La paura del coronavirus nel campo profughi più grande d’Europa
Moria è il nome dell’hotspot per l’identificazione dei migranti nel cuore dell’isola greca di Lesbo ed è sempre di più simile a una baraccopoli. Si chiama Moria anche la cittadina greca che sorge a pochi chilometri dalla struttura dove sono cominciate le ronde e le rivolte contro i migranti nelle ultime settimane.
Sembra il nome di un luogo biblico, ma è invece il simbolo delle politiche europee dell’immigrazione e la sua metamorfosi rappresenta tutte le fasi dell’atteggiamento degli europei verso i rifugiati negli ultimi cinque anni. Nel 2015 era un accampamento di fortuna tra le piante di ulivo, dove i profughi sostavano per qualche giorno, prima di proseguire lungo la rotta balcanica, e dove ricevevano assistenza dagli abitanti del posto, dai volontari e dalle ong.
A distanza di un anno, nel 2016, con le sue alte recinzioni sovrastate da corone di filo spinato e i suoi muri, è diventata l’immagine più emblematica delle nuove regole per l’identificazione dei richiedenti asilo, imposte alla Grecia e all’Italia dall’Unione europea: il cosiddetto approccio hotspot. Le nuove norme prevedevano che tutti i richiedenti asilo fossero rinchiusi in un regime di detenzione amministrativa, dietro le sbarre. Unica colpa: non avere documenti regolari. Anche i bambini subivano lo stesso trattamento, per essere identificati e accedere alle procedure l’asilo.
Dopo la firma dell’accordo sui migranti stipulato da Bruxelles con Ankara, tutti quelli arrivati a Lesbo a partire dal 20 marzo 2016 dovevano essere rinchiusi nell’hotspot, in attesa di stabilire se dovessero essere rimandati indietro in Turchia, considerato un paese terzo sicuro, nonostante di fatto Ankara non riconosca la convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 per la maggior parte delle nazionalità e non garantisca protezione ai rifugiati.
In quattro anni, in base all’accordo sono state rimandate in Turchia dalla Grecia circa duemila persone, mentre il campo greco si è popolato di ventimila persone, sei volte di più di quelle preventivate. Nel frattempo, il nuovo governo conservatore greco ha interrotto tutti i trasferimenti verso la terraferma, ha approvato una nuova legge sull’asilo in vigore dal 1 gennaio 2020, che introduce ulteriori limiti e dal 1 marzo ha sospeso per un mese il diritto di asilo nel paese, per rispondere alla minaccia del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan di aprire le frontiere.
Una specie di città
Il centro era stato pensato per ospitare meno di tremila persone, che sarebbero dovute restare per pochi mesi. Ma lentamente è andato espandendosi, nonostante le rivolte e gli incendi dovuti alle condizioni inumane del campo, soprattutto per quanto riguarda gli standard igienico-sanitari. Oggi Moria è il campo profughi più grande d’Europa, con le sue baracche, gli esercizi commerciali improvvisati lungo le stradine interne, le tende costruite sui terrazzamenti, tra gli alberi di ulivo e i cumuli di immondizia.
È una specie di città in costruzione, in cui è possibile riconoscere tutte le stratificazioni temporali, con i suoi quartieri: la jungle, l’olive grove, e i diversi settori classificati con i numeri. Non c’è soluzione di continuità tra il dentro e il fuori: buchi nelle recinzioni metalliche fanno sì che si possa entrare e uscire dal centro di detenzione, senza quasi neanche accorgersi di passare nella tendopoli, che dipende di fatto dai servizi dell’hotspot.
Il centro è un fortino, che però è attraversato da strade su cui sono spuntati esercizi commerciali, barbieri, banchetti di cibo, di vestiti usati, di materiale elettrico. Quando è stato costruito nel 2016, gli esercizi commerciali erano gestiti da ambulanti greci e sorgevano all’esterno della recinzione. I rinchiusi compravano cibo e altri beni passando i soldi attraverso le grate, ora i negozi sono gestiti dagli stessi ospiti del campo, che via via hanno aperto delle attività. È come se con il tempo e con l’aumentare della densità abitativa, il centro di detenzione si fosse trasformato in una città provvisoria fatta di tende-baracche e di ambulanti.
