12 febbraio 2018 13:12

“Black lives matter”, le vite dei neri valgono. La vita di Jennifer, quella di Wilson, quella di Gideon e quella di tutti gli altri. A Macerata una ragazza nera, che se ne sta in disparte dietro allo striscione dei metalmeccanici, ha scritto su un cartoncino bianco questa frase in inglese. Ricalca lo slogan del movimento antirazzista statunitense, nato nel 2013 per denunciare le violenze sistematiche della polizia contro i neri. Come tanti, è venuta a ribadire un principio fondamentale: lo stato moderno nasce dal ripudio della violenza arbitraria di un essere umano su un essere umano. Vale anche per la repubblica italiana.

A Macerata il 10 febbraio qualcuno è venuto semplicemente a dare “un abbraccio collettivo a Wilson Kofi, Omar Fadera, Jennifer Odion, Gideon Azeke, Mahamadou Toure, Festus Omagbon” (come è scritto su uno striscione), cioè a dimostrare solidarietà ai feriti della sparatoria avvenuta il 3 febbraio nella cittadina marchigiana, quando Luca Traini, un estremista di destra di 28 anni, ha impugnato una pistola e si è messo a girare per la città in auto, sparando a caso contro i neri che ha incontrato per strada.

Molti cittadini sono scesi in piazza per criticare la decisione delle autorità di non far visita ai feriti in ospedale, altri hanno contestato la scelta di alcuni partiti e organizzazioni di non partecipare a una manifestazione unitaria contro il razzismo, una settimana dopo la sparatoria. Altri ancora sono arrivati a Macerata per ribadire che l’antifascismo è ancora un valore fondamentale.

Tante ragioni
Il movimento spontaneo che si è materializzato a Macerata il 10 febbraio ha portato in piazza diverse rivendicazioni e almeno ventimila persone: gruppi di attivisti, centri sociali, sindacati come la Fiom, i Cobas e l’Usb, alcune sezioni dell’Anpi e dell’Arci, i collettivi antifascisti e quelli femministi, la rete nazionale Non una di meno, alcune organizzazioni come Libera ed Emergency, parlamentari e partiti come i Radicali italiani di Più Europa, Potere al popolo e Liberi e uguali, molti operatori sociali impegnati nel sistema dell’accoglienza come il Gus e infine organizzazioni di migranti come il Movimento di rifugiati e migranti dell’ex Canapificio di Caserta.

“La politica non sopporta vuoti e se le istituzioni democratiche si ritirano, lasciano il campo ad altre forze violente che sono pronte a riempire questi vuoti, come stanno facendo in questo momento i partiti xenofobi e fascisti”, afferma Simona Baldanzi, scrittrice toscana arrivata a Macerata dopo tre ore e mezzo di viaggio in macchina da Barberino del Mugello. Con tre amici dell’Anpi ha portato la bandiera ricamata a mano della Brigata Garibaldi, il gruppo partigiano d’ispirazione comunista che combatté contro i nazifascisti durante la resistenza. Per Baldanzi l’antifascismo non è un valore superato, ma significa “resistere ai soprusi, combattere le ingiustizie”.

Almeno sessanta sezioni locali dell’Anpi, come quella Renato Biagetti di Roma, hanno voluto partecipare alla manifestazione nonostante la decisione contraria della segreteria nazionale, che aveva deciso di non scendere in piazza accettando la proposta del sindaco di Macerata Romano Carantini di annullare tutte la manifestazioni. Anche Stefano Bucchioni, delegato dei metalmeccanici della Fiom di Monza, ritiene che non partecipare sia stato un errore: “Questa timidezza delle istituzioni deve far preoccupare, perché è già successo all’inizio del novecento e il risultato è stato il ventennio fascista”.

La bandiera della sezione Anpi di Barberino del Mugello ai giardini Diaz, a Macerata, 10 febbraio 2018. (Michele Lapini)

Per Bucchioni l’intolleranza contro gli immigrati è alimentata dalla crisi economica, “causata dalla mancanza di strategie industriali nel nostro paese e da scelte sbagliate che hanno dato troppo potere alle multinazionali”. Così i capri espiatori diventano gli immigrati, “che sono venuti in Italia per lavorare, come noi in passato siamo andati in altri paesi”. Un’altra voce critica con i vertici della propria organizzazione è quella di Eliana Como, rappresentante di minoranza della direzione nazionale del più grande sindacato italiano, la Cgil, che ha definito la scelta di rinunciare a manifestare “sbagliata e in qualche modo irresponsabile”, perché è importante “opporsi ai segnali di riorganizzazione del neofascismo”.

