02 luglio 2017 08:29

“Moria è la cosa più vicina alla torre di Babele che io conosca”, dice Sophia Koufopoulou, antropologa e sociologa greca che insegna all’università del Michigan, negli Stati Uniti, mentre ferma in maniera brusca la sua auto davanti al centro di detenzione più conosciuto di tutta la Grecia. Nell’hotspot di Moria, sull’isola di Lesbo, sono trattenuti i migranti irregolari arrivati dopo l’entrata in vigore dell’accordo tra Unione europea e Turchia nel marzo del 2016.

Sophia è arrivata a Lesbo da qualche settimana per partecipare con i suoi studenti a dei corsi estivi di volontariato nella sezione minorile del centro. “Moria è un labirinto dove vivono persone di decine di nazionalità diverse: ognuno nel suo settore, le donne con le donne, i minori con i minori, i maschi soli con i maschi soli. Da qualche settimana sono aumentati gli arrivi dalla Turchia e nel centro di detenzione sono trattenute anche molte famiglie con bambini piccoli”, spiega la ricercatrice mentre cammina rapidamente verso l’ingresso del centro.

Dopo alcuni incidenti avvenuti lo scorso inverno, la recinzione esterna è stata rafforzata: un muro bianco circonda il campo, sovrastato da una rete e da una corona di filo spinato. Dopo la recinzione, c’è qualche metro di vuoto, la casupola di ferro di un secondino che svetta nell’azzurro del cielo, poi una nuova recinzione al cui interno ci sono dei container bianchi e grigi: parallelepipedi regolari montati uno a fianco dell’altro. In ogni container dormono dieci o quindici persone, su letti a castello. Non hanno armadietti, non hanno nessuno spazio privato, usano qualche vecchia coperta di lana grigia come una tenda intorno al letto, per riprodurre un’idea d’intimità.

Da tutto il mondo
La maggior parte delle persone che arriva a Lesbo dalle coste turche si sente di passaggio, spiega Sophia Koufopoulou. “Arrivano in Grecia pensando che prenderanno un aereo o un traghetto per raggiungere le famiglie in qualche altro paese europeo”. Ma in realtà, dopo l’accordo con la Turchia e la chiusura della rotta balcanica nel marzo del 2016, rimangono bloccati in Grecia per mesi, aspettando che la propria domanda di asilo, di ricollocamento (relocation) o di ricongiungimento familiare sia valutata dalle autorità europee.

Sull’isola, secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), ci sono 4.521 profughi, in gran parte nell’hotspot di Moria. Tra loro 45 minori non accompagnati. Le famiglie invece vengono sistemate perlopiù nel campo attrezzato di Kara Tepe, qualche chilometro a nord di Mitilene. “Mentre un anno fa arrivavano a Lesbo via mare soprattutto siriani ora sbarcano gruppi di persone da tutto il mondo: dalla Repubblica Democratica del Congo alla Nigeria, dal Mali al Kuwait. Quelli che vengono da paesi considerati sicuri come l’Algeria e il Pakistan sono sottoposti a una procedura accelerata per la richiesta di asilo e nella maggior parte dei casi la domanda viene respinta. A quel punto sono riportati indietro in Turchia”, spiega.

Una volontaria (con la pettorina arancione) sorveglia l’ingresso della sezione minorile dell’hotspot di Moria, in Grecia, giugno 2017. (Annalisa Camilli)

Il campo è diventato un hotspot, cioè un centro d’identificazione e registrazione per i migranti irregolari nel gennaio del 2016. Si sviluppa verticalmente sulla collina, come un fortino. Ci si arriva attraverso una strada che dalla litoranea svolta verso l’interno, tra uliveti, campi di grano e vecchie edicole religiose che riproducono in miniatura i monasteri ortodossi dell’isola. Gruppi di persone camminano avanti e indietro sulla strada, chiacchierano tra loro e al telefono, non troppo preoccupati delle poche macchine che percorrono la via. Sono migranti che risiedono nel centro e a cui da qualche mese è stato concesso di uscire. Alcuni hanno dei braccialetti colorati che indicano che possono rimanere fuori dal centro solo qualche ora al giorno per poi rientrare nella sezione a cui sono stati assegnati, divisi per nazionalità.

Piccoli tagli
L’ingresso di Moria è un cancello, controllato da un poliziotto che lascia entrare solo chi riconosce. Dopo il primo blocco, si arriva davanti a un container che funge da reception: dietro una finestra una donna bionda chiede con gentilezza il nome di chi entra e di chi esce, si fa scrivere i nomi su dei post-it blu, li spunta da una lista, quindi lascia passare.

