10 marzo 2017 13:26

Ali è siriano, ha 19 anni e in questo momento si trova in un centro di detenzione per stranieri in Belgio in attesa di sapere se dovrà essere trasferito in Croazia, il paese dal quale è entrato nell’Unione europea, o se potrà rimanere in Belgio, dove suo fratello ha ottenuto lo status di rifugiato.

Dopo aver attraversato l’Europa e aver trascorso alcuni mesi in una struttura di accoglienza per richiedenti asilo nelle Fiandre, a fine febbraio è stato informato che, in base al regolamento di Dublino, doveva tornare in Croazia e presentare lì una richiesta di asilo, pur non avendo nessun legame nel paese e nonostante la Croazia fosse stata condannata per il suo trattamento dei richiedenti asilo.

L’avvocato di Ali ha fatto ricorso contro la decisione e ora il giovane siriano aspetta, spaventato e incredulo. La sua storia racconta il fallimento del sistema di Dublino sul diritto d’asilo europeo, nato nel 1990 per stabilire quale stato membro dell’Unione europea è responsabile dell’esame di una richiesta di asilo (quasi sempre il paese di primo ingresso nel territorio dell’Unione).

Enorme pressione
Un sistema pensato, applicato e riformato male, che ha creato un’enorme pressione sui paesi di frontiera come l’Italia e la Grecia senza garantire una reale solidarietà e cooperazione tra gli stati membri. In base al regolamento di Dublino, nel 2016 sono stati trasferiti in Italia da altri paesi europei 3.129 richiedenti asilo, perché è stato stabilito che l’Italia era stato il loro paese d’ingresso in Europa.

Dall’Italia, sempre nel 2016, sono state trasferite in altri stati europei 115 persone per la stessa ragione. Questi numeri sono destinati ad aumentare nel 2017, perché nel frattempo l’agenda europea sulle migrazioni, del maggio del 2015, ha imposto che nei paesi di arrivo dei migranti siano creati degli hotspot, cioè delle strutture dove i migranti sono identificati e fotosegnalati all’arrivo. Nel 2016, la procedura ha riguardato il 99 per cento dei migranti arrivati in Italia, ma molti di loro hanno continuato a sottrarsi al sistema di accoglienza istituzionale e a raggiungere altri paesi d’Europa autonomamente, rischiando nei prossimi mesi di essere rimandati indietro proprio in base alle regole comuni sull’asilo.

Negli ultimi mesi il regolamento di Dublino è tornato al centro di accese discussioni tra la Commissione europea, gli stati dell’Unione e il parlamento europeo, con la proposta di riformarlo una terza volta.

La Commissione, che in un primo momento aveva suggerito due opzioni, tra cui la creazione di un nuovo sistema di ripartizione delle domande di asilo, ha successivamente ripiegato su un meccanismo correttivo del sistema attuale, presentando il 4 maggio 2016 una proposta di riforma poi passata all’esame del parlamento europeo. L’eurodeputata svedese Cecilia Wikström, del gruppo Alde (Alleanza dei democratici e liberali per l’Europa), è stata nominata dal parlamento relatrice per la riforma e ha lavorato per mesi alla revisione, che è stata presentata il 9 marzo alla commissione parlamentare per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni. Ecco i punti principali della riforma, le critiche mosse dalle organizzazioni che si occupano della tutela del diritto di asilo e gli emendamenti che saranno discussi al parlamento europeo.

Cosa cambia con Dublino IV
Sono tre i principali obiettivi della riforma del regolamento di Dublino presentata dalla Commissione. Il primo è semplificare (o rendere meno flessibile, a seconda dei punti di vista) l’individuazione dello stato responsabile dell’esame di una richiesta di asilo, riducendo le possibilità che questa responsabilità passi da uno stato all’altro.

Il secondo è stabilire un meccanismo correttivo di ridistribuzione dei richiedenti asilo (spartiti in quote calcolate sulla base della popolazione e del pil dei vari stati membri), che scatterebbe solo quando la capacità di accoglienza di uno stato abbia superato la soglia del 150 per cento. Il terzo è scoraggiare attraverso delle sanzioni i cosiddetti movimenti secondari dei richiedenti asilo che provano a raggiungere un paese diverso da quello in cui sono tenuti a presentare la loro domanda.

