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A volte la cosa migliore per salvare il mondo è fare di meno

Enrique Díaz, Getty Images

“Molte persone si sentono inutili”, osservava un mese fa il medico e giornalista James Hamblin. “Ma se sono riuscite a non infettare nessuno con il virus, sono già state utilissime”. La strana verità a proposito della pandemia è che quello che la maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, è stata chiamata a fare, per il proprio bene e per quello degli altri, è non fare: non uscire di casa, evitare gli affollamenti, andare al supermercato il meno possibile, evitare di tossire o starnutire sugli altri, e così via. Per una civiltà ossessionata dal fare le cose, non è stato facile.

L’energia delle proteste globali contro il razzismo è stata attribuita, in parte, al fatto che durante il confinamento le persone si erano sentite prigioniere. Forse un’interpretazione migliore sarebbe che, finalmente, dopo essere stati costretti per mesi a non fare nulla, c’era qualcosa di concreto da fare.

Ma più pensavo a quello che c’era dietro alla riflessione di Hamblin – che a volte si può essere fieri di non fare nulla – più mi chiedevo perché si applicava solo alla diffusione dei germi. Dopotutto, io non evito di fare un numero teoricamente infinito di cose ogni giorno, e così (non) facendo rendo il mondo migliore?

Un pensiero liberatorio
Conosciamo l’applicazione dell’idea della rinuncia come virtù in specifici contesti: nell’impegno dei medici ad “astenersi dal recar danno”, per esempio; nel concetto di frugalità come rinuncia alle spese inutili; o in quello di sobrietà come astensione dal consumo di alcol.

Ma che dire di tutte le volte che non perdo la pazienza con mia moglie o mio figlio, o delle polemiche su Twitter nelle quali non mi lascio coinvolgere? E di tutta la carne che non mangio, pur non essendo vegetariano, o delle emissioni di gas serra che non provoco? E dimenticando per un momento tutte le volte in cui cedo alle distrazioni del mondo digitale quando dovrei lavorare, che dire di tutte le volte che non cedo?

Molto dello stress che ci provoca fare le cose è causato dal fatto di doverle fare

Se questo vi insospettisce perché vi sembra un giochetto intellettuale troppo semplice che probabilmente non basta a eliminare lo stress e l’ansia per sempre, sono d’accordo con voi. Ovviamente ci sono innumerevoli cose che non faccio per le quali non merito di essere elogiato: non uccidere nessuno, non distruggere le vetrine dei negozi, non frodare le associazioni per la difesa degli animali per comprarmi auto sportive e cocaina, e la lista potrebbe continuare. Senza contare che, molto dello stress che ci provoca fare le cose è causato dal fatto di doverle fare, semplicemente per rimanere a galla economicamente.

Eppure, penso che sia un pensiero liberatorio per tutti quelli di noi che attraversano la vita con la sensazione di sottofondo che il nostro valore morale sia definito da quello che realizziamo, che dobbiamo guadagnarci il diritto di esistere raggiungendo un minimo standard di successo nel lavoro, come genitori, o in qualche altro campo, e se non lo facciamo siamo pessime persone. Idealmente, dovremmo mettere da parte questo concetto e sentirci in pace con noi stessi quali che siano i risultati che otteniamo. Ma questo è molto difficile, probabilmente è il compito di una vita.

Nel frattempo, potremmo almeno cominciare a misurare il nostro impatto sul mondo in modo un po’ più oggettivo. Il che significa tener conto della miriade di volte in cui potremmo combinare un casino, a ogni ora di ogni giorno, e in qualche modo, riusciamo meravigliosamente e sorprendentemente a non farlo.

Consigli di lettura
Nel suo libro Permission granted, la blogger americana Melissa Camara Wilkins presenta un’alternativa a una vita passata a giudicare noi stessi in base ai nostri successi.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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