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La moglie dell’uomo ucciso a Firenze spiega cos’è il razzismo

Rokhaya Mbengue nella sua casa di Pontedera, in provincia di Pisa, marzo 2018. (Luca Muzi)

Ha una specie di rosario tra le mani, il kurus: una catena di perline di legno che scorre nervosamente con le dita. Rokhaya Mbengue si nasconde dietro un velo viola decorato con fiori e gocce argentate, mentre siede in silenzio nel salotto della casa di Pontedera, in provincia di Pisa, circondata da amici e parenti venuti a trovarla.

Non ha nemmeno quarant’anni, ma ha già perso due mariti nello stesso modo: entrambi uccisi per strada a Firenze da due italiani che non li conoscevano nemmeno. Seduta su un materasso steso per terra in un appartamento al terzo piano di un palazzo, la donna è piegata su se stessa nel gesto ripetitivo di pregare contando le perline di legno del rosario. Tutti sono intorno a lei. L’unico rumore è quello della pioggia che entra dalla finestra. Ogni tanto arriva qualche schiamazzo dei bambini di casa che si rincorrono nel corridoio.

Era nel suo paese a Morola, in Senegal, quando il 13 dicembre 2011 Rokhaya Mbengue, soprannominata Kenne, ha saputo che il suo primo marito, Samb Modou, era stato ucciso da un uomo bianco che si era messo a sparare contro i neri. Gianluca Casseri, un militante di CasaPound, aveva ucciso due venditori ambulanti senegalesi al mercato di piazza Dalmazia, nel centro di Firenze. Tra loro c’era Samb Modou.

Ricorda di essere rimasta senza fiato, per giorni con la sua unica figlia, Fatou, ad aspettare che tornasse il corpo del marito dall’Italia. “Nella nostra religione, se uno muore dobbiamo seppellirlo il prima possibile per garantirgli la pace”, spiega Suleiman Seck, un cugino che è rimasto in piedi accanto a lei e l’aiuta a parlare quando le parole s’inceppano.

“Ho pensato che non mi sarei mai ripresa da quel dolore, era troppo”, ricorda Kenne. Ma poi per il bene della figlia Fatou, si è tolta il lutto e si è comportata come la famiglia le ha consigliato e come prevede la tradizione senegalese. Ha sposato uno dei cugini di Samb, Idy Diene, un uomo molto religioso che viveva in Italia dal 2001 e si era occupato di tutte le questioni burocratiche per il rimpatrio della salma. Dopo il matrimonio con Diene, Kenne si è trasferita in Italia. Voleva lavorare per assicurare un futuro a sua figlia Fatou, rimasta senza padre.

Come un diamante
I primi tempi a Firenze sono stati duri, ricorda. Ma poi è stata assunta come badante nella casa di una signora che l’ha accolta come una figlia. “La mia vita insieme a Idy è stata bellissima: Idy era una brava persona, era gentile, il suo cuore era puro come quello di un diamante”. Rokhaya Mbengue si copre con il velo che le nasconde gli zigomi pronunciati e gli occhi allungati, cerchiati da un’ombra scura, dopo giorni di pianto. Anche la donna italiana per cui lavorava voleva molto bene a suo marito e ci parlava spesso al telefono, “perché Idy amava scherzare”. “Il giorno in cui è stato ucciso ci avevamo parlato verso le 10, avevamo riso”, racconta Kenne.

Solo due ore dopo, mentre era sul ponte Amerigo Vespucci a vendere ombrelli, Idy Diene, un uomo corpulento di 54 anni, che tutti dipingono come “un uomo di pace” è stato colpito da tre proiettili: uno alla nuca, uno al petto e uno alle gambe. A sparare il sessantacinquenne Roberto Pirrone, ex tipografo in pensione, che dopo essere stato arrestato ha detto alla polizia di aver sparato a caso contro il primo che passava, perché era uscito di casa per suicidarsi, ma non aveva avuto il coraggio di farlo.

Kenne non ha nemmeno voluto vedere la foto dell’assassino di suo marito. “Una persona buona è andata via, un uomo che pensava solo a lavorare. Ora chi si occuperà dei suoi figli?”. Se potesse incontrare Pirrone, Kenne non vorrebbe parlargli. È molto religiosa, crede nella giustizia divina. “Dio è grande, più grande di tutti noi, io voglio solo pregare per mio marito”, dice mentre le si spezza la voce. “C’erano altre persone sul ponte, ma la violenza omicida di Pirrone si è scagliata contro l’unico nero, colpito alle spalle. In sette anni sono morti tre senegalesi a Firenze, tutti nello stesso modo e noi ora abbiamo paura”, aggiunge Suleiman.