Un gruppo di poliziotti e militari greci staziona sul secondo ingresso: chiacchierano del più e del meno, mentre si riparano dal sole che già a metà mattina si riflette sui container spargendo una luce e un’afa insopportabili. Passato il secondo posto di blocco, si comincia a salire percorrendo una stradina che costeggia il campo. Così si arriva a un terzo cancello, dove alcune volontarie con delle pettorine arancioni sorvegliano l’ingresso. Entrano nel cuore del campo solo le persone che indossano un braccialetto di riconoscimento: minori, donne, gruppi familiari, ma anche chi deve andare dal medico o chi ha appuntamento con i funzionari dell’European asylum support office (Easo) o con quelli greci dell’Asylum service.

Dopo il posto di blocco si apre una sorta di corridoio di cemento: sulla sinistra c’è una piazza circondata dai container, alcune persone aspettano sedute su una panca altre sono in fila davanti all’ambulatorio. Sulla destra invece ci sono tre corridoi circondati da recinzioni, tre settori, ognuno chiuso da un cancello: il settore dei minori non accompagnati, quello delle donne e quello delle famiglie. Nel primo compound i container sono stati dipinti di fresco con vernici colorate dagli studenti americani venuti insieme alla professoressa Koufopoulou. Sembrano casette estive – gialle, rosse e blu – ma sono circondate da filo spinato.

In questa parte del campo sono rinchiusi i minorenni arrivati da soli sull’isola, a cui non viene mai concesso di uscire, se non per gite organizzate dagli operatori. Al cancello una volontaria statunitense che indossa un vestito tradizionale della comunità mormona – abito lungo grigio e cuffietta bianca – deve sorvegliare l’ingresso: possono uscire ed entrare solo gli operatori. Ibu, un ragazzino siriano, sta finendo di dipingere con una vernice celeste la parete di un container, ha lo sguardo vivace, velato in certi momenti da una patina di sconforto.

“Vengono dal Bangladesh, dall’Afghanistan, dal Pakistan”, spiega Niovi Sakellaridi, un’operatrice dell’associazione greca Praksis che lavora all’interno di Moria da un anno e mezzo. “Non capiscono perché siano stati rinchiusi nell’hotspot e per questo cerchiamo di rassicurarli e di spiegare loro che presto saranno trasferiti in un centro per minorenni, appena sarà accertata la loro età”, dice Sakellaridi. Secondo le norme europee, detenere minorenni è illegale. La legge greca sull’asilo invece prevede che i minori possano essere detenuti in un regime amministrativo (senza l’autorizzazione di un giudice) per un massimo di 25 giorni per “proteggerli”, in attesa che siano trasferiti in un centro di accoglienza adeguato.

“Tuttavia abbiamo conosciuto ragazzi detenuti anche per sei mesi”, afferma Sakellaridi. Il fatto di dover vivere all’interno di un carcere, senza aver commesso nessun tipo di crimine, provoca una sofferenza profonda nei ragazzi: “Gli attacchi di panico sono all’ordine del giorno: vediamo sempre più spesso ragazzini che si fanno piccoli tagli sulle braccia”, racconta l’operatrice umanitaria. “Un ragazzino che abbiamo soccorso dopo che si era tagliato mi ha detto: ‘Volevo farmi del male sul corpo, perché così almeno posso vedere il male che sento dentro”. Nel cortile tra i container ci sono delle cabine telefoniche, i volontari hanno dipinto anche quelle con vernici colorate. “I ragazzi chiamano spesso le loro famiglie, ma non dicono dove si trovano, si vergognano di dire ai genitori che sono in difficoltà”, spiega Sakellaridi.

Carcerieri e foreste
Un ragazzo afgano ha disegnato sulla parete del container dove vive il suo viaggio dall’Afganistan all’hotspot di Moria. Nella mappa ha tratteggiato con un pennarello nero la forma del suo paese: carri armati e cecchini ovunque. Nel suo percorso ci sono piccoli uomini, soldati, prigioni, carcerieri e foreste. “I ragazzi ci raccontano spesso degli abusi sessuali e delle violenze che subiscono da parte dei trafficanti che li conducono attraverso il percorso”, racconta Niovi Sakellaridi.

“L’incubo ricorrente è un bosco che si trova al confine tra Iran e Turchia: nella foresta i ragazzi hanno dovuto nascondersi dai militari di frontiera che sparavano a vista a chiunque cercava di attraversare il confine”. L’operatrice ha un sorriso aperto e luminoso, ma confessa di aver provato spesso sconforto: “Lavorare otto ore nel campo, reclusi, non è facile. All’inizio soffrivo d’insonnia, poi mi sono uscite delle bolle sulle braccia e poi su tutto il corpo. Credo che sia il mio modo di sfogare lo stress”, racconta mentre mostra delle piccole bolle biancastre sulle braccia.

