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I fantasmi di Macerata

Il monumento ai caduti dove Luca Traini è stato arrestato. Macerata, il 6 febbraio 2018. (Alessandro Penso, Maps)

Ha sentito una macchina arrivare da dietro le spalle. L’auto ha sterzato, il finestrino si è abbassato. Un uomo calvo con un pizzetto sul mento lo ha guardato con gli occhi sbarrati. Ha alzato la pistola e ha sparato. Festus Omagbon ricorderà per sempre gli occhi fermi di Luca Traini quando gli è apparso davanti con una pistola puntata. A due mesi dalla tentata strage di Macerata, Omagbon torna spesso con la testa a quel sabato mattina di febbraio. Ma non è l’unico.

Macerata, una tranquilla cittadina delle Marche, non trova pace da quando è finita sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. “Macerata come l’Alabama, Macerata come il Bronx”. In città fino a pochi giorni prima si discuteva al massimo della pedonalizzazione del centro cittadino, poi è arrivato il fantasma di Pamela Mastropietro a turbare le notti della provincia.

Il corpo della ragazza di 18 anni, tossicodipendente, è stato ritrovato nelle campagne di Pollenza, era stato fatto a pezzi e nascosto in due valige. Per la morte di Mastropietro è stato arrestato lo spacciatore Innocent Oseghale. Ma gli investigatori non sono riusciti a chiarire le circostanze dell’omicidio, nella prima fase non riuscivano a stabilire se la ragazza era morta di overdose o era stata uccisa. Hanno fermato tre nigeriani. Dopo due mesi un’indagine della scientifica ne ha scagionati due. Secondo la polizia, non erano presenti nella casa di via Spalato dove è avvenuto l’omicidio.

Nonostante la confusione delle informazioni sulla morte di Mastropietro, Luca Traini, un neonazista di Tolentino, candidato della Lega alle amministrative del giugno del 2017 a Corridonia, ha deciso che i responsabili della morte di Mastopietro erano i nigeriani di Macerata e che i neri in generale sono un problema per la città. Per questo, a quattro giorni dal ritrovamento del corpo, ha preso la sua pistola Glock e la sua Alfa nera e si è messo a girare per Macerata sparando ai neri. Ha aperto il fuoco in dieci punti della città, esplodendo in tutto trenta proiettili e colpendo almeno sei persone. I feriti non avevano mai incontrato l’aggressore prima che alzasse la pistola contro di loro.

Sogni ricorrenti
Festus Omagbon ha 33 anni ed è originario di Benin City, in Nigeria. Il 3 febbraio camminava da solo con il cappuccio della giacca a vento sulla testa, perché aveva freddo. Traini ha fatto inversione e ha fermato la macchina. Voleva controllare che fosse un nero.

Ha un sorriso aperto Omagbon, mentre è seduto davanti a una scrivania nell’ufficio del Gruppo umana solidarietà (Gus), l’organizzazione che gestisce l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati a Macerata. Vive in un appartamento con otto persone a Servigliano, un paesino di mattoni rosa nella valle del fiume Tenna, con le colline che disegnano un paesaggio dolce sullo sfondo. Il foro del proiettile sull’avambraccio destro non si è ancora rimarginato e un tutore nero sostiene l’arto ancora debilitato. Omagbon non sa per quanto tempo dovrà tenerlo.

Le ferite si stanno rimarginando, ma nella sua mente rimane un interrogativo: non riesce a capire perché Traini gli abbia sparato. Prima di questa aggressione, non ha mai avvertito ostilità nei suoi confronti. “A volte al supermercato se mi mancano i soldi per comprare qualcosa, capita che qualcuno mi aiuti. Ho sempre incontrato persone gentili. Mai un insulto o una parola fuori posto”, racconta.

