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Sono innamorata di Janis Joplin ma continuo a odiare la sua voce

Janis Joplin nel quartiere di Mission, San Francisco, il 4 febbraio 1969. (Sam Falk, The New York Times/Contrasto)

L’altro giorno qualcuno mi ha chiesto se non avessi mai pensato di scrivere più spesso di cantanti che detesto. Arrossendo, ho ammesso di aver lasciato a metà un capitolo intitolato “Unghie sulla lavagna” che avevo cominciato a scrivere per il mio ultimo libro, perché non volevo innescare risse verbali tra gruppi rivali di fan. Eppure è innegabile: ci sono voci che urtano i nervi. E a questo punto voglio confessare che una di quelle, per me, è la voce di Janis Joplin.

Quindi ero un po’ preoccupata quando sono andata a vedere un documentario su di lei. Il film si apriva con una clip della cantante folk/blues Odetta, uno degli idoli di Janis, seguita da una registrazione di Janis che cantava la stessa canzone. Uno degli intervistati raccontava di come erano rimasti tutti stupefatti quando avevano ascoltato per la prima volta la sua voce: “Mio Dio, questa ragazza canta come Odetta!”, avevano pensato.

Sirene antinebbia

A quel punto sono diventata l’odiosa spettatrice saccente delle prime file e ho borbottato tra me: “Col cavolo!”. Le due clip a confronto mostravano chiaramente che Janis non cantava affatto come il suo idolo. In realtà somigliava più a Robert Plant, che per l’appunto è un’altra delle voci che non sopporto. È assolutamente legittimo che un cantante si ispiri ad altri artisti per creare qualcosa di nuovo e personale, quindi il fatto che Janis non cantasse come una vera cantante blues non doveva avere importanza. Per me, l’unica cosa che conta è che ogni volta che sento la sua voce mi vengono in mente i tweet di Grace Dent quando sul palco di X Factor saliva uno di quei concorrenti che strillano come sirene antinebbia: “Cos’è questo fracasso?”.

Ma è qui che si riconosce un buon documentario: alla fine della visione ero innamorata di Janis. Non della sua voce, che mi sembrerà sempre troppo stridula e gracchiante, ma di lei e delle battaglie che ha combattuto per essere una donna libera. Emarginata a scuola, ha cercato conforto nella musica. Un testimone ha raccontato quanto soffrì per essere stata votata “Uomo più brutto dell’anno” in un annuario del college, e avrei voluto tornare indietro nel tempo e prendere a pugni qualcuno per lei. Ho avuto la sensazione che i genitori non la capissero: nella sua ultima lettera diede loro un indirizzo al quale – scrisse – potevano inviare tutte le loro critiche.

Nella sua ricerca della libertà, Janis diventò un simbolo della rivoluzione sessuale. Anche se non sembra averci guadagnato granché: mentre le altre ragazze rimorchiavano ogni sera, a lei toccava tornarsene da sola nella sua camera d’albergo, con un po’ d’eroina per compagnia. Più ascoltavo la sua storia, più mi affezionavo a lei. E ho cominciato a sentirmi in colpa perché non mi piaceva il suo modo di cantare.

Dovremmo smettere di essere più attratti dalle cantanti che hanno avuto una vita tragica. Lo dico anche a me stessa.

Due giorni prima avevo visto il documentario su Mavis Staple (festosamente intitolato Mavis!). Contemporanea di Janis, anche Mavis era stata influenzata da Odetta e dal movimento per i diritti civili. Janis poteva essere emozionante dal vivo – scatenata, disinibita e drogata – ma anche Mavis era una che sul palco sapeva lasciarsi andare. Cresciuta nel coro della chiesa, dove bisognava darsi da fare per tenere viva l’attenzione dei fedeli, a quasi ottant’anni è ancora in grado di infiammare una platea. I musicisti della sua band, intervistati nel documentario, hanno dichiarato (un po’ maliziosamente, mi è sembrato) che quando parte non c’è verso di fermarla.

Se Janis incarnava la ribellione dei giovani in lotta contro il sistema, Mavis si esibiva quasi sempre con suo padre, per il quale provava un sentimento di sincera adorazione. E mentre Janis era criticata per i suoi atteggiamenti sessualmente espliciti, gli Staple Singers accettavano con riluttanza di cantare Let’s do it again, solo dopo aver superato le resistenze iniziali del patriarca.

Alla fine entrambe le storie mi hanno commosso. Mavis, che secondo me è la cantante migliore, non ha mai avuto la carriera solista che avrebbe meritato. Janis è morta senza avere il tempo di maturare: il documentario si intitola Janis: little girl blue (un titolo che ricorda quello della recente biografia di Karen Carpenter). Quanto a Mavis!, quel punto esclamativo sembra risolutamente ottimista.

Dovremmo smettere di essere più attratti dalle cantanti che hanno avuto una vita tragica. Lo dico anche a me stessa. Ma stavolta ho avuto la netta sensazione che nella vita di queste due artiste ci sia stato qualcosa di trionfalmente vincente, nonostante tutto.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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