Il disegno di un ragazzo afgano sulla parete di un container nell’hotspot di Moria, giugno 2017.

Praksis, l’organizzazione per cui lavora, ha deciso di lasciare il campo di Moria: “Crediamo che non sia giusto trattare le persone come pacchi, come cose, e per questo dopo aver cercato di dare assistenza a chi vive all’interno di Moria per molti mesi, l’ong Praksis ha deciso di andarsene”. Niovi Sakellaridi è combattuta perché crede che i ragazzi abbiano bisogno di essere aiutati, ma si rende conto che la detenzione acuisce i traumi e le difficoltà dei bambini.

Spesso nel campo scoppiano rivolte violente e lo scorso inverno sono morte tre persone in diversi incidenti causati dalla precarietà delle condizioni di vita: molti dormivano nelle tende nonostante il freddo e la neve e usavano stufe a gas per scaldarsi. “Queste persone hanno più di un trauma: hanno subìto abusi e violenze nei loro paesi d’origine, poi ne hanno subiti durante il viaggio, sono riuscite ad attraversare il mare, ma quando pensavano di avercela fatta è cominciata una condizione di attesa e di sospensione, ed è in quel momento che affiorano i traumi”, spiega la ricercatrice greca Sophia Koufopoulou mentre chiede a uno dei ragazzi di aiutarla a dipingere anche i container in cui vivono le famiglie, dopo aver concluso il lavoro nel settore dei ragazzi.

Esperimento Grecia
“Eid Mubarak”, dice con timidezza Mohammad Qadeem, un ragazzo pachistano di 17 anni, mentre cammina svelto sulla strada in salita che attraversa il campo per raggiungere la sezione dove dormono gli uomini soli, il gruppo più nutrito del campo. È l’ultimo giorno del Ramadan, la più importante festività islamica e tutti i musulmani praticanti dell’hotspot stanno andando a pregare.

In cima alla collina, in una delle estremità dell’insediamento, un imam algerino ha allestito in una tenda una specie di sala di preghiera. Mohammad è arrivato quattro mesi fa, è minorenne, ma sostiene che di questo non si è tenuto conto a causa della sua nazionalità. “Ai pachistani si applica una procedura accelerata perché sono considerati migranti economici”, spiega Mairaj, un altro pachistano, in un ottimo inglese.

Entrambi raccontano di aver conosciuto molte persone, a cui è stato negato l’asilo e che sono state rimandate in Turchia, oppure che hanno accettato un programma dell’Organizzazione mondiale dell’immigrazione (Oim) per il rimpatrio volontario nel loro paese. “Meglio tornare a casa che finire in qualche carcere in Turchia”, dice Mairaj mentre allestisce un piccolo fuoco dietro una costruzione di cemento per preparare il cibo della festa. “Preferiamo cucinarci da mangiare, invece di mangiare sempre il cibo che distribuiscono. Per questo alcuni si sono organizzati con bombole a gas e fornelli anche se non potrebbero farlo”, racconta. Nel campo la vita quotidiana è molto dura: l’elettricità va e viene, manca spesso l’acqua e i bagni sono inservibili. Cumuli di bottiglie di plastica giacciono abbandonate dentro i bagni del settore maschile e l’odore è insopportabile.

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Ahmed, un ragazzo algerino di 25 anni, si affaccia da un container per guardare Mairaj che cucina: “Algerini e pachistani non hanno nessuna possibilità che la loro domanda di asilo sia accettata”, conferma. Per questo molti provano a rimanere sull’isola in maniera illegale, dormono in fabbriche abbandonate vicino a Mitilene e lavorano nei campi. “Ma non è facile, rischiano di essere rimandati in Turchia e quello che li aspetta dall’altra parte è la prigione”, dice Ahmed. Per sfuggire al rimpatrio Nazeed, un ragazzo afgano, racconta di essersi nascosto in un camion che si stava imbarcando su un traghetto per Atene. “Sono arrivato ad Atene, poi in Italia sempre con lo stesso metodo. Ma la polizia mi ha fermato e dopo qualche mese mi ha rimandato in Grecia”, racconta.

La tendenza delle autorità greche a valutare con procedure diverse le domande di asilo, in particolare sulla base della nazionalità, è stata denunciata anche dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) nel rapporto Esperimento Grecia: un’idea di Europa, pubblicato il 22 giugno. “Per bloccare i flussi migratori verso l’Europa dalla Turchia, Atene ha sperimentato nell’ultimo anno una serie di procedure in particolare nelle isole greche”, spiega l’avvocata Lucia Gennari, una degli autori del rapporto dell’Asgi.