Alla sua famiglia in Nigeria non ha il coraggio di raccontare cosa è successo

Omagbon ha ottenuto la protezione umanitaria e ha tutti i documenti in regola. Sarebbe dovuto uscire dall’accoglienza a marzo, ma dopo l’attentato gli operatori hanno chiesto di prolungare la permanenza per aiutarlo anche dal punto di vista sanitario. Vorrebbe fare l’autista di taxi o di autobus, ma sta facendo fatica a imparare l’italiano e a prendere la patente di guida. Si applica molto, dicono gli operatori. Di notte sogna ancora il volto fermo di Traini mentre alza la Glock e spara.

Non si aspettava un’aggressione del genere e ora ha paura di camminare per le vie del paese, a ogni rumore sobbalza. La mattina del 3 febbraio era uscito di casa alle sei, a Servigliano, e aveva preso un autobus per Macerata: voleva comprare un po’ di ingredienti speciali in un supermercato gestito da un pachistano, per cucinare piatti tipici nigeriani.

Aveva sonnecchiato sull’autobus fino all’arrivo in città poi al capolinea era sceso e a piedi stava raggiungendo il centro cittadino, quando da un’auto nera è stato esploso il proiettile che l’ha gettato a terra. Va spesso in chiesa, pregare lo fa sentire bene, lo tranquillizza. È convinto di essere ancora vivo per una grazia ricevuta dal cielo. Alla sua famiglia in Nigeria non ha il coraggio di raccontare cosa è successo.

Morirò giovane
Anche Wilson Kofi, un altro dei sei feriti, all’inizio non ha raccontato ai suoi genitori in Ghana che ha rischiato di morire. “Nel mio paese se qualcuno ti spara significa che fai parte della malavita, hai commesso qualche reato. Non è possibile che ti sparino per strada se non sei un criminale”, afferma. Così ancora cerca di spiegare ai genitori che a tentare di ucciderlo è stato un neonazista che leggeva il Mein Kampf di Adolf Hitler, uno che ce l’ha con i neri perché li ritiene inferiori.

Kofi ha ventun anni, non ha studiato oltre le elementari. Vorrebbe fare il muratore o il manovale, mestieri che ha già fatto in Ghana e in Libia, ma il proiettile che l’ha colpito alla spalla ha danneggiato l’articolazione. “È difficile ora pensare a un futuro per me”, afferma, mentre osserva le persone che passano davanti alla finestra dell’appartamento al piano terra in cui abita con altri ragazzi. Indossa un giubbotto di pelle verde e sembra spaesato. “Mi dovrò inventare un nuovo lavoro, magari riparare gli elettrodomestici”.

Da nove mesi abita a Macerata e il 3 febbraio era uscito di casa con il suo amico Eric per andare in centro. Mentre camminava ha sentito degli spari, Eric ha cominciato a gridare e a correre. Kofi invece è rimasto come bloccato. Non riusciva più a muovere le gambe. Ha sentito gli spari, poi un colpo, ha sentito il suo amico gridare e lo ha visto allontanarsi. Il proiettile gli è entrato nella spalla, ha visto il sangue sgorgare: “C’era sangue ovunque, ma io non ho sentito dolore”.

È caduto a terra e ha perso i sensi: “Sentivo le voci intorno a me, sentivo i passi, la confusione”. In particolare ricorda la voce di una ragazza che gli ha preso la mano e gli è stata vicino. Qualcuno ha fotografato questa ragazza bionda, che lo ha rassicurato fino a quando sono arrivati i medici: “Non ti preoccupare, sta arrivando l’ambulanza”, diceva. Ora Wilson vorrebbe trovarla per dirle grazie e a tutti i giornalisti che incontra chiede di diffondere la foto per far sapere alla ragazza che le è molto grato e vorrebbe dirglielo di persona.

“Ho pensato che la mia vita sarebbe finita così, su quel marciapiede, quella mattina. Riuscivo solo a pregare, perché se stai per morire è inutile pensare ad altro, meglio parlare direttamente con dio”, racconta. Anche Wilson Kofi è molto religioso e ha capito quello che gli era successo solo una volta arrivato in ospedale. Nel pronto soccorso c’erano solo neri e qualcuno gli ha detto che un uomo si era messo a sparare contro i neri.

