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La prova di forza di Pechino sulla vita di Liu Xiaobo

Manifestanti chiedono la liberazione del filosofo e premio Nobel Liu Xiaobo a Hong Kong, il 10 luglio 2017. (Isaac Lawrence, Afp)

Come si può essere un paese sulla strada per diventare la prima potenza mondiale e trattare in questo modo uno dei propri intellettuali più brillanti? La domanda è ovviamente rivolta alla Cina e alla sorte di Liu Xiaobo, il filosofo dissidente e premio Nobel per la pace nel 2010, in punto di morte dopo la tardiva diagnosi del suo tumore al fegato.

Da quando il libero scambio è minacciato dalle pulsioni protezioniste di Donald Trump, il presidente cinese Xi Jinping ne è diventato il principale sostenitore e riceve gli applausi dell’élite globalizzata a Davos; quando lo stesso Trump annuncia il ritiro dagli accordi di Parigi sul clima, il numero uno cinese accantona il rosso per il verde e si presenta come il responsabile di una potenza ecologicamente responsabile e il resto del mondo applaude.

Ma quando si tratta di diritti umani la Cina si irrigidisce e il resto del mondo si fa discreto. L’indignazione internazionale è inversamente proporzionale alla crescita del prodotto interno lordo cinese. Solo la Germania, come spesso succede, ha espresso ad alta voce la sua opinione sul caso Liu Xiaobo, mentre gli altri paesi sono rimasti silenziosi.

La strategia di comunicazione di Pechino è più attenta alla sua immagine che al suo ingombrante paziente

Su questo dissidente imprigionato, celebrato con il premio Nobel e oggi vicino alla morte, la Cina ha un duplice atteggiamento contraddittorio. Pechino vuole salvare le apparenze per non dare l’impressione di un regime crudele e negativo, ma al tempo stesso vuole riaffermare la sua diffidenza nei confronti del mondo esterno e della sua “ingerenza” nelle questioni interne di una Cina ridiventata forte.

Così dopo l’annuncio di un tumore al fegato per Liu Xiaobo in “fase terminale”, si sono volute salvare le apparenze con il trasferimento in ospedale il 26 giugno. Due medici stranieri, uno tedesco e uno statunitense, hanno potuto fargli visita nella sua camera d’ospedale strettamente sorvegliata in compagnia della moglie Liu Xia, finora obbligata agli arresti domiciliari a Pechino.

Ma in questo caso la strategia di comunicazione di Pechino è più attenta alla sua immagine che al suo ingombrante paziente. Così la Germania ha protestato contro la trasmissione, organizzata dai servizi di sicurezza cinesi, di un video che mostra i medici stranieri al capezzale di Liu Xiaobo mentre elogiano i meriti delle cure che gli sono state prodigate dai loro colleghi cinesi.

La posizione cinese è stata ancora una volta espressa dal quotidiano ufficiale Global Times – voce molto nazionalista del partito sempre pronta a criticare gli occidentali – in un editoriale intitolato “La cura del tumore di Liu Xiaobo non deve essere politicizzata”. Lunedì 10 luglio il Global Times scriveva: “Fin dall’inizio la Cina e l’occidente hanno avuto delle divergenze sul caso di Liu: la Cina ha condannato Liu a 11 anni di prigione applicando la legge, ma alcune forze occidentali hanno fatto di Liu un eroe e gli hanno addirittura dato il premio Nobel per la pace. A quanto pare queste divergenze non sono state ancora superate, ma la Cina attuale è più forte, ha più fiducia in se stessa e non cederà alle pressioni occidentali”.

Questa dichiarazione e in particolare il rifiuto di permettere a Liu Xiaobo, come chiedevano i due medici stranieri che hanno potuto vederlo, di andare a farsi curare all’estero nonostante l’aggravarsi della sua malattia, è il modo con cui la Cina vuole mostrare di essere “forte” e di “avere fiducia in se stessa”.

Xiaobo è un convinto pacifista, che crede nella forza delle idee e ha sempre rifiutato la violenza

Nel 2011, durante una conversazione con un diplomatico cinese, avevo suggerito l’idea che Xi Jinping – che avrebbe dovuto assumere le sue funzioni l’anno successivo – potesse cominciare il suo mandato graziando Liu Xiaobo. “È impossibile”, aveva esclamato il mio interlocutore, “un’iniziativa del genere sarebbe interpretata dai cinesi come un segno di debolezza”.

Poco tempo dopo riferivo la mia conversazione a un intellettuale liberale cinese, che non si è dimostrato affatto sorpreso di questa reazione: “È normale, la liberazione di Liu Xiaobo sarebbe vista come un incoraggiamento a criticare il governo e il Partito comunista”.