“Una delle cose che mi scandalizza di più”, continua Como, “è che si sia voluto giustificare il gesto di Traini come una vendetta per il femminicidio di Pamela Mastropietro”. Per la sindacalista, si tratta della strumentalizzazione del corpo di una donna. Anche le femministe del movimento Non una di meno sono d’accordo e chiedono di non usare la morte di Pamela Mastropietro per giustificare la violenza di Luca Traini. Per l’omicidio della ragazza sono indagati tre nigeriani e Traini ha riferito di aver deciso di compiere una strage dopo aver avuto notizia del ritrovamento del corpo smembrato di Mastropietro.

Stefania Dimento, di un collettivo femminista maceratese, spiega che “ancora una volta il corpo di una ragazza è usato per giustificare la violenza razziale, contro altri corpi che sono considerati inferiori perché neri”. Per Dimento la violenza razzista, il sessismo e il fascismo hanno una matrice comune. La donna, che vive a Macerata, spiega che la città è ancora sotto shock sia per l’omicidio di Mastropietro sia per la tentata strage compiuta da Traini. Per questo, conclude, voler annullare le manifestazioni ” è il tentativo di far finta di niente, di riportare tutto alla normalità. Ma questo non è possibile. Si deve parlare di quello che è successo”.

L’impressione però è che i maceratesi vogliano rapidamente uscire dal clamore delle cronache nazionali in cui sono finiti nelle ultime due settimane. Anche per questo hanno vissuto con ostilità il corteo pacifico che sabato ha attraversato la città. “Fino a due settimane fa i cittadini di Macerata discutevano animatamente delle conseguenze della pedonalizzazione del centro storico, poi l’omicidio feroce di Pamela Mastropietro e la sparatoria del 3 febbraio hanno gettato la città nella paura”, spiega una giornalista locale.

Una città blindata
Quando intorno all’una del pomeriggio attivisti e cittadini da tutta Italia cominciano ad arrivare davanti ai giardini Diaz di Macerata, la città è blindata. I poliziotti e i carabinieri in tenuta antisommossa chiudono il centro storico e i negozi sono sprangati. Alcuni commercianti hanno montato delle protezioni di legno e ferro sulle vetrine. Il sindaco in una nota su Facebook aveva annunciato che tutte le scuole di ogni ordine e grado sarebbero rimaste chiuse e il trasporto pubblico interrotto dalle 13.30. Anche il carnevale è stato rimandato al fine settimana successivo. I giornali locali hanno titoli allarmistici.

La decisione di alcune organizzazioni e partiti di non partecipare al corteo per il timore di nuove violenze appesantisce il clima che si respira in città. “Hanno disdetto una manifestazione che non hanno convocato”, sintetizza Valentina Giuliodori dell’Ambasciata dei diritti delle Marche. Il cielo è carico di nuvole grigie e un freddo umido avvolge i bastioni austeri della città, che lentamente si colorano di striscioni e bandiere.

“La manifestazione antirazzista e antifascista di Macerata è stata convocata già sabato sera (3 febbraio) dal centro sociale Sisma di Macerata, dal Collettivo Antifa e da molti gruppi e movimenti attivi sul territorio, ma alcuni giochi politici nell’arco della settimana hanno tentato di sabotarla e di dargli un altro significato”, spiega Giuliodori, prima dell’inizio del corteo.

Le posizioni della destra hanno finito per creare un atteggiamento giustificatorio intorno alla violenza razzista di Traini

Il raid razzista nelle Marche – avvenuto a un mese dalle elezioni politiche del 4 marzo – ha stravolto la campagna elettorale italiana e ha riportato la questione dell’immigrazione al centro del dibattito, fino a quel momento dominato da temi come le tasse, le pensioni e il reddito di base. L’opposizione – in particolare la Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia – ha accusato il Partito democratico di aver favorito un’immigrazione incontrollata.

All’indomani dell’attentato, il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi ha annunciato di voler rimpatriare 600mila immigrati irregolari, mentre il leader della Lega Matteo Salvini ha detto che “un’immigrazione fuori controllo, voluta e finanziata in questi anni, porta allo scontro sociale”. Le posizioni della destra hanno finito per creare un atteggiamento giustificatorio intorno alla violenza razzista di Traini.