“All’inizio le persone ricevevano una tenda, ma al momento i richiedenti asilo si costruiscono le baracche da soli, strutture di legno che sorgono intorno al campo ufficiale dove invece ci sono tende da campeggio e tende dell’Unhcr”, spiega Maria Cristina Casini, operatrice dell’ong Movement on the ground, che costruisce delle infrastrutture sanitarie in una parte del campo. “Nella parte più recente dell’accampamento, quella che chiamata olive grove, non c’è nessun attacco all’elettricità e nessun servizio igienico”, racconta l’operatrice.
In generale l’elettricità è distribuita attraverso allacci di fortuna, i bagni sono insufficienti, l’acqua non è potabile e i servizi sono di fatto forniti dalle decine di organizzazioni non governative locali e straniere che lavorano all’interno e all’esterno del campo. “Questa baracca l’ho costruita io, ho comprato i paletti, i bancali per sollevarla da terra, i teli di plastica, le coperte per foderare il fondo”, racconta Mohammed Hasan, un curdosiriano di Afrin, che vive nella jungle del campo da sette mesi con la moglie Susanne e i suoi due figli di cinque e tre anni, Lavand e Lavin. Alla fine ha costruito una baracca di due metri per tre in cui si svolge tutta la sua quotidianità. Nella stanza non c’è elettricità e si cucina con un piccolo fornello a gas da campeggio, quando piove entra l’acqua dal soffitto e l’umidità sale dal terreno.
I pochi averi sono riposti con cura su una piccola mensola fabbricata dallo stesso Hasan. “Siamo scappati dai bombardamenti di Afrin, ma a Izmir, in Turchia mi hanno accusato di terrorismo perché sono curdo e avevo sostenuto il Pkk su Facebook. Non potevamo fare altro che scappare”, racconta, mentre gioca con i figli, seduti tra le sue braccia. “Ad Afrin abbiamo visto ogni sorta di orrore, sono scappato perché volevo salvare la mia famiglia”. Mohammed Hasan e la sua famiglia hanno fatto richiesta di asilo e hanno ottenuto i documenti per rimanere in Grecia, ma non si trasferiscono sulla terraferma, perché non hanno abbastanza soldi per farlo. “Sono un elettricista, ho fatto anche il sarto”, spiega. Ma al momento non lavora e non ha i mezzi economici per spostarsi ad Atene. “Più di tutti vorrei che i miei figli studiassero perché in Turchia e in Siria non avevano questa possibilità”, conclude.
Una catastrofe umanitaria
Anche Baraa Altaha, 49 anni, originaria di Idlib, in Siria, ha lo stesso desiderio per i suoi quattro figli, che possano studiare, che diventino medici o infermieri. Ma ha sempre meno speranza di vedere una soluzione rapida ai suoi problemi. Due sue figlie sono in Germania, uno in Svezia, sono scappati all’inizio della guerra in Siria, per sottrarsi alle bombe e alle persecuzioni. Uno dei figli, che frequentava l’università di Aleppo, è sparito durante le proteste del 2012 contro il regime di Bashar al Assad. Altaha scoppia in lacrime, quando pensa al figlio scomparso. A nove anni dall’inizio della guerra la sua ferita è ancora aperta: da Idlib, ultima roccaforte dei ribelli, sono scappate 900mila persone. “In città non è rimasto nessuno, tutto quello che avevamo è stato distrutto”, spiega la donna. “Le parole non sono sufficienti per descrivere quello che ci lasciamo alle spalle”.