Tra le altre novità proposte dalla Commissione c’è il controllo di ammissibilità delle domande di asilo, che nel caso spetterebbe al primo paese d’ingresso in Europa. Se si valuta che il richiedente proviene da un paese terzo considerato sicuro dall’Unione europea (per esempio un profugo siriano proveniente dalla Turchia, che è indicata come paese sicuro), dovrà essere adottata la procedura di asilo accelerata.

Bisogna applicare un principio di solidarietà e di equa ripartizione tra i diversi paesi

Sono previste inoltre la limitazione del diritto a presentare ricorso per i richiedenti asilo, la possibilità per gli stati dell’Unione di non partecipare al sistema correttivo di ridistribuzione versando 250mila euro per ogni richiedente asilo che rifiutano di accogliere e, tra i pochi punti positivi, l’estensione della definizione di parente anche ai fratelli e alle sorelle dei richiedenti asilo (punto, questo, che giocherebbe a favore di Ali).

Le reazioni alla proposta di riforma
La proposta della Commissione ha scatenato numerose critiche da parte di giuristi e organizzazioni di difesa dei diritti di migranti e rifugiati. A ottobre l’European council for refugees and exiles (Ecre), che riunisce novanta organizzazioni presenti in 38 paesi europei, ha pubblicato un esame dettagliato della riforma, definendola “tutto fuorché ragionevole” ed esortando il parlamento europeo a emendarla per renderla più giusta e rispettosa dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo.

Un’analisi condivisa da Gianfranco Schiavone dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che fa parte dell’Ecre. Come spiega Schiavone, la proposta della Commissione “non affronta il motivo principale del fallimento della normativa vigente: affidare alla geografia la gestione del fenomeno migratorio”, stabilendo “un rapporto tra il paese di primo ingresso nell’Unione europea e la sua responsabilità nell’esaminare la domanda”. Cioè non esiste e non viene introdotto un meccanismo europeo di ridistribuzione delle domande d’asilo all’interno del territorio dell’Unione.

Secondo l’Asgi è invece necessario che “intervenga un principio di solidarietà e di equa ripartizione tra i diversi paesi” fin dal momento in cui un richiedente asilo entra nel paese di primo ingresso e “non solo in una situazione di particolare sofferenza di quel paese”. È quella che le associazioni riunite nel Tavolo nazionale asilo chiamano “quota secca”.

Come in tutti gli altri campi del diritto, dovrebbe esserci una forma di bilanciamento

Questa ripartizione dovrebbe avvenire tendendo conto dei “fattori di connessione” tra il richiedente asilo e un determinato paese (i legami familiari, ma anche la conoscenza della lingua o un precedente soggiorno in un paese europeo), un criterio per ora limitato all’esistenza di legami familiari stretti e, in pratica, poco applicato. “Come in tutti gli altri campi del diritto, dovrebbe esserci una forma di bilanciamento tra l’interesse della persona e l’interesse degli stati, ma nella proposta di regolamento di Dublino IV questo bilanciamento non esiste”, afferma Schiavone. Per questo il Tavolo asilo propone che siano individuati dei fattori di connessione e che la domanda del richiedente asilo sia esaminata dal paese dove la persona ha un legame.

Una seconda proposta del Tavolo asilo è che il richiedente possa essere “sponsorizzato” da un familiare, da un conoscente o anche da un’organizzazione, come succede in Canada. In questo sistema un familiare o un conoscente assicura allo stato che si prenderà cura del richiedente asilo. “Allo stato attuale di fatto sono cinque gli stati europei che prendono in carico la maggior parte delle richieste d’asilo all’interno dell’Unione europea, e la riforma del regolamento di Dublino proposta dalla Commissione non risolve il nodo della ridistribuzione delle domande d’asilo”, ribadisce Daniela Di Rado del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), che fa parte del Tavolo asilo.

Donne afgane nel campo profughi costruito nel vecchio aeroporto Ellinikon di Atene, il 18 febbraio 2017. (Michalis Karagiannis, Reuters/Contrasto)

Secondo Di Rado, ci sono dei punti positivi nella proposta: “C’è una definizione dei familiari più ampia, il concetto non è più ristretto alla famiglia che si aveva nel paese d’origine, ma anche a quella che si è costituita durante il viaggio, e inoltre i fratelli e le sorelle sono inclusi tra i familiari che possono chiedere il ricongiungimento, mentre al momento non è così”. Un altro punto interessante – secondo Di Rado – è che non si potrà procedere al trasferimento del richiedente asilo nel paese d’ingresso nell’Unione europea finché è in corso la procedura d’appello.

