×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

La Romania alle prese con la rabbia degli emigrati

Una manifestazione antigovernativa a Bucarest, Romania, l’11 agosto 2018. (Octav Ganea, Inquam Photos/Reuters/Contrasto)

Una crisi migratoria può nasconderne un’altra. In Romania, uno dei paesi più poveri dell’Unione europea, la vera crisi non è rappresentata dall’arrivo di un’ipotetica ondata di migranti extraeuropei, ma dalla partenza, quella sì reale, di circa il 15-20 per cento della popolazione.

Non c’è stata alcuna guerra, alcun esodo, ma solo l’apertura delle frontiere dopo la caduta del regime comunista nel 1989, e soprattutto dopo l’adesione all’Ue, nel 2007. In una ventina d’anni, fra i tre e i quattro milioni di romeni, su una popolazione totale di oltre 22 milioni d’abitanti, si sono trasferiti a vivere e lavorare nel resto d’Europa, soprattutto in Italia, in Spagna oppure nel Regno Unito, dove costituiscono la seconda comunità straniera dopo quella polacca, e prima di quella irlandese.

È difficile rendersi conto dell’impatto dell’emigrazione quando si visita la Romania d’estate: molti romeni tornano per le vacanze, per visitare la famiglia o per presentare ai nonni rimasti in patria i figli cresciuti in altre culture e in altri ambienti. A Huși, una cittadina della Moldavia romena, dove la maggior parte delle fabbriche del periodo comunista ha chiuso i battenti, s’incontrano nelle strade tanti giovani in compagnia di tanti bambini. Ma d’inverno la città appartiene agli anziani, al punto che la dirigente di un’azienda tessile di piccolo-medie dimensioni mi ha detto che prevede di chiudere la sua attività a fine anno per mancanza di manodopera locale.

L’emigrazione è diventata una dipendenza, o un rito di passaggio all’età adulta, e ormai sono pochi i giovani, nella regione, che crescono immaginando il loro futuro da queste parti. I salari locali – circa trecento-quattrocento euro al mese – sono poco allettanti rispetto a quanto un lavoratore (anche poco qualificato) può guadagnare in Europa occidentale, dove può permettersi una vita migliore e perfino d’inviare denaro alla propria famiglia.

L’equazione è, con proporzioni variabili, la stessa in buona parte dell’Europa centrale e orientale, in particolare in Polonia o in Bulgaria.

L’appello di agosto
“La rivoluzione democratica del 1989 si è trasformata in una controrivoluzione demografica”, scrive il politologo bulgaro Ivan Krastev nel suo libro After Europe, del 2017. “Il Fondo monetario ha fatto i suoi calcoli: se questa emorragia proseguirà con le attuali proporzioni, l’Europa centrale, l’Europa dell’est e l’Europa del sud perderanno circa il 9 per cento del loro prodotto interno lordo previsto nel periodo 2015- 2030”.

Come invertire la tendenza? I fatti del mese di agosto a Bucarest danno un’idea delle difficoltà. Sfruttando la presenza nel paese di molti romeni della diaspora, sui social network è stato lanciato un appello a manifestare contro la corruzione che affligge la Romania, puntando il dito contro il partito al potere e una gestione pubblica disastrosa che si manifesta nel pessimo stato delle strade e delle infrastrutture, negli attacchi all’indipendenza della magistratura e in un clima politico avvelenato.

Il 10 agosto la grande piazza davanti alla sede del governo si è riempita di persone, almeno centomila, in buona parte della diaspora, in alcuni casi sventolando la bandiera del paese che le ha accolte: Belgio, Spagna e perfino Canada. Gli slogan denunciavano “i ladri” al potere, o attaccavano il Partito socialdemocratico (Psd) al governo, considerato da molti come il rifugio della vecchia nomenklatura dell’era di Ceaușescu, metodi compresi.

L’obiettivo è screditare l’intervento dei romeni che vivono all’estero nel dibattito politico interno

Nonostante le numerose manifestazioni pacifiche che si sono svolte a Bucarest negli ultimi anni, quella del 10 agosto si è conclusa con un duro intervento della jandarmeria (il cui nome è ispirato al suo equivalente francese), con tanto di manganellate e gas lacrimogeni che hanno provocato quasi cinquecento feriti.

Poco abituati a una simile violenza, i romeni hanno accusato il colpo, almeno fino a oggi. Molti s’interrogano sulle ragioni di questa violenza, e sospettano che alcuni agenti provocatori, in particolare degli ultrà del mondo del calcio, abbiano fornito alle forze dell’ordine il pretesto per intervenire.

Obiettivo: screditare l’intervento dei romeni che vivono all’estero nel dibattito politico locale, permettendo alle televisioni filogovernative di diffondere senza sosta le immagini degli scontri a Bucarest, un effetto di sicuro impatto nelle campagne e nei centri minori dove si concentra il grosso della base elettorale del Psd. Nei prossimi 18 mesi sono previste varie scadenze elettorali, che culmineranno con le elezioni politiche del 2019, quando un’opposizione oggi divisa spera di togliere il potere al Psd.

Alcuni romeni incontrati in Francia ammettono di non pensare di rientrare nel loro paese fino a quando sarà governato in questo modo. “Oggi non è possibile lavorarci onestamente”, afferma una giovane diplomata di un istituto francese, che immagina il proprio avvenire lontano dalla Romania.

Un altro tipo di migranti
I soldi inviati a casa da chi è emigrato garantiscono alla Romania un importante afflusso di denaro e un basso tasso di disoccupazione interno, raggiunto “grazie” all’emigrazione. Questo però significa anche la diminuzione di una popolazione attiva che possa garantire il pagamento delle pensioni, oltre a una destabilizzazione del paese svuotato delle sue forze vive.

È un dato poco preso in considerazione quando si tenta di comprendere l’evoluzione politica dei paesi dell’Europa centrale e orientale, le loro posizioni di fronte all’arrivo dei migranti extraeuropei e la crescente ostilità dei loro governi nei confronti dell’Europa.

“È accaduto”, conclude Krastev nella sua analisi, “che i principali beneficiari dell’apertura delle frontiere sono stati i giovani attivi, brillanti e individualisti, i cattivi politici dell’Europa dell’est, e i partiti politici xenofobi occidentali. Oggi, sono tanti nell’Europa orientale a dubitare dei benefici reali che una politica d’apertura delle frontiere può portare ai loro paesi”.

Solo il riequilibrio delle condizioni salariali e d’impiego tra le due parti del continente potrebbe arrestare il fenomeno, ma si tratta di un obiettivo a lungo termine, ancora fuori portata malgrado i progressi già realizzati. La questione dovrebbe essere più al centro delle preoccupazioni dell’Unione europea.

Nel frattempo i romeni della diaspora possono gridare a Bucarest la loro rabbia per le condizioni che li hanno spinti a espatriare, ricevendo come unica risposta nubi di gas lacrimogeni. Prima di riprendere il cammino dell’esilio come migranti che arrivano dall’interno dell’Europa stessa.

(Traduzione di Federico Ferrone)

pubblicità