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Ankara ignora la sentenza della Corte europea per i diritti umani 

Sostenitori di Selahattin Demirtaş ad Ankara, Turchia, il 19 giugno 2018. (Adem Altan, Afp)

Il 20 novembre la Corte europea dei diritti umani (Cedu), con sede a Strasburgo, ha condannato la Turchia per la detenzione preventiva, che dura ormai da due anni, di Selahattin Demirtaş , leader del Partito democratico del popolo (Hdp), all’opposizione. All’unanimità, il tribunale ha stabilito che questa privazione della libertà ha come scopo quello di “soffocare il pluralismo e limitare la libertà nel dibattito politico”, ordinando la scarcerazione del leader politico turco che aveva ottenuto un ottimo risultato alle elezioni del 2015.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha immediatamente sconfessato il verdetto, dichiarando (a torto) che non è vincolante e di essere pronto a contrattaccare. Oggi esiste una sola istituzione che si permette di criticare i paesi che violano lo stato di diritto, ed è proprio la Corte europea per i diritti umani. Quattro giorni prima della Turchia, la Cedu aveva condannato la Russia per i ripetuti arresti dell’oppositore Alexei Navalny, con lo stesso capo d’accusa: tentativo di danneggiare il pluralismo politico.

Nel contesto di attacchi alla democrazia ormai palese in molti stati, la Cedu si erge a ultimo baluardo dello stato di diritto.

Diversamente da quanto sostiene Ankara, le sentenze della Corte sono vincolanti per gli stati. La Cedu non è un’istituzione dell’Unione europea (in tal caso non avrebbe alcun potere su Turchia e Russia) ma del Consiglio d’Europa, fondato nel 1949 e oggi composto da 47 paesi, tra cui la Turchia e gli stati nati dallo scioglimento dell’Unione Sovietica.

Davanti alle pratiche autoritarie emerse in molti paesi, la Cedu è più utile che mai

Il tribunale ha ricoperto un ruolo importante a più riprese, che si trattasse del Regno Unito e della repressione in Irlanda del Nord o della Francia per le condizioni di vita nelle carceri. In mezzo secolo, la Francia è stata condannata 600 volte.

Ora, davanti alle pratiche autoritarie emerse in molti paesi, la Cedu è più utile che mai, anche se la sua capacità di far rispettare le sentenze è molto debole dove i governi non esitano a calpestare i trattati che hanno firmato.

La reazione del presidente Erdoğan non lascia molte speranze di vedere la Turchia piegarsi a breve termine all’ordine di liberare Demirtaş.

Eppure resta il fatto che negli ultimi anni Ankara ha cercato di non contraddire in modo palese la Cedu, preferendo conservare la faccia di rispettabilità internazionale che deriva dall’appartenenza al Consiglio d’Europa. La Turchia ha più volte minacciato di lasciare il Consiglio, ma in questo modo volterebbe le spalle al suo partner principale.

Per i difensori della democrazia, la Cedu è sicuramente uno strumento utile per puntare i riflettori sugli abusi più clamorosi. In Russia e in Turchia è già tanto.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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