Ma è preoccupante “il passo indietro che la proposta della Commissione introduce rispetto ai minori stranieri non accompagnati”, afferma Di Rado. Nella nuova proposta, nel caso dei minori non accompagnati lo stato di primo ingresso nell’Unione europea rimane sempre responsabile per la domanda d’asilo. “Questo secondo noi comporta il grosso rischio che i minori siano presi e spostati all’interno dell’Unione”.

Inoltre, conclude Di Rado, sono previste delle misure contro i richiedenti asilo che si spostano all’interno dell’Unione europea e lasciano il primo paese d’ingresso, come la perdita del diritto all’assistenza nei centri di accoglienza. “Sono misure punitive, volte a scoraggiare i movimenti secondari, e ci preoccupano anche perché si applicano ai minori. Il risultato sarebbe di avere decine di minori stranieri che dormono per strada perché hanno perso il diritto a stare nei centri”.

Cosa propone il parlamento europeo
Nella sua relazione Cecilia Wikström ha proposto numerosi emendamenti, eliminando o migliorando alcuni dei punti più discutibili del testo della Commissione. In un incontro con i giornalisti organizzato a Bruxelles il 6 marzo, Wikström ha tenuto a precisare che nel preparare la sua relazione non si è limitata a discutere con i shadow rapporteurs (”relatori ombra”, gli altri eurodeputati – uno per ogni gruppo politico – incaricati di esaminare la proposta della Commissione in questa prima fase), ma ha incontrato a più riprese una ventina di ong e i rappresentanti di numerosi governi europei.

Il risultato di queste consultazioni è un documento con più di un centinaio di emendamenti, ora all’esame della commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, che ha tempo fino al 23 marzo per proporre a sua volta delle modifiche. Su alcuni punti Wikström è stata radicale. Ha per esempio eliminato il controllo di ammissibilità delle domande di asilo, che “creerebbe un insormontabile carico amministrativo per gli stati in prima linea”, e le sanzioni ai richiedenti asilo “insubordinati”, mentre ha reintrodotto la clausola di discrezionalità, che permette a uno stato dell’Unione di decidere di esaminare di una domanda di asilo anche se il regolamento di Dublino non lo prevede. Una clausola a cui gli stati tengono, assicura Wikström, e che invece la Commissione aveva fatto sparire dal regolamento.

Secondo Elly Schlein, relatrice ombra per il gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, quello del controllo di ammissibilità era uno dei punti più preoccupanti della proposta della Commissione. “Era l’ennesimo esempio della tendenza a esternalizzare le frontiere e le responsabilità, tendenza che caratterizza le politiche migratorie del Consiglio e della Commissione”, osserva. “Basta considerare l’intesa con la Turchia. E ora quell’intesa sarebbe da prendere a modello con la Libia, paese che non ha nemmeno firmato la convenzione di Ginevra, in teoria un requisito necessario per essere considerato paese terzo sicuro. L’obiettivo è creare un filtro all’ingresso che trattenga il 70 o l’80 per cento degli arrivi, per cui se mai arriveremo a un sistema di asilo comune armonizzato, non avremo più richiedenti asilo perché li avremo bloccati tutti!”.

Nella sua relazione Wikström ha eliminato la possibilità di versare una somma per ogni richiedente asilo non accolto

Per quanto riguarda il meccanismo correttivo di ridistribuzione dei richiedenti asilo, Wikström propone di farlo scattare quando la capacità di accoglienza di uno stato raggiunge il 100 per cento, e concede un periodo transitorio di cinque anni ai paesi con meno esperienza nell’accoglienza di richiedenti asilo (il primo anno accoglierebbero il 20 per cento della loro quota, l’anno seguente il 40 per cento e così via). In altre parole, se l’Italia dovesse trovarsi in difficoltà, per i primi cinque anni la ridistribuzione dei richiedenti asilo arrivati sul suo territorio sarebbe solo parziale.

