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Durante le visite ufficiali in Cina non si parla di diritti umani

La cerimonia di benvenuto per il presidente Emmanuel Macron a Pechino, il 6 novembre 2019. (Lintao Zhang, Getty Images)

L’agenda delle due giornate di visita in Cina di Emmanuel Macron è particolarmente piena: alla fiera di Shanghai si parla di scambi commerciali, al Centre Pompidou si analizzano questioni culturali e nel resto del tempo ci si concentra sul nucleare iraniano e la diplomazia climatica. E i diritti umani?

I tempi sono cambiati, si sa. Le critiche pubbliche da parte degli stati sulla situazione dei diritti umani in Cina hanno seguito la curva opposta rispetto a quella della crescita cinese, fino a sparire del tutto.

Dicono che affrontare di petto il problema dei diritti umani non serva a niente. Considerato il modo di pensare del presidente cinese Xi Jinping, convinto che si tratti di “propaganda proveniente dall’esterno per indebolire la Cina”, in questo modo non si otterrebbero risultati. Anzi, si tratterebbe di un atteggiamento controproducente.

Approcci infruttuosi
Il problema è che l’approccio alternativo, quello che consiste nell’affrontare l’argomento dietro le quinte sottolineando l’importanza di difendere la libertà intellettuale o la necessità per un attore di primo piano sulla scena mondiale di avere un atteggiamento responsabile, è altrettanto infruttuoso. Emmanuel Macron dichiara di poter affrontare qualsiasi argomento, ma ammette di andare a sbattere contro la logica implacabile di Xi: priorità all’unità del paese e rifiuto di diventare un “ Gorbačëv cinese”, ovvero di indebolire lo stato e il partito attraverso le riforme politiche.

Questo è il dilemma della visita del presidente francese. I temi dell’agenda bilaterale e multilaterale con una superpotenza emergente come la Cina sono talmente numerosi che non bisogna metterli a rischio insistendo troppo su argomenti sgraditi.

Nell’agenda diplomatica i diritti umani sono spesso emarginati se non strumentalizzati

Ma la verità è che anche i temi scottanti abbondano. Il destino della minoranza uigura nello Xinjiang, dove oltre un milione di persone si trova in campi di rieducazione, è al centro dell’attenzione di tutte le organizzazioni in difesa dei diritti umani che hanno continuato a documentare le violazioni, anche se non ricevono il necessario sostegno istituzionale.

Concetto universale di umanità
Gli scontri quasi quotidiani a Hong Kong sono un altro esempio, per non parlare della sorveglianza su larga scala, delle detenzioni arbitrarie e dell’assenza di uno stato di diritto in un paese che sul fronte del tenore di vita ha ottenuto invece enormi miglioramenti.

Nell’agenda diplomatica questi argomenti sono spesso emarginati se non strumentalizzati. Si parla sempre e solo di economia, mentre il diritto d’ingerenza (o forse sarebbe meglio dire il dovere) è sparito. I paesi occidentali che un tempo dominavano oggi sono costretti all’umiltà.

Non è necessariamente una cattiva notizia, ma nell’attuale contesto segnato dalla ridefinizione dei rapporti internazionali, nessuno ha ancora trovato il modo di affrontare i diritti umani con un paese troppo potente.

Per questo chiedere conto alla Cina del destino della minoranza uigura non è segno di un’arroganza occidentale che non ha più ragione di esistere, ma di un concetto universale di umanità. Soprattutto se si tratta di una potenza di primo piano che rivendica un ruolo centrale sul palcoscenico internazionale. Le ambizioni globali cinesi sono chiaramente in contrasto con le pratiche politiche del governo di Pechino. Il problema è che dirlo chiaramente è diventato impossibile.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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