Wilson Kofi, 20 anni, all’ospedale di Macerata, il 6 febbraio 2018. Kofi è uno degli immigrati feriti da Luca Traini.

Il processo contro Luca Traini comincerà il 9 maggio: il ventottenne di Tolentino è accusato di strage, tentato omicidio e danneggiamento per odio razziale. Nel primo interrogatorio non si è pentito e al processo, secondo la stampa locale, la difesa potrebbe chiedere una perizia per dimostrare l’incapacità di intendere e di volere dell’aggressore.

Wilson Kofi non vuole assistere alle udienze, ha affidato la sua difesa a un avvocato. Non lo convince la storia raccontata da Traini, quella della vendetta per la morte di Pamela Mastropietro . “Se avesse voluto vendicarla avrebbe dovuto uccidere chi l’ha uccisa, non mettersi a sparare per strada. Siamo tutti neri, ma non siamo la stessa persona. Siamo tutti neri, ma veniamo da paesi diversi, siamo persone diverse”, afferma. Non vuole vederlo in faccia Traini, non vuole parlarci. Ora ha paura anche a uscire di casa, ha paura di morire giovane. “Nel mio paese se vieni attraversato da un proiettile come è successo a me, anche se sembri guarito, poi muori lo stesso”, dice con uno sguardo ancora atterrito.

Tutti spacciatori?
A venti giorni dall’attacco razzista di Luca Traini, la sede del Gus di Macerata è stata presa di mira: il 26 febbraio in pieno giorno un uomo incappucciato ha lanciato pietre contro il portone di vetro dell’organizzazione, rompendolo. Qualche settimana dopo l’uomo è stato identificato dalla Digos e fermato: ha detto di aver agito per esasperazione, perché disoccupato. “La campagna di ostilità contro il Gus è cominciata ben prima dell’attacco di Traini contro i neri. È stato un crescendo negli ultimi due anni e in particolare negli ultimi mesi”, spiega Paolo Bernabucci, presidente nazionale del Gus.

“Tutto è cominciato con l’inchiesta Mafia capitale che ha scoperchiato interessi mafiosi legati alla gestione dei migranti. Da quel momento tutte le organizzazioni che si occupano di richiedenti asilo in Italia sono state accusate di voler fare profitto coi profughi”, aggiunge Bernabucci. Ma questa è “diventata una giustificazione per molti razzisti”. Si sente spesso dire “non sono razzista, ma sono contro il business degli immigrati”. Il Gus opera a Macerata dal 2004 e oggi ospita 110 rifugiati nel servizio Sprar e 80 richiedenti asilo nei Cas.

“Sempre più spesso i maceratesi gridano all’invasione, anche se i richiedenti asilo in città sono meno dell’un per cento della popolazione”, aggiunge Bernabucci che difende il modello diffuso di accoglienza scelto dal Gus, quello che rifiuta la logica dei grandi centri di accoglienza e preferisce la sistemazione in appartamento. “A Macerata abbiamo sempre avuto tassi di inserimento lavorativo dei richiedenti asilo (33 per cento nel 2017) superiori alla media nazionale, molti trovano un impiego nelle aziende della provincia, ma la percezione del fenomeno migratorio sta cambiando radicalmente e i sentimenti di ostilità sono sempre più forti”.

Nel capoluogo marchigiano sono ospitati 360 richiedenti asilo, i due terzi di loro sono accolti da un Cas

Il Gus, come molte altre associazioni che si occupano di rifugiati e richiedenti asilo in Italia, è accusata di “fare business” con l’accoglienza, perché è una delle principali organizzazioni di questo tipo a Macerata e in Italia. “Quello che non viene mai detto però è che diamo lavoro a quattracento persone del posto e che i soldi che prendiamo dallo stato sono spesi per pagare i professionisti che lavorano per noi”, continua.

