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La propaganda russa distorce la realtà del conflitto in Libia

Un ufficiale dell’esercito libico accanto ai rottami di un MiG 23 nella base aerea di Al Watiya, vicino a Tripoli, strappata alle forze di Khalifa Haftar, 18 maggio 2020. (Mahmud Turkia, Afp)

Si diventa tanto più ‘umani’ quanto meno lo diventa il nemico (Broken promises? The Argentine crisis and Argentine democracy)

Il 10 ottobre 1990, prima dell’inizio della guerra del Golfo, una ragazzina di quindici anni di nome Nayirah fu testimone del massacro dei civili commesso dall’esercito iracheno in Kuwait. Al suo arrivo negli Stati Uniti testimoniò davanti al comitato bipartisan per i diritti umani del congresso. Nel suo tragico racconto di quegli eventi terrificanti, questa fu la parte più commovente: “Mentre ero lì ho visto i soldati iracheni entrare nell’ospedale con le armi. Hanno tirato fuori i neonati dalle incubatrici e li hanno lasciati a morire sul pavimento freddo. È stato orribile. Non potevo fare a meno di pensare a mio nipote nato prematuro, forse anche lui era morto”.

La sua testimonianza fu trasmessa da tutti i notiziari più importanti. All’epoca molte ong, compresa Amnesty international, ne confermarono l’autenticità. Grazie a quel video il piano dell’amministrazione di George H.W. Bush per invadere l’Iraq ottenne il sostegno di gran parte dell’opinione pubblica e della politica.

Al termine della guerra si venne a sapere che Nayirah era la figlia dell’ambasciatore kuwaitiano, non lasciava da anni la città di Washington e non era stata in Kuwait. I giornalisti smentirono la storia dei neonati negli ospedali. L’esercito iracheno aveva effettivamente commesso altre crudeltà, ma questa storia era stata fabbricata a tavolino da una società di pubbliche relazioni arruolata dal governo kuwaitiano in esilio per sviluppare una sistematica strategia di comunicazione. In altre parole, si trattava di propaganda, che funziona particolarmente bene quando offre pseudo-informazioni avvolte da forti emozioni.

Quella storia dimostra il concetto su cui si basa la creazione di uno stereotipo negativo del nemico, una tattica necessaria ad annullare qualsiasi pensiero razionale e qualsiasi esitazione riguardo la possibilità di aggredire l’“altro”. I pregiudizi preesistenti nell’opinione pubblica rafforzano in modo efficace questi messaggi. Alla fine l’“altro” si trasforma nella mente collettiva in una massa omogenea, priva di qualsiasi differenza individuale. Quell’immagine del nemico accresce la distanza tra “noi” e gli “altri” e rafforza l’idea di una ricompensa di natura etica che giustifica la violenza contro l’altro e da questa dipende.

Una storia diversa
Lo scorso mese di aprile è uscito un film russo intitolato Shugalei, forse l’esempio più straordinario di moderno film di propaganda. È disponibile sul canale YouTube della rete televisiva Russia today, di proprietà dello stato, corredato da questa sinossi: “A metà strada tra documentario e film di azione, Shugalei è la storia vera di due ricercatori russi, Maxim Shugalei e Samer Seifan, catturati dai terroristi islamici mentre lavoravano nella Libia devastata dalla guerra civile”.

Shugalei fa ricorso in modo trasparente – e a volte comico – alla propaganda per cercare di giustificare le azioni sotto copertura del governo russo in Libia. Oltre alla confusione fatta con le date, i luoghi e i dettagli, nel film sono state messe in campo tecniche preventive e palesi per creare un’immagine stereotipata del terrorista selvaggio e cattivo contrapposto al buon eroe russo, il sociologo che combatte per la verità e la pace. Il figlio del deposto dittatore Muammar Gheddafi è descritto come un vecchio saggio che vuole trasformare la Libia in “un paese di prosperità e pace”. Khalifa Haftar è un generale patriottico e sensibile che lotta per liberare il sociologo russo arrestato ma non vuole entrare a Tripoli con la forza perché teme per la sicurezza dei cittadini. Alla fine ci sono le interviste ad alcune persone che dicono: “Ehi ciao, le cose sono andate proprio così, dovete credere a quello che vi diciamo”.

Tuttavia la storia del vero Maxim Shugalei è molto diversa da quella descritta nel film.

Il 17 maggio 2019 una milizia affiliata al governo di accordo nazionale (Gna) ha arrestato tre cittadini russi e alcuni libici in piazza dei Martiri, a Tripoli. Shugalei era tra loro. L’arresto è avvenuto cinque settimane dopo il loro arrivo nella capitale e pochi mesi prima delle elezioni, poi cancellate a causa dell’attacco di Haftar a Tripoli.

Gli arrestati sono stati accusati di aver tentato di influenzare il voto. Secondo Bloomberg, in un documento del procuratore di stato del Gna si leggeva che il gruppo era “specializzato nell’influenzare le elezioni che si sarebbero tenute in diversi stati africani”, compresa la Libia. I computer portatili e le memorie dei sospettati confermavano i loro legami con Fabrika Trollei, “fabbrica di troll” in russo.

Fabbrica di troll è il nome di una rete di società di comunicazione e gruppi politici legati all’uomo d’affari russo Yevgeny V. Prigozhin, definito dai mezzi d’informazione russi “il cuoco di Putin”. Prigozhin è stato accusato dagli Stati Uniti di aver condotto delle operazioni per interferire nelle elezioni presidenziali del 2016. Shugalei lavora per la Fondazione per la protezione dei valori tradizionali, con sede a Mosca. Presidente della fondazione è Alexander Malkevich, che il dipartimento del tesoro degli Stati Uniti collega alle attività di interferenze elettorali portate avanti da Prigozhin.