Questa è la Cina, costretta a degli atteggiamenti autoritari e a un’incontestabile crudeltà nei confronti di un uomo che vive i suoi ultimi giorni o settimane per salvare la faccia di un rigido nazionalismo e di un rapporto con il potere molto meno tranquillo di quello che si potrebbe credere.

Ma in che modo Liu Xiaobo può preoccupare il potere cinese? In questo periodo di minacce terroristiche, di azioni violente che interessano molti paesi compresa la Cina, Liu Xiaobo non sembra un nemico così temibile per il regime cinese.

Privato da decenni di qualunque possibilità di esprimersi pubblicamente, Liu non ha nel paese alcun seguito o sostegno attivo al di fuori degli intellettuali e degli artisti di Pechino, e la sua morte susciterebbe più emozione all’estero che in Cina, dove l’informazione è strettamente controllata, anche su internet.

Questo intellettuale di 61 anni è un convinto pacifista, che crede nella forza delle idee e ha sempre rifiutato la violenza come mezzo per far avanzare le cose. Tuttavia la Cina, sulla carta sempre comunista, non ha mai voluto cedere di un millimetro di fronte a uomini del genere.

Il vero reato di Xiaobo
Nel 1989, durante la primavera di Pechino, Liu Xiaobo, che si trovava negli Stati Uniti come professore invitato in un’università americana, decise di rientrare a Pechino per essere a fianco degli studenti che occupavano piazza Tiananmen e presso i quali ebbe un’influenza moderatrice.

Wang Dan, uno dei leader in esilio della rivolta studentesca, ha raccontato all’Obs durante un suo recente passaggio a Parigi il ruolo di Liu Xiaobo in una fase decisiva: “L’ultimo giorno prima dell’intervento militare, il 3 giugno, gli studenti erano sconvolti, pronti a combattere e a morire ma Liu Xiaobo era riuscito a calmarli, a dissuaderli dal prendere le armi e questo è stato per me un contributo fondamentale. Se gli studenti avessero deciso di battersi, ci sarebbe stato certamente un numero molto più alto di morti”.

Il principale “reato” di Liu Xiaobo è intellettuale e quindi eminentemente politico, cioè credere e raccomandare per la Cina un sistema democratico “all’occidentale”. Questa ammirazione per la democrazia lo ha portato talvolta a degli eccessi, come il suo sostegno all’intervento americano in Iraq nel 2003.

Ma per il potere la sua colpa principale è stata soprattutto la sua adesione alla Charta 08, un documento pubblicato nel 2008 e firmato da alcune centinaia di intellettuali e di militanti in Cina. Questo documento riprendeva la Charta 77 dei dissidenti cechi guidati da Vaclav Havel nel 1977, in un’epoca in cui la fine del comunismo in Europa centrale sembrava ancora molto improbabile. Havel ha ispirato i dissidenti cinesi con il suo profilo di creatore e di dissidente, con il suo carisma e con la sua vita eccezionale che gli ha permesso di sopportare la persecuzione e di finire presidente del suo paese in seguito alla Rivoluzione di velluto.

La Charta 08 è un documento in 18 punti che immagina una Cina democratizzata con una vera separazione dei poteri, con un federalismo in grado di permettere alle minoranze nazionali di autogestirsi, con un vero stato di diritto e così via. Tra queste proposte alcune mettevano brutalmente il regime di fronte alle proprie mancanze, come la domanda di ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici, che la Cina ha firmato nel 1998 per soddisfare i paesi occidentali ma che non ha mai ratificato.

Da questo punto di vista Xi Jinping, il padrone assoluto della Cina di oggi e che si appresta a vedere il suo potere prolungato e rafforzato in occasione del prossimo congresso del Partito comunista cinese in autunno, segue la tradizione dei suoi predecessori: la sua missione è quella di perpetuare il potere del partito, non di dissolverlo o di indebolirlo.

Come i suoi predecessori ha fatto tesoro dell’esperienza del crollo dell’Unione Sovietica e dell‘“errore” rappresentato dalla glasnost (trasparenza) di Gorbaciov e dall’infatuazione per il modello occidentale.

Liu Xiaobo ha lottato tutta la sua vita contro questo potere assoluto e adesso si appresta a pagarne le conseguenze senza poter assistere, com’è invece riuscito a Havel, alla realizzazione delle sue idee.

La sua morte senza aver veramente trovato la libertà dimostra al tempo stesso la forza del potere del Partito comunista cinese ma anche la sua debolezza, la sua paura di fronte a un’idea incarnata oggi da un uomo coraggioso.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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