Il 28 febbraio la guardia di finanza ha aperto un fascicolo sull’organizzazione accusata di non aver versato l’iva per le prestazioni pagate. Bernabucci si difende dicendo di “aver seguito le regole fiscali a cui è soggetto il settore. Non versiamo l’iva perché a nostra volta non la incassiamo. Non siamo un ente commerciale. Se dovessimo pagarla noi, tutti gli altri che lavorano nel nostro ambito dovrebbero farlo”.

Nel capoluogo marchigiano sono ospitati 360 richiedenti asilo, per due terzi accolti da un Centro di accoglienza straordinaria (Cas). Il loro arrivo in città è stabilito dal prefetto e dal ministero dell’interno, perché i comuni della zona non assicurano abbastanza posti nei centri di accoglienza ordinaria (Sprar). Secondo l’ultimo rapporto Sprar, solo il 46 per cento dei comuni marchigiani partecipa all’accoglienza di richiedenti asilo.

Dopo l’attacco di Traini, il sindaco di Macerata Romano Carancini ha chiesto al ministero dell’interno di chiudere i progetti Cas e di lasciare aperti solo gli Sprar, rispettando la cosiddetta clausola di salvaguardia che stabilisce che i comuni che aderiscono allo Sprar ospitino due richiedenti asilo ogni mille abitanti. Il Gus è stato criticato anche perché Innocent Oseghale è stato ospitato da uno dei suoi progetti, prima di essere mandato via per cattiva condotta. “Ci siamo dovuti difendere dall’accusa di ospitare degli spacciatori, come se tutti i richiedenti asilo fossero spacciatori”, afferma un operatore. “Il livello di ostilità è davvero allarmante”.

Macerata come l’Alabama
A piazza della Libertà gruppi di universitari si ritrovano la sera sotto ai portici del palazzo municipale di mattoncini, qualcuno è appena uscito dal teatro Rossi. Sulla facciata neoclassica del comune una targa di marmo ricorda i caduti maceratesi della battaglia di Dogali: una delle pagine più dolorose del colonialismo italiano nel Corno d’Africa. Per Stefania Animento, una giovane sociologa maceratese che da qualche anno si è trasferita a Berlino, Macerata è diventata come Marte: si sente un’aliena a parlare con i suoi concittadini. Le capita spesso di sentire qualcuno che dice: “Luca Traini ha sbagliato ma…”, oppure: “Poteva andare peggio, qualcuno avrebbe potuto farsi male”.

È stata proprio una frase come questa, pronunciata da un maceratese in tv durante un’intervista, a farla saltare sulla sedia e a spingerla a prendere il primo aereo per tornare a casa all’indomani dell’attentato. “Di solito quando dico ai miei amici stranieri che sono di Macerata, tutti mi guardano con sconcerto, nessuno sa nemmeno dove si trovi. Mi chiedono se è in Toscana”, racconta. Ma in poche ore a febbraio tutto il mondo ha scoperto le coordinate geografiche di casa sua.

La sede del Partito democratico di via Spalato a Macerata, il 6 febbraio 2018.

“Macerata sul Guardian, Macerata sui siti di mezzo mondo: Macerata era la città di Traini, Macerata casa mia, sembrava diventata improvvisamente l’Alabama”, racconta Animento. Appena arrivata a casa, ha trovato che a piazza della Libertà si erano radunati i militanti di CasaPound, arrivati per partecipare a una manifestazione di solidarietà con Luca Traini. “Una presenza nuova e inaspettata”, dice la sociologa, che ora fa parte del gruppo Macerata antifascista.

Subito dopo l’attacco si è parlato molto di emergenza fascismo nelle Marche, in realtà in città da dicembre si era formato il gruppo Macerata antifascista per contrastare il ritorno di atteggiamenti xenofobi alimentati soprattutto dal gruppo Macerata ai maceratesi, legato a Forza Nuova e attivo in città dal 2015.