Dal canto loro, i rappresentanti del Partito democratico, che si giocano un’importante partita elettorale nelle Marche (il ministro dell’interno Marco Minniti è candidato al collegio uninominale di Pesaro), hanno chiesto di abbassare i toni della polemica politica e di non strumentalizzare l’accaduto, ma non hanno riconosciuto la matrice ideologica dell’attentato e hanno deciso di non scendere in piazza, per non contrapporsi a un’opinione pubblica sempre più spaventata, secondo i sondaggi, dalla presenza degli immigrati nel paese. Il ministro dell’interno, parlando a Pesaro durante un comizio elettorale, pochi giorni prima della manifestazione, aveva rivendicato la politica migratoria restrittiva adottata nell’ultimo anno e l’aveva giustificata dicendo che “aveva visto Traini all’orizzonte”.

E aveva aggiunto: “Ringrazio Anpi, Cgil, Arci e Libera, che hanno accolto la richiesta del sindaco di Macerata di sospendere le manifestazioni in questo momento così delicato per la città, che ora ha bisogno di pace e di tranquillità. Al tempo stesso mi auguro che anche altre organizzazioni che hanno annunciato manifestazioni accolgano l’invito del sindaco di Macerata. Se questo non avverrà, ci penserà il ministro dell’interno a evitare tali manifestazioni”.

La paura
Minniti, insieme al leader della Lega Matteo Salvini, è stato uno dei bersagli degli slogan della manifestazione di sabato. Il ministro è accusato dagli attivisti di aver favorito lo spostamento del corpo sociale a destra con misure, come i decreti sull’immigrazione e quelli sulla sicurezza urbana, che hanno criminalizzato i migranti.

A Minniti è contestata, da alcuni settori della sinistra, anche la chiusura della rotta del Mediterraneo centrale attraverso un accordo con il governo di Tripoli, che ha avuto come conseguenza la detenzione dei migranti nelle carceri libiche per periodi più lunghi, e infine la campagna di criminalizzazione delle organizzazioni non governative, che nel corso dell’estate 2017 ha avvelenato ancora di più il dibattito sull’immigrazione.

Minniti ha giustificato spesso le sue scelte con il timore “per la tenuta democratica del paese” e la necessità di “arginare i populismi”. Ma tra i manifestanti di Macerata molti sospettano che la politica migratoria del governo, concentrata sull’obiettivo della riduzione degli sbarchi, abbia mostrato le sue contraddizioni più evidenti proprio dopo l’attentato del 3 febbraio.

“Non si può combattere il populismo proponendo politiche populiste, senza fomentare un approccio semplicistico che rischia di allontanare ancora di più dalle soluzioni”, afferma il regista italoetiope Dagmawi Yimer, che nel 2011 ha girato Va’ pensiero, un documentario sulla strage di Firenze in cui hanno perso la vita Samb Modou e Diop Mor, due senegalesi uccisi da un militante di CasaPound, Gianluca Casseri.

“Certo che ho paura, certo che oggi devo stare ancora più attento. Nel 2011 ho fatto un documentario per raccontare le vittime della strage di Firenze. L’aggressore non ha volto, gli aggressori sono tanti. E anche oggi l’aggressore non è solo Traini, ma porta con sé tante teste, basta vedere la solidarietà che ha raccolto il suo gesto”, afferma Yimer. Per il regista, che vive a Verona da anni, gli attacchi a sfondo razzista sono sempre più frequenti “perché c’è molta tolleranza per gli atteggiamenti e i comportamenti fascisti”.

Yimer ricorda che l’apologia del fascismo è un reato in Italia e che il fascismo è stato profondamente legato al colonialismo: “Bisogna ricordare che cosa ha fatto in Libia e in Etiopia per capire di che cosa è capace e qual è il suo rapporto con le persone con la pelle nera”. Alla manifestazione ha partecipato anche l’europarlamentare del Partito democratico Cécile Kyenge, ex ministra dell’integrazione nel governo di Enrico Letta. Per Kyenge scendere in piazza significa affermare i valori fondamentali della democrazia come libertà e uguaglianza per liberare le strade “dal razzismo e dal fascismo, dall’odio che sta dilaniando il paese”.

Il gesto di Luca Traini “non è venuto fuori dal nulla”, spiega l’ex ministra, che dal 2015, proprio nella città marchigiana, si è costituita parte civile in un processo contro un dirigente locale di Forza nuova, Tommaso Golini, accusato di propaganda razzista per degli insulti rivolti a Kyenge. Per l’europarlamentare “si deve ricominciare dalla piazza di Macerata, ma anche da altre decine di piazze italiane ed europee: da Milano a Palermo fino a Parigi”. Il corteo allegro, autonomo e composito di Macerata è l’inizio di qualcosa: una risposta efficace contro la paura.

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