A differenza dei film che amiamo guardare, in cui bene e male emergono con chiarezza , in questa storia non ci sono buoni o cattivi

Nell’ottobre del 2019 Facebook ha sospeso tre reti di account russi “non autentici” collegate a Prigozhin. Gli account avevano come obiettivo otto paesi africani, tra cui Madagascar e Libia. Secondo alcuni ricercatori dell’università di Stanford che collaboravano con Facebook alle indagini, tra queste aziende c’era la Wagner group.

Secondo un servizio della Bbc, diversi russi, compreso Shugalei, erano andati in Madagascar in veste di osservatori elettorali nel maggio del 2018, otto mesi prima delle elezioni. Almeno sei candidati si sono visti offrire soldi dai russi. Shugalei guidava una squadra che lavorava con uno dei candidati. Gli aveva offerto dei soldi e cercava di controllare la sua campagna elettorale.

Secondo una ricerca condotta dall’osservatorio su internet di Stanford, un gruppo legato a Prigozhin ha finanziato e sostenuto di nascosto alcune reti televisive molto conosciute in Libia, Aljamahiria Tv (favorevole a Saif al Islam Gheddafi, figlio dell’ex dittatore) e Alhadath tv (schierata con Haftar) e ha creato Voce del popolo, un quotidiano che appoggia l’Esercito nazionale libico di Haftar. In un articolo pubblicato dal New York Times si legge che nel 2018 anche in Madagascar dei gruppi russi hanno creato un quotidiano.

Questo paragrafo di un articolo pubblicato sulla rivista Time sintetizza più o meno l’approccio russo in Africa: “La Russia ha creato delle relazioni in Africa senza costruire granché. Non ha costruito grandi autostrade, ponti, ospedali o università. Ha deciso invece di corteggiare le élite: i signori della guerra, i generali e i presidenti a vita i cui desideri personali sono più facili ed economici da soddisfare rispetto alle necessità dei loro popoli o delle loro economie”.

Il marchio di Al Qaeda
A differenza dei film che amiamo guardare, in cui bene e male emergono con chiarezza fin dai primi minuti, in questa storia non ci sono buoni o cattivi. Se proprio si vogliono individuare i meno cattivi, bisogna fare almeno un tentativo di capire meglio la situazione.

Uno dei cattivi del film Shugalei è Abdul Raouf Kara, a capo delle Forze di deterrenza speciale Rada di Tripoli. Kara viene presentato come affiliato ad Al Qaeda e in una scena si vede un’enorme bandiera nera del gruppo Stato islamico (Is) appesa alla parete dietro le sue spalle. In realtà Kara appartiene alla corrente madkhalita del pensiero islamico, che si oppone sia ad Al Qaeda sia all’Is, cioè a tutti i gruppi che appartengono all’ideologia politica jihadista salafita. Kara ha combattuto contro l’Is e ha imprigionato molti jihadisti nel carcere Mitgha di Tripoli. Inoltre anche Al Qaeda e l’Is sono nemici: nonostante appartengano entrambi alla corrente jihadista salafita, hanno interpretazioni del credo religioso e priorità tattiche diverse.

Agli occhi dell’opinione pubblica russa l’uso del marchio di Al Qaeda è molto più efficace perché, nella memoria collettiva, la sconfitta subita dall’esercito sovietico in Afghanistan per mano di Al Qaeda e dei taliban colloca questi gruppi chiaramente tra i nemici. Legare Al Qaeda alla narrazione secondo cui sono stati gli statunitensi a condurre le operazioni per arrestare Shugalei a Tripoli contribuisce a rafforzare l’idea che la guerra in Libia sia una continuazione o una ripetizione di ciò che è accaduto in Afghanistan, dove gli statunitensi si allearono con i jihadisti per sconfiggere la Russia.

Seguendo la stessa logica del film, tenuto conto del fatto che anche molte milizie e leader che combattono con Haftar, come Ashraf al Mayar, Mahmoud al Werfalli e Sobol al Salam, sono seguaci del madkhalismo, dovremmo dedurre che anche Haftar abbia abbracciato il terrorismo islamista. Tuttavia nel film, così come nei mezzi d’informazione, Haftar è descritto come un personaggio laico che guida un esercito regolare. In realtà entrambi gli eserciti sono un misto di gruppi armati tribali e islamici.

Ho scritto per anni delle violazioni compiute dalle milizie di Tripoli e dal Gna, e continuerò a farlo. Tuttavia detesto qualsiasi tentativo di manipolare i fatti per trasmettere un messaggio semplicistico che contrappone i buoni ai cattivi. I fatti dicono che stavolta Haftar è l’aggressore e che le elezioni sono state rinviate a causa del suo attacco a Tripoli. Attirare l’attenzione su questi eventi non significa cancellare i crimini commessi dalle altre fazioni. Respingere la propaganda di una parte non significa accogliere quella dell’altra. Dobbiamo invece combattere ogni tipo di propaganda con i fatti, a prescindere da quale sia il “male minore” che decidiamo di sostenere.

La mia scena preferita del film Shugalei è quella in cui il protagonista cena con un libico che indossa strani abiti e mangia senza usare forchetta o cucchiaio. A un certo punto il libico chiede a Shugalei: “Non avete case come questa in Russia?”. Volevo dirgli che, credetemi, non abbiamo case come questa nemmeno a Tripoli.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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