Aspetta anche lei da mesi di trasferirsi sulla terraferma, ma anche se ha ottenuto i documenti, non ha i soldi per farlo. Altaha è preoccupata per il pericolo di diffusione del coronavirus nel campo, dopo che a Lesbo è stato registrato il primo caso di malattia. Si tratta di una donna di quarant’anni, che lavora in un negozio di alimentari ed era tornata da un viaggio in Israele. Al momento è ricoverata in terapia intensiva nell’ospedale di Mitilene. La donna siriana si informa: “C’è una cura? C’è un vaccino?”. L’igiene nel campo è scarsa e le persone vivono in pochi metri quadrati, condividendo spazi e servizi. La diffusione della malattia potrebbe essere rapida.
“Moria è sempre di più una prigione a cielo aperto, le persone non sono più trasferite sulla terraferma, sono bloccate in alcuni casi da anni in un campo sovraffollato dove si trovano settemila minori, di cui il 70 per cento ha meno di dodici anni”, racconta Marco Sandrone, coordinatore di Medici senza frontiere. “Passano le loro giornate in fila per accedere ai pasti e ad aspettare una risposta alla loro domanda di asilo”.
I bambini in particolare presentano sintomi preoccupanti: “Sono riusciti a superare il trauma della guerra, ma si trovano di fronte all’incubo peggiore, vedere i loro genitori disperati. Manifestano sintomi di regressione, alcuni smettono di parlare, di mangiare, di giocare. Altri ancora fanno gesti di autolesionismo”.
Questi traumi si incancreniscono nella quotidianità del campo: la popolazione è giovane e sana, ma il campo è insalubre e le persone sono esposte a condizioni atmosferiche estreme, i servizi igienici sono scadenti e qualsiasi malattia infettiva si trasmette molto facilmente. Per questo le preoccupazioni per la diffusione del coronavirus sono alte. “Le condizioni del campo e gli ostacoli all’accesso al servizio sanitario nazionale fanno temere che qualsiasi epidemia possa diffondersi, dall’epatite alla meningite, fino al morbillo”, continua Sandrone. “Siamo preoccupati per la possibile diffusione del Covid-19”.
Anche Filippo Grandi, alto commissario dell’Onu per i rifugiati, ha ricordato che la risposta all’epidemia di Covid-19 “deve comprendere coloro che la società spesso trascura o relega a uno stato di marginalità. Altrimenti, fallirà. La salute di ogni persona è legata alla salute dei membri più emarginati della comunità. Prevenire la diffusione di questo virus richiede che sia garantito un accesso equo alle cure”.
Ma per il momento il governo greco non sembra aver assunto nessuna misura per fermare la diffusione della malattia. Intanto tutte le organizzazioni umanitarie chiedono il trasferimento immediato della maggior parte delle 38mila persone che si trovano sulle isole greche (Lesbo, Samos e Chios) e chiedono agli stati europei di riattivare i canali di ricollocamento all’interno dell’Unione europea, come era avvenuto nel biennio 2015-2017.
Daniela Pompei, responsabile immigrazione della Comunità di sant’Egidio, suggerisce di usare l’articolo 17 del regolamento di Dublino per avviare programmi di ricollocamento dei richiedenti asilo all’interno dell’Unione. “Gli stati potrebbero già promuovere questo tipo di canali, senza nemmeno dover riformare il regolamento di Dublino. Nel dicembre 2019 la Comunità di sant’Egidio ha trasferito in Italia in questo modo 33 persone vulnerabili da Lesbo”.
Tuttavia nel vertice di Bruxelles del 10 marzo c’è stato un accordo solo tra alcuni paesi – Finlandia, Francia, Lussemburgo, Portogallo – per il ricollocamento di 1.500 bambini in condizioni di vulnerabilità dalle isole greche, mentre l’accordo di Bruxelles con Ankara non ha subìto di fatto nessuna modifica. Un impegno che sembra insufficiente per scongiurare quella che è già di fatto una catastrofe umanitaria.
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