Kenne non vuole più rimanere in Italia, anche se da poco ha ottenuto la cittadinanza italiana. Vuole tornare da sua figlia in Senegal. “Io ho paura a camminare per strada, ho troppa paura”, dice. Il razzismo per Kenne è il disprezzo immotivato e quotidiano, che può diventare improvvisamente una condanna a morte. “A volte salgo sull’autobus e mi siedo. E subito quello che è accanto a me si alza perché io sono nera”, racconta. “Molte volte i colleghi al lavoro nemmeno ci dicono buongiorno e non rispondono quando li salutiamo”, aggiunge Suleiman. “Altre volte ci insultano per strada o sui mezzi pubblici senza motivo”.

Aliou Diene, il fratello minore di Idy, è distrutto. È stato lui a convincere il fratello a venire in Italia nel 2001, perché aveva trovato un buon lavoro a Firenze in una pelletteria, e sperava che anche lui potesse trovare qualcosa di simile. Invece Idy Diene faceva l’ambulante: vendeva accendini, fazzoletti, ombrelli. Non era mai riuscito a stabilizzarsi e anche per questo da tre anni aveva problemi a rinnovare il permesso di soggiorno, così non poteva tornare in Senegal a trovare la famiglia. “Era un uomo di pace, non aveva problemi con nessuno. Non aveva mai litigato con nessuno”, racconta Aliou. “Ogni cosa che aveva era pronto a dartela, era una persona generosa”, aggiunge con una voce morbida Abdullahi, il figlio diciottenne di Aliou. “Mi ha cresciuto come un figlio e aveva sempre buoni consigli per me”.

“Era molto religioso e frequentava la moschea di Firenze, aveva studiato l’arabo, leggeva il Corano”. Lavorava e basta, dice il fratello con cui condivideva la casa di Pontedera. La stanza di Idy Diene è rimasta come sospesa: un luogo immobile in cui i familiari si affacciano ogni tanto per guardare quello che apparteneva a Diene e sentirsi ancora vicini. Al centro un letto matrimoniale con una coperta rossa e un enorme pavone disegnato, sul comodino alcune medicine, un armadio sul lato destro della stanza è circondato da borsoni e valige. Sulla parete è appesa una foto plastificata che ritrae Idy Diene con sua moglie Kenne, sono abbracciati, stretti stretti. Indossano cappelli di lana, sembra inverno. Sorridono. Sullo scaffale sotto alla finestra c’è un libro, L’amica geniale di Elena Ferrante, e sopra al libro un piccolo portachiavi di pezza.

Non è più il tempo della paura
Nel salotto della casa all’ora di pranzo la tv è sintonizzata su una rete egiziana, un imam recita la preghiera. La sala è piena di ragazzi e ragazze, donne e uomini venuti da tutta la Toscana. Due uomini s’inginocchiano vicino ad Aliou, seduto sul divano, gli prendono le mani, poi insieme le alzano a conca verso il cielo e cominciano a pregare. Sono gesti che tutti riconoscono e così si uniscono alla preghiera condotta da Aliou.

“Quando vedevo tutte quelle persone arrivare alla manifestazione, molti italiani che conoscevano Idy e che piangevano per lui, le mie lacrime si sono fermate. Le loro lacrime asciugavano le mie lacrime”, racconta Suleiman che insieme ad Aliou e ad altri familiari ha aperto la manifestazione contro il razzismo che ha portato in piazza diecimila persone a Firenze il 10 marzo. “Più eravamo e più non sentivo paura”, continua. “Idy aveva molta paura dopo che era stato ucciso suo cugino Samb Modou”, racconta Suleiman. Gli aveva raccontato che quando vedeva un bianco mettere le mani in tasca si allontanava perché temeva che potesse estrarre una pistola. “Eppure la sua paura non l’ha salvato, questo significa che non è più il tempo di avere paura”, conclude.

Molte persone amavano Idy e tanti lo conoscevano. I commercianti di Firenze hanno fatto una colletta per la famiglia e anche gli insegnanti di Abdullahi, il figlio di Aliou, si sono offerti di raccogliere soldi per la famiglia. I familiari hanno aperto un conto a nome di Aliou per sostenere le spese del rimpatrio della salma e per aiutare i figli di Diene, che sono rimasti in Senegal. “Siamo tutti uguali, il sangue che ci scorre nelle vene è rosso. Belli e brutti, bianchi e neri, siamo tutti uguali”, dice Abdullahi.

“Ho molti amici italiani che per me sono come fratelli, anche se mio zio è stato ammazzato da un bianco”, continua il ragazzo che frequenta le superiori in Italia e vorrebbe tornare in Senegal dopo il diploma per aprire un’officina meccanica. Il razzismo per Abdullahi nasce dal colonialismo: “Gli europei ci trattano ancora come schiavi, come i nostri antenati. Ci considerano inferiori quando veniamo in Europa per lavorare. Ci odiano perché vogliamo vivere come loro”.

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