“Riformando la legge sull’asilo nell’aprile del 2016, dopo un mese dall’entrata in vigore dell’accordo tra Ankara e Bruxelles sui migranti, la Grecia ha introdotto il meccanismo dell’ammissibilità della domanda con cui si valuta se il richiedente asilo provenga da un paese terzo considerato sicuro come la Turchia. Quindi le autorità greche non valutano le domande nel merito, ma nel caso dei siriani valutano solo se la Turchia sia un paese sicuro dove rimandarli”, continua. “Non c’è bisogno di andare troppo a fondo per sapere che la Turchia non è un paese sicuro perché non garantisce la protezione internazionale praticamente a nessuno e perché si è resa spesso responsabile di respingimenti alla frontiera con la Siria”, continua Gennari.

“Il meccanismo ellenico ci interessa anche perché ci sembra che la Grecia si possa considerare un laboratorio delle politiche europee sull’immigrazione. Infatti se esaminiamo le riforme che il parlamento e la Commissione europea stanno valutando in questo momento – come la riforma del regolamento di Dublino e la riforma della direttiva procedure – norme che riguardano i pilastri del diritto d’asilo, ci rendiamo conto che Bruxelles vuole estendere a tutti i paesi europei molti meccanismi che sono stati sperimentati in Grecia, in vista di una restrizione generale dell’accesso all’asilo”, conclude Gennari.

Nuovi arrivi
Ibhraim Al Nasir è appena arrivato sull’isola con sua moglie Sherazade e le sue tre figlie. La più piccola, Bayam, non ha nemmeno un anno. Ibhraim ha pagato duecento euro per la traversata dell’Egeo da Ayvalık, in Turchia. La famiglia siriana, originaria di Raqqa, è partita di notte dalla costa turca con un gommone che è stato intercettato dalla guardia costiera appena entrato nelle acque greche. Le famiglie siriane sono state fatte salire su un’imbarcazione più grande che le ha portate nel porto commerciale di Mitilene, la città più grande dell’isola, dove sono sbarcate e portate direttamente all’hotspot di Moria su un autobus.

Il settore minorile nell’hotspot di Moria, giugno 2017. (Annalisa Camilla)

“Da quando siamo arrivati ci hanno messo a dormire in un container con altre sette famiglie, per terra, con delle coperte, perché la stanza non è un dormitorio, ma una scuola. Non ci sono letti, non c’è acqua, la bambina ha una ferita sul piede ma non è ancora stata visitata dal medico”, afferma Ibhraim che ha vissuto a Urfa, in Turchia, prima di provare a raggiungere la famiglia della moglie in Grecia. Sull’isola di Lesbo da qualche settimana è stato registrato un leggero aumento degli arrivi. “Ogni giorno arrivano più di cento persone”, conferma Chloe Haralambous dell’associazione Borderline-Europe che monitora gli arrivi sull’isola greca.

“Un incremento rispetto alle scorse settimane, ma niente di paragonabile agli arrivi di massa del 2015, quando se ne registravano anche tremila al giorno”. L’aumento degli sbarchi ha convinto le autorità a riaprire tre campi di transito nel nord dell’isola, dove da tempo le barche non arrivavano più direttamente sulla costa. “Credo che questa situazione sia dovuta più alle condizioni del mare, in questi giorni particolarmente piatto, che a un cambiamento della strategia da parte delle autorità turche che pattugliano le coste e riportano indietro i migranti”.

Quello che è certo è che si sono aperte nuove rotte: “Mentre nel 2015 il flusso era composto quasi esclusivamente da siriani, afgani e iracheni, ora arrivano migranti da tutto il mondo, anche se i siriani rimangono il gruppo più numeroso. Recentemente si è aperta una rotta dalla Repubblica Democratica del Congo: i congolesi arrivano all’aeroporto di Istanbul o a Smirne con un volo di linea e lì trovano trafficanti ad aspettarli. Questa situazione è sicuramente legata anche al deterioramento della rotta del Mediterraneo centrale, sempre più pericolosa”.

Per compiere la traversata dell’Egeo i migranti riferiscono di aver pagato anche 50 euro, un prezzo molto basso rispetto ai cinquecento euro che servivano nel 2015, prima dell’accordo tra Unione europea e Turchia. “È paradossale che i viaggi costino di meno dopo l’approvazione dell’accordo, proprio quando cioè dovrebbe essere più complicato arrivare in Grecia dalla Turchia, con il dispiegamento di mezzi navali europei al largo delle coste turche, ma non riusciamo a capire bene che cosa stia succedendo in Turchia per quanto riguarda il traffico di esseri umani”, afferma Chloe Haralambous. Una cosa è certa: “Se la rotta dalla Turchia alle isole greche dovesse riaprirsi, la Grecia non sarebbe in grado di far fronte a una nuova emergenza”.

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