblicato quasi senza promozione. L’atteggiamento strafottente del cantautore nei confronti della stampa fu ricambiato con recensioni negative dell’album. La sua dipendenza dallo speedball, una droga che è un mix di eroina e morfina, non aiutava.

Ryan Adams è sempre stato un ottimo performer dal vivo, ma i rapporti con il pubblico non sono sempre stati idilliaci. È famoso un episodio del 2002, quando il cantautore cacciò uno spettatore che gli aveva chiesto di suonare Summer of ’69 di Bryan Adams, facendo ironia su quell’equivoco del nome che lo tormenta dall’inizio della sua carriera.


Questi anni hanno affossato non poco la carriera del cantautore di Jacksonville. Soprattutto perché Love is hell era probabilmente il suo disco più bello. È un album crepuscolare, con grandi canzoni come Political scientist, Anybody wanna take me home (chiaro omaggio agli Smiths) e soprattutto l’epica The shadowlands, una ballata notturna con un grande crescendo strumentale.

Anche stavolta Ryan Adams trovò il modo per farsi notare dal grande pubblico. In Love is hell il cantautore inserì anche una cover di Wonderwall degli Oasis, lavorando per sottrazione e trasformando il singolone del gruppo di Manchester in una sommessa ninnananna notturna. Dopo averla ascoltata, Noel Gallagher disse che Adams era l’unico ad aver capito la canzone fino in fondo e che d’ora in poi avrebbe cercato di suonarla come lui. E in effetti l’ha fatto.

La vita da rockstar di Ryan Adams ebbe un brusco stop nel 2004, quando il musicista cadde dal palco durante un concerto a Liverpool, rompendosi il polso. Fu costretto a mesi di pausa, rieducazione e antidolorifici. Decise di disintossicarsi dalla droga e di tornare per un periodo a Jacksonville da sua nonna, dove imparò da capo a suonare la chitarra.

Da lì è cominciata la seconda parte della sua carriera, una fase più tranquilla. C’è stata la lunga parentesi dei Cardinals, la band con cui registrò quattro album, compreso lo splendido Cold roses e il pur buono Easy tiger. Nel 2004 ha fondato una sua casa discografica, la Pax Am, con la quale pubblica i suoi album senza bisogno di litigare (nessun discografico sano di mente del resto gli avrebbe permesso di pubblicare l’orrendo Orion, che Gianni Sibilla su Rockol, un giornalista che segue da tempo la musica di Adams, ha giustamente definito “un album inutile”).


La calma apparente di questa nuova fase della carriera è stata interrotta nel 2007 da nuovi problemi di salute, quando Adams scoprì di avere la sindrome di Ménière, una malattia dell’orecchio che ancora oggi gli provoca malori, problemi d’equilibrio ed episodi di sordità. Per un po’ di tempo fu costretto a ritirarsi dalla musica. Nel 2009 annunciò una lunga pausa e ipotizzò perfino un ritiro dalle scene.

La grande truffa del pop
Il ritiro, ovviamente, non c’è mai stato. Semplicemente la pubblicazione degli album ha cominciato a seguire dei ritmi normali, diciamo uno ogni due anni. In tempi recenti, Ryan Adams ha fatto una nuova spassosa incursione nel mondo del pop mainstream.

Il cantautore ha sempre avuto una passione per le cover integrali degli album (nel 2002 registrò una cover di Is this it degli Strokes, ancora inedita). Nel 2015 a sorpresa ha pubblicato una sua versione di 1989, album campione di vendite della popstar Taylor Swift. È stata forse la prima vera mossa ruffiana di tutta la sua carriera.


Quella di 1989 è stata un’operazione strana, ma a conti fatti molto divertente. Sentire canzoni come Shake it off trasformata in una versione aggiornata di I’m on fire di Bruce Springsteen, la plasticosa Welcome to New York diventare un pezzo rock alla U2 o Bad blood suonare come una ballata semiacustica di Noel Gallagher magari è materia che appassiona solo i critici e i nerd musicali, ma tant’è. Ryan Adams è riuscito ancora una volta a farsi notare dal grande pubblico senza perdere la sua natura di outsider. E si è tolto lo sfizio di fare questa intervista doppia surreale, in cui lui e Taylor Swift chiacchierano amabilmente del più e del meno.

Ryan Adams non è un genio, non ha cambiato la storia della musica statunitense. Ma è un ottimo autore di canzoni, un artigiano della musica che si fa guidare dall’istinto e, da sempre, ha un approccio coraggioso e originale alla musica, quasi più da appassionato che da rockstar.

Per capire la sua ironia, il suo modo di vedere il mondo, conviene ascoltare almeno una volta il suo live alla Carnegie Hall di New York, un concerto acustico in cui il cantautore, tra un brano e l’altro, parla con il pubblico, confessa il suo amore per Angry birds e Star wars, e dimostra un discreto talento comico.

Ryan Adams, e questo forse la critica non gliel’ha mai perdonato, non si sente parte di un’élite, cerca anzi di abbattere gli steccati tra musica “alternativa” e pop. Si entusiasma per le canzoni degli altri, le suona, le rielabora come un fan. Non è poi tanto diverso da Jere McIlwean, il commesso appassionato di musica punk di un piccolo negozio di Jacksonville che gli aveva fatto scoprire i Black Sabbath. Ryan Adams è un provinciale, un nerd della musica, ancora prima di essere una rockstar. E questo gli fa onore.

Questo articolo è stato aggiornato il 5 luglio 2017.

Correzione, 6 luglio. Nella versione originale dell’articolo c’era scritto “live alla Carnegie Hall di Londra” invece che “live alla Carnegie Hall di New York”.

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