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Il martirio di Aleppo non si fermerà con le belle parole

Un uomo cammina tra gli edifici distrutti da un bombardamento dell’esercito governativo siriano sul quartiere Al Qaterji di Aleppo, controllato dai ribelli, il 25 settembre 2016. (Abdalrhman Ismail, Reuters/Contrasto)

Il ventesimo secolo ha avuto il suo fardello di guerre e ognuna di esse ha caratterizzato la propria epoca. Ci sono stati ovviamente i due conflitti mondiali, ma anche tante guerre più limitate e tutte significative. Per esempio quella in Etiopia, invasa dalle truppe di Mussolini, unita al vano appello del negus, l’imperatore etiopico, di fronte alla Società delle nazioni a Ginevra nel 1926, o il massacro di Guernica bombardata dall’aviazione nazista, immortalato da Picasso nel 1937: entrambi i casi annunciarono la seconda guerra mondiale e sono stati simboli dell’impotenza delle potenze dell’epoca nell’impedirla.

Più vicino a noi, il genocidio cambogiano, compiuto dopo che i khmer rossi presero Phnom Penh nel 1975, ha resuscitato una parola e un concetto, lo sterminio di massa, che dopo Auschwitz si pensava ormai bandito. Poi c’è stato il bombardamento con i gas dei curdi compiuto dall’esercito di Saddam Hussein a Halabja in Iraq nel 1988; il genocidio ruandese con le sue centinaia di migliaia di morti nel 1994; il massacro di ottomila musulmani bosniaci uccisi dall’esercito serbo a Srebrenica nel 1995 o ancora le guerre nella Repubblica Democratica del Congo con i loro milioni di morti ignorati.

Il punto comune di questa lunga e non esaustiva lista di guerre e di massacri è l’impotenza internazionale, l’incapacità di quella che non si osa più chiamare “comunità internazionale” per impedire o fermare le uccisioni di massa. E nel ventunesimo secolo a questo elenco bisogna ormai aggiungere la Siria e – accanto a Guernica e Srebrenica – la città di Aleppo come città martire il cui nome, peraltro illustre e prestigioso, sarà per sempre associato all’orrore dei bombardamenti di questi ultimi giorni. E anche in questo caso il mondo assiste quasi in diretta senza essere in grado di fare nulla.

Un parallelo non casuale
Il confronto tra Aleppo, Guernica e Srebrenica è stato giustamente fatto il 25 settembre a New York, in occasione di una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu dedicata alla Siria, convocata da François Delattre, ambasciatore della Francia presso le Nazioni Unite.

Il parallelo non ha nulla di casuale, perché Aleppo ha in comune con le altre due città un martirio che il mondo non ha impedito. Il Consiglio di sicurezza, immaginato dopo la seconda guerra mondiale come istanza suprema di un governo mondiale integralmente rivolto alla pace, è in realtà diventato il teatro della nostra impotenza collettiva. O forse sarebbe meglio dire “ridiventato”, perché per un breve periodo, alla fine della guerra fredda, le Nazioni Unite hanno lavorato senza l’ostruzionismo delle rivalità tra le grandi potenze e l’istituzione aveva potuto ricominciare a fare quello per cui era stata creata.

Dopo ogni genocidio, dopo ogni massacro di massa, il grido “mai più” risuona fino al conflitto successivo. I siriani sono da ormai cinque anni vittime di questa incapacità del nostro mondo a spegnere gli incendi, a superare le rivalità e gli interessi nazionali quando la disperazione umana supera i limiti del tollerabile.

Del resto la Croce rossa è nata dalla testimonianza di Henry Dunant sugli orrori della battaglia di Solferino nel 1859; le convenzioni di Ginevra che regolano il diritto umanitario risalgono al 1949, pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Di fatto da un secolo e mezzo esiste un movimento universale che, anche se non può abolire le guerre, quanto meno cerca di “regolarle”, di limitare le sofferenze dei civili, di permettere i soccorsi.

La Siria subisce una doppia pena. Da un lato, gli insorti di Aleppo devono affrontare la fredda e determinata alleanza di un regime dittatoriale, che ha mostrato di essere pronto a tutto per sopravvivere, di una grande potenza come la Russia, che sta compiendo uno spettacolare ritiro strategico alle spalle delle popolazioni civili bombardate, e infine di una potenza regionale come l’Iran, il cui potere teocratico e militare si gioca il tutto per tutto strategico in questo paese chiave del Medio Oriente.

I frutti dei colloqui tra Kerry e Lavrov
Dall’altro lato, la Siria subisce le esitazioni occidentali. Prima quelle di un presidente statunitense arrivato al potere per cercare di disimpegnare gli Stati Uniti da due guerre, in Afghanistan e in Iraq, e che non vuole impegnarsi in una terza che considera “non vitale per gli interessi americani”; e poi quelle sul “dovere di ingerenza”, un dovere servito da alibi per spedizioni punitive che si sono rivelate disastrose e controproducenti come in Iraq nel 2003 e in Libia nel 2011.

Ma allora chi potrà fermare il martirio di Aleppo? Di certo non le belle parole pronunciate alle Nazioni Unite. A poche settimane dalle loro elezioni presidenziali, gli americani continuano a sperare che le discussioni bilaterali tra John Kerry e Sergej Lavrov finiranno per portare i loro frutti.

Nel frattempo la Francia si ritrova fuori gioco dalle trattative sulla Siria dopo aver fatto la scelta morale di opporsi al regime di Assad. Una scelta però diventata inaccettabile con il prolungarsi del conflitto e con l’entrata in gioco del jihadismo. Così assistiamo impotenti alle violenze commesse ad Aleppo e l’immagine di Guernica si impone sempre di più nella mente di tutti.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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