Nel 2013 davanti alla sede del Partito democratico di via Spalato (la stessa presa di mira da Traini il 3 febbraio) era apparsa una scritta: “Kyenge torna in Congo”. L’ex ministra dell’integrazione Cécile Kyenge, dopo la tentata strage, partecipando alla manifestazione antirazzista, aveva commentato: “Il gesto di Luca Traini non è venuto fuori dal nulla”. Infatti dal 2015 proprio nella città marchigiana Kyenge si è costituita parte civile in un processo contro un dirigente locale di Forza nuova, Tommaso Golini, fondatore di Macerata ai maceratesi e accusato di propaganda razzista per la scritta contro l’ex ministra.

“Ci siamo resi conto che stavano aumentando i segnali d’insofferenza verso i migranti, tra l’altro il comune aveva assegnato una sala a Macerata ai maceratesi. Allora abbiamo deciso di organizzarci, ben prima dell’attacco di Traini”, spiegano Giulia Sacchetti della Palestra popolare e Cecilia Trisciani di Macerata antifascista. “In passato Macerata ai maceratesi aveva organizzato qualche picchetto, ma sembravano veramente poche persone. Per questo prima del dicembre 2017 non ci eravamo preoccupati”, afferma Trisciani. “Poi abbiamo capito che il loro discorso stava facendo presa tra la gente, stava entrando nei discorsi al bar”.

Per Trisciani la cosa più allarmante è la cosiddetta zona grigia: “C’era sgomento e vergogna per il gesto di Traini, un ragazzo incontrato mille volte per strada o al bar, che aveva cominciato ad andare in palestra e a frequentare l’estrema destra. Ma anche un senso d’indignazione e spavento per le molte affermazioni di solidarietà dei maceratesi verso Traini che venivano condivise soprattuto sulla pagina Facebook Sei di Macerata se…”.

Stefania Animento ha provato a esaminare la situazione da sociologa: “Osservando i dati sulla disoccupazione, sulla partecipazione al mercato del lavoro, sul benessere economico, sull’istruzione e soprattutto concentrandosi sulle serie storiche e sul rapporto dei dati regionali rispetto a quelli nazionali, emerge che le Marche sono nella media italiana”, afferma. Lo stesso discorso vale per l’immigrazione: “Con circa il 9 per cento di popolazione immigrata, le Marche e la città di Macerata coincidono quasi perfettamente con i dati nazionali”. Questa “medietà” della città, rappresentata come tranquilla, benestante e operosa, non ha aiutato però a percepire i cambiamenti traumatici avvenuti negli ultimi anni, che hanno continuato a ribollire sotto traccia.

I ragazzi e le ragazze che chiedono qualche spicciolo davanti al supermercato danno fastidio

Il crac della Banca delle Marche avvenuto nel marzo 2016 ha volatilizzato 1,2 miliardi di euro trascinando sul lastrico molti risparmiatori, i terremoti dell’estate e dell’autunno del 2016 hanno portato un senso di terrore e precarietà nella vita di molte famiglie della zona, la ricostruzione si è fatta attendere e i danni per le attività produttive sono stati ingenti. L’onda lunga della crisi economica del 2008, infine, ha avuto come conseguenza la chiusura di decine di fabbriche, la delocalizzazione delle imprese locali e la precarizzazione dei contratti di molti lavoratori.

Questi cambiamenti sono tornati a galla con il trauma dell’omicidio di Pamela Mastropietro e poi con l’attentato di Traini. “Nessuno è sceso in piazza per il crac della Banca delle Marche, ma tutti si sono sentiti minacciati dalla morte di Mastropietro”, spiega Animento. I neri, gli immigrati rappresentano in questo momento le paure profonde dei maceratesi: “I ragazzi e le ragazze che chiedono qualche spicciolo davanti al supermercato danno fastidio. La piccola e media borghesia, il ceto medio marchigiano, quello con tassi di propensione al risparmio più alti della media italiana, nonostante il benessere ha paura di perdere tutto, perché non ha più la prospettiva di una crescita”.