Secondo Jean Lambert, relatrice ombra per il gruppo dei Verdi, si tratta di una buona idea, “che permette di rispondere a una delle obiezioni dei nuovi stati dell’Unione – non essere in grado di accogliere i richiedenti asilo – perché darebbe il tempo di costruire un sistema di accoglienza”. È critica invece Cornelia Ernst, relatrice ombra per il gruppo Sinistra unita europea/Sinistra verde nordica, secondo cui “il periodo transitorio metterebbe troppa pressione ai paesi in prima linea”.

Un punto su cui, almeno finora, concordano tutti i gruppi del parlamento è che non deve essere possibile tirarsi fuori del sistema di solidarietà. Nella sua relazione Wikström ha eliminato la possibilità di versare una somma per ogni richiedente asilo non accolto. “È inaccettabile assegnare un prezzo a degli esseri umani in cerca di protezione internazionale”, osserva, senza però farsi illusioni su alcuni governi europei, ostili al principio di una spartizione equa e obbligatoria dei richiedenti asilo.

Per convincerli ad adeguarsi, Wikström suggerisce di bloccare parte dei Fondi strutturali e d’investimento europei che gli spetterebbero, “una soluzione possibile sul piano legale”, spiega, “e già usata nel campo delle politiche della pesca, per esempio, se i governi non rispettano le norme europee”. Sia Jean Lambert sia Cornelia Ernst sono scettiche, per motivi diversi. Per Lambert “l’idea difficilmente passerà al parlamento europeo”, mentre Ernst sottolinea che “le sanzioni rafforzano l’odio verso i rifugiati. Invece di punire gli stati bisogna incentivarli ad accettare più richiedenti asilo”.

Non è pensabile distribuire decine di migliaia di persone contro la loro volontà e senza la loro collaborazione

Schlein ricorda che “adottare un meccanismo permanente e automatico di distribuzione delle responsabilità tra gli stati membri vuol dire semplicemente applicare gli articoli 78 e 80 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea”.

Pur sostenendo, come la Commissione, che i richiedenti asilo non hanno il diritto di scegliere in quale paese presentare la loro domanda, Wikström offre loro la possibilità di esprimere una preferenza. Senza essere rivoluzionaria, la proposta apre uno spiraglio in un sistema coercitivo che tratta i richiedenti asilo come pedine da spostare sul territorio europeo, prive di volontà e con sempre meno diritti.

Da anni molti giuristi denunciano il carattere ingiusto e controproducente di questa visione. Tra loro c’è Francesco Maiani, docente di diritto europeo all’Università di Losanna e autore di uno studio del giugno del 2016 commissionato dal parlamento, in cui stronca la proposta della Commissione e dimostra che un sistema di distribuzione dei richiedenti asilo giusto ed efficiente deve essere basato sulle loro preferenze. “Non è pensabile distribuire decine di migliaia di persone contro la loro volontà e senza la loro collaborazione. Vogliamo restare aggrappati a quest’illusione di controllo?”.

Tornando alla relazione, Wikström semplifica le procedure per il ricongiungimento familiare e propone che i richiedenti asilo possano registrarsi come gruppi (fino a trenta persone) al loro arrivo sul territorio dell’Unione europea, un’idea presentata dal gruppo dei Verdi già nel febbraio del 2016. “Accogliere dei gruppi di richiedenti asilo favorisce l’integrazione di quelle persone e la creazione di nuove comunità”, spiega Jean Lambert. “Inoltre questa possibilità offre dei vantaggi pratici ai nuovi stati membri, che per esempio non saranno costretti a trovare interpreti per decine di lingue diverse”.

Commentando la relazione Wikström, Minos Mouzourakis di Ecre si rallegra di vedere riprese “molte delle nostre proposte”, ma sottolinea che su alcuni punti il testo non è ancora soddisfacente, soprattutto per quanto riguarda la tutela dei minori non accompagnati. Wikström infatti non modifica la proposta della Commissione che, contraddicendo una sentenza del 2013 della Corte di giustizia dell’Unione europea, prevede inutili trasferimenti da un paese all’altro per i richiedenti asilo minori non accompagnati.

