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In Camerun si combatte la battaglia per la libertà di internet

Un’edicola a Yaoundé, in Camerun, l’11 ottobre 2011. (Sunday Alamba, Ap/Ansa)

Da quasi due mesi il governo del Camerun ha deliberatamente oscurato internet nella parte anglofona del paese, ufficialmente bilingue, dov’è attualmente in corso un’ondata di proteste contro le discriminazioni.

Perché parlare di Camerun quando gli occhi di tutto il mondo sono fissati su Donald Trump, Vladimir Putin, o sulla Corea del Nord e i suoi test missilistici? Perché dal 2012 l’accesso a internet è considerato un diritto umano dalle Nazioni Unite, e impedire l’accesso alla rete è diventato uno degli strumenti di repressione “soft” a disposizione di dittatori e regimi autoritari.

Cinque anni fa il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha adottato all’unanimità una risoluzione che stabiliva che ogni persona ha il diritto di collegarsi e di esprimersi liberamente sulla rete. Oggi per una parte dei cittadini del Camerun questo diritto viene apertamente calpestato.

Negare l’accesso alla rete significa emarginare una parte della popolazione

Quello che succede in questo paese africano non ha precedenti, sia in via di principio sia per la durata del blocco. In un continente in piena mutazione, che assiste a un boom di accessi a internet da dispositivi mobili e di scambi economici e sociali, negare l’accesso alla rete per un periodo prolungato significa emarginare una parte della popolazione.

Da quando l’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, durante la rivoluzione del 2011, oscurò internet per cercare di distruggere il movimento di protesta che portò alla sua caduta, i leader autoritari ricorrono sempre più spesso a questa modalità di controllo. Secondo i dati dell’organizzazione Freedom house, nel 2016 24 paesi hanno bloccato l’accesso alla rete, contro i 15 dell’anno precedente.

Le misure di questo tipo attirano poco l’attenzione perché sono meno eclatanti di altri metodi repressivi. Lo si è visto in occasione della crisi politica nella Repubblica Democratica del Congo o dei disordini post elettorali in Gabon e in Gambia, nello Xinjiang cinese e in Nepal: oscurare internet è ormai un riflesso automatico dei governi autoritari, una sorta di precauzione per la sopravvivenza.

Edward Snowden, l’ex consulente della National security agency (Nsa) statunitense, attualmente rifugiato in Russia, non si è sbagliato quando lo scorso gennaio ha scritto su Twitter a proposito del Camerun: “È il futuro della repressione. Se non ci opponiamo, arriverà anche da noi”. Snowden ha aggiunto un hashtag che gira da due mesi sui social network, #BringBackOurInternet.

Oscuramento selettivo
Il caso del Camerun è emblematico perché le autorità di Yaoundé hanno ordinato un oscuramento selettivo, limitato alle due regioni anglofone del sudovest e del nordest del paese, dove vive un po’ meno del 20 per cento dei 22 milioni di abitanti.

La Cina ha già sperimentato questa pratica nello Xinjiang, la regione autonoma uigura nell’ovest del paese, già teatro di violenze tra la popolazione musulmana autoctona e i residenti han, la popolazione maggioritaria cinese, e più di recente di attentati o di minacce di tipo terroristico.

Ma mai fino a oggi un governo aveva applicato una simile restrizione per settimane, come ha fatto il Camerun, con gravi conseguenze economiche e sociali. Internet è divenuto fondamentale per trasferire denaro, anche tra privati, per le transazioni economiche, per la salute e l’istruzione.

Il governo sostiene di aver proceduto all’oscuramento per lottare contro la diffusione di “false informazioni” sui social network. Ma impedisce anche, e forse soprattutto, ai movimenti di protesta di organizzarsi tramite app di messaggistica come WhatsApp.

Come sempre accade, sono nati dei sistemi alternativi. È stata ideata una nuova attività, quella dei corrieri che fanno la spola tra le regioni dove internet non funziona e quelle dove la rete è accessibile, con decine di cellulari sui quali sono stati preparati dei messaggi da inviare. All’arrivo i corrieri devono solo premere il tasto “invia”.

Le radici della crisi
La crisi affonda le radici nella storia del Camerun. Ex colonia tedesca, il paese è stato diviso alla fine della prima guerra mondiale tra le potenze coloniali francese e britannica. Al momento della decolonizzazione, nel 1960, una parte del Camerun anglofono ha scelto, tramite referendum, di unirsi alla Nigeria, mentre un’altra parte si è unita al Camerun francofono.

Le iniziali promesse federaliste sono state soffocate da un centralismo autoritario incoraggiato e favorito dalla Francia, sempre molto influente e attiva, anche militarmente, nella repressione dell’opposizione, a sostegno del presidente scelto da Parigi, Ahmadou Ahidjo, originario del nord musulmano.

Nel libro d’inchiesta Kamerun! Une guerre cachée aux origines de la Françafrique, 1948- 1971 (La Découverte, 2011) Thomas Deltombe, Manuel Domergue e Jacob Tatsitsa spiegano bene le origini della crisi attuale:

Ahidjo esce in maniera trionfale da questa ‘riunificazione’ che si annunciava pericolosa. Nella più pura tradizione francese, annette senza colpo ferire il Camerun meridionale anglofono, grazie all’intervento dei suoi ingegnosi consiglieri francesi. Il che gli permette di lanciare subito un’intensa politica di assimilazione culturale, sempre con l’idea di una cooperazione con la Francia

Nel constatare gli effetti di quest’assimilazione politica e culturale a tappe forzate, Bernard Fonlon, un intellettuale e politico camerunese originario della regione costretta all’annessione, nonché sostenitore del multiculturalismo camerunese, lanciò un grido d’allarme: “Tra due o tre generazioni, saremo tutti francesi”.

Il problema è ancora attuale a mezzo secolo di distanza, anche dopo che Ahmadou Ahidjo è stato sostituito da Paul Biya, un politico che aveva suscitato molte speranza al suo arrivo al potere nel 1982, ma che con il passare del tempo si è trasformato in un despota pigro e inamovibile, che non ha risolto i problemi del paese.

La partita che si gioca in Camerun è locale e allo stesso tempo universale

La partita che si gioca in Camerun nell’indifferenza generale è locale e allo stesso tempo universale. Riguarda la capacità di uno stato moderno di vivere con le sue differenze culturali, all’interno di frontiere ereditate dalla colonizzazione. Ma riguarda anche l’uso di internet come forma di resistenza e allo stesso tempo di repressione.

Anche se sui social network l’oscuramento di internet nel Camerun anglofono ha suscitato molte reazioni e una campagna di solidarietà, il silenzio della comunità internazionale è stato assordante. Soprattutto da parte di quegli stati che, nel 2012, avevano votato per rendere l’accesso a internet un diritto umano a pieno titolo, e che oggi non fanno nulla perché sia rispettato.

Un silenzio assordante anche da parte della Francia, in nome del legame che unisce Parigi a Yaoundé, in particolare nella lotta contro l’organizzazione estremista islamica Boko haram, che è nata nella vicina Nigeria, ma ormai spadroneggia in tutta la zona, compreso il nord del Camerun.

È giusto, in nome della lotta al terrorismo, chiudere gli occhi sulle violazioni dei diritti umani in altri settori della società? Questo è un falso dilemma, che rischia di legittimare nuove ingiustizie e di rendere ancora più inefficace la lotta al terrorismo. Un motivo in più per chiedere, insieme ai camerunesi, #BringBackOurInternet.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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