“Chi è di estrazione sociale più bassa, chi non ha studiato e ha fatto l’operaio per una vita intera e ha faticato e risparmiato, secondo il costume locale, per mettere da parte i soldi per comprare il suv o l’appartamento ai figli non sopporta quelle mani tese e quei ‘ciao capo’ davanti al supermercato. Suonano come una presa in giro, la scoperta che anni e anni di lavoro, in fondo, non hanno fatto sparire la paura di non arrivare a fine mese e non hanno regalato il privilegio di fregarsene di come va il mondo”, conclude Animento. In questo modo prova a spiegare, almeno in parte, il successo della Lega, che il 5 marzo a Macerata ha preso il 20 per cento dei consensi, passando dai 153 voti nel 2013 ai 4.575 voti nel 2018.

Il corpo spezzato di una donna
“Per molto tempo non sono riuscita a dormire dopo l’omicidio di Pamela Mastropietro”, racconta Federica Nardi, una giornalista che scrive per il giornale online Cronache maceratesi ed è dottoranda di ricerca all’università di Macerata. Per Nardi finché non si farà chiarezza sulla morte atroce di Mastropietro, ma anche sulle notizie false e sui pregiudizi seguiti all’omicidio, Macerata non troverà pace.

Una veglia per Pamela Mastropietro a Macerata, il 6 febbraio 2018.

“Molti hanno creduto ai riti vudù, ai nigeriani che hanno mangiato il cuore della ragazza, anche se questa notizia è stata molte volte smentita dalla procura”, racconta Nardi. Qualcuno, come Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia e altri politici locali, ha addirittura fatto campagna elettorale sulla storia del cuore sparito, un particolare agghiacciante che è stato sempre negato dagli investigatori, ma che ha avuto più diffusione delle notizie verificate sull’omicidio di Mastropietro. “Siamo stati sciacallati dai politici in campagna elettorale”, continua Nardi.

I giornali locali sono stati accusati di aver soffiato sul fuoco del razzismo, ma per la giornalista sono soprattutto i social network e i siti di notizie false ad aver approfittato dell’omicidio della ragazza per dare messaggi di un certo tipo. “In particolare la pagina Facebook Sei di Macerata se… ha cavalcato l’odio e la tensione, veicolando messaggi fortemente razzisti”, spiega.

Qualche anno fa Baleani è stata picchiata e gettata nel cassonetto sotto casa da suo marito

La provincia è soprattutto prossimità. Vicinanza con le vittime, ma anche con i carnefici. “Luca Traini lo conoscevamo tutti, era uno di noi. E per questo alcuni si sono vergognati per quello che ha fatto, altri lo hanno giustificato”, spiega Nardi. La provincia è riconoscersi, conoscersi tutti fin da bambini: “Pensare che una ragazza è stata fatta a pezzi a poche strade da casa mia, in un quartiere della Macerata bene, non ci fa dormire sonni tranquilli”. Quando l’8 marzo le donne e le ragazze sono scese in piazza aderendo alla marcia di Non una di meno “Pamela Mastropietro è stata nei pensieri di molte di noi”, dice Nardi. “È chiaro che il suo corpo fatto a pezzi è stato usato per dire altro, come avviene spesso con il corpo delle donne”.

Non è stato certo il primo caso di violenza sulle donne avvenuto nella zona: al centro antiviolenza della città nel 2017 sono state registrate 41 denunce. E poi c’è il caso di Francesca Baleani, la moglie dell’ex direttore del teatro Rossi di Macerata, che nel 2006 sconvolse la cittadina: “Qualche anno fa Baleani è stata picchiata e gettata nel cassonetto sotto casa da suo marito, poi è stata soccorsa da un passante che ha sentito gli strepiti della donna ancora viva”, racconta Nardi.

Lo scorso anno Baleani, che in seguito alla sua esperienza si è impegnata contro la violenza sulle donne, ha ricevuto un premio a Parma per il suo operato e in quell’occasione non ha avuto parole tenere per Macerata e per i maceratesi, accusando la città in cui vive di non essere “capace di abbracciarla e di pronunciare il suo nome e la sua storia senza provare imbarazzo”.

Dopo la morte di Pamela Mastropietro e la tentata strage razzista di Luca Traini, la violenza è tornata al centro della discussione in una città che in tutti i modi prova a rimuoverla. Macerata deve fare i conti con almeno quattro fantasmi: la violenza sul corpo di una donna, il razzismo cieco contro i neri, l’indulgenza verso i carnefici e infine la grande diffusione di sostanze stupefacenti in un territorio che ha tassi di morte per overdose superiori alla media nazionale.

Il fatto che a uccidere Mastropietro siano stati presumibilmente degli immigrati ha permesso di usare due capri espiatori perfetti per deresponsabilizzare la comunità: i neri e la droga. Con le studenti del corso in cui insegna, Nardi ha deciso di smontare i pregiudizi di questa vicenda e nella prima lezione le ha portate a fare interviste ai Giardini Diaz, diventati il simbolo dello spaccio e del presunto degrado della città.

Ai Giardini Diaz Pamela Mastropietro ha incontrato Innocent Oseghale, ai Giardini Diaz si sono dati appuntamento gli attivisti che qualche giorno dopo l’attentato di Luca Traini hanno manifestato solidarietà alle vittime. “Ho chiesto alle ragazze di stare sedute per qualche ora a guardare quello che succedeva, perché non tutti gli immigrati sono spacciatori e non tutti i maceratesi sono razzisti. E forse è venuto il momento di capire, di ritrovare la complessità, invece di dividerci in tifoserie. Solo condividendo gli spazi e guardando la dura realtà senza mediazioni sarà possibile ricostruire una verità condivisa su tutta questa faccenda”.

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Da sapere: la costa adriatica è l’hub dell’eroina in Italia

Nella costa adriatica sembrano concentrarsi i traffici di eroina in una maniera non paragonabile a nessun’altra regione italiana. Secondo Salvatore Giancane – autore del libro Il mercato globale dell’eroina nell’Adriatico convergono due delle tre grandi rotte dell’eroina dall’Afghanistan all’Italia: la rotta balcanica e la rotta meridionale africana. In questo territorio si sovrappongono diversi gruppi di importatori che si servono anche di una diffusa rete di venditori al dettaglio.

Anche i dati sul consumo dicono cose simili. Recentemente la Società italiana tossicodipendenze ha lanciato un progetto GeOverdose per monitorare, a partire dalle notizie di cronaca, le morti per overdose in Italia. Dalla mappa emerge che dal gennaio del 2018 ci sono stati 48 decessi su tutto il territorio nazionale e tra le zone con più diffusione ci sono proprio le Marche con almeno cinque casi di morti sospette per overdose. Per Stefano Trovato del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) di Macerata uno dei problemi delle Marche è che non c’è un osservatorio sulla diffusione delle droghe nella regione e anche le politiche di riduzione del danno sono poco praticate.

“L’uso dell’eroina – anche a causa dei prezzi sempre più bassi – è molto diffuso, anche in fasce di età giovanili, ma c’è pochissima consapevolezza del fenomeno e questo determina la mancanza di politiche pubbliche in grado di rispondere al problema. I ragazzi non possono parlare con nessuno, non hanno informazioni su questa questione se non da chi già fa uso di sostanze stupefacenti o dagli spacciatori”. Per Trovato dopo la morte di Pamela Mastropietro la risposta delle autorità è stata di tipo securitario, con blitz antidroga nei parchi cittadini e volanti della polizia nelle strade: “Ma questo tipo di misure non sono sufficienti se non si mettono in atto una serie di politiche serie sul tema”.

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