C’è poi un emendamento che preoccupa in particolar modo l’Italia: l’introduzione di sanzioni per quello stato membro che, beneficiando del meccanismo correttivo di solidarietà, non dovesse però “rispettare i suoi obblighi verso gli altri stati membri nel controllo delle frontiere esterne e nella registrazione dei richiedenti asilo”, un’accusa rivolta spesso all’Italia negli ultimi anni.

In questo caso, su decisione del Consiglio, sarà possibile sospendere il meccanismo di ridistribuzione. L’attivazione di questo “freno di emergenza” si farebbe a scapito non solo dello stato sanzionato, ma anche, soprattutto, dei richiedenti asilo, che si ritroverebbero intrappolati in un sistema di accoglienza sovraffollato.

Cosa succederà al Consiglio europeo
“Sono impaziente di avviare le discussioni con il Consiglio e la Commissione”, ha dichiarato Wikström in conferenza stampa. A chi le fa notare che alcuni governi hanno posizioni molto diverse da quelle espresse nella sua relazione, l’eurodeputata svedese ricorda che “l’approvazione delle politiche di asilo non richiede l’unanimità al Consiglio, ma una maggioranza qualificata”.

E con un sorriso assicura: “Sono un’ottimista, e non ho l’abitudine di perdere”. Jean Lambert condivide il suo ottimismo: “Cecilia Wikström è una relatrice molto rispettata, ha consultato gli stati membri e questo dovrebbe ridurre il rischio che il Consiglio faccia ostruzionismo”. Anche secondo Minos Mouzourakis, “il documento traccia il quadro in cui avverrà la discussione con il Consiglio, ed è un ottimo punto di partenza”.

Elly Schlein la pensa diversamente: “Le discussioni già in corso al Consiglio sono totalmente scollegate dalla proposta della Commissione ed è questo l’aspetto più grave del negoziato. Gli stati membri parlano di fantasiose soluzioni per evitare che la solidarietà sia obbligatoria e lasciare tutto in mano al Consiglio. Per loro è come se il parlamento non esistesse. In alcuni documenti trapelati dal Consiglio si legge addirittura che ci sarebbe l’intenzione di scorporare il meccanismo di solidarietà correttivo dalla proposta di riforma del regolamento di Dublino, mettendolo in un altro strumento legislativo”.

La discussione dei singoli governi è incentrata sul pensiero quasi ossessivo di affidare la responsabilità dell’esame di una domanda a un solo stato

Sembrerebbe quindi che, mentre il parlamento ha avviato, come da procedura, una riflessione partendo dalla proposta della Commissione, gli stati dell’Unione europea si stiano muovendo in una direzione diametralmente opposta. “La loro discussione è incentrata sul pensiero quasi ossessivo di affidare la responsabilità dell’esame di una domanda a un solo stato, per sempre e qualsiasi cosa accada, e sull’idea che il Consiglio debba rimanere libero di decidere tutto, anche in una situazione di crisi del sistema di accoglienza. Non mi stupirebbe se la proposta della Commissione fosse già superata dal livello allucinante del dibattito al Consiglio. E in tal caso la Commissione potrebbe dover ritirare la sua proposta e presentarne un’altra”.

Vorrebbe dire che tutto il lavoro svolto da Wikström è stato inutile, e il parlamento si ritroverebbe a esaminare una proposta di riforma perfino peggiore di quella attuale. “La Commissione avrebbe potuto rivendicare il suo ruolo politico, proponendo una soluzione ambiziosa, il superamento del criterio del paese di primo ingresso e un vero meccanismo di ridistribuzione, ma non l’ha fatto”, accusa Schlein. “E anche ora sembra molto più attenta agli umori del Consiglio che a risolvere davvero i problemi che ci sono da sempre e che sono diventati particolarmente evidenti dopo lo scoppio della crisi libica e, in seguito, di quella siriana”.

Cornelia Ernst, che è al suo secondo mandato da eurodeputata, non nasconde la sua preoccupazione: “Ero già contraria alla precedente riforma del regolamento di Dublino, e certo non perché fossi una sostenitrice di questo sistema. Ma pensavo, come penso adesso, che riformarlo possa solo peggiorare la situazione”.

Intanto Ali aspetta. A cosa serviranno la sua detenzione, la sua paura, il suo eventuale trasferimento in Croazia, seguito quasi certamente da un nuovo tentativo di raggiungere il fratello in Belgio? Non certo ad assicurare il funzionamento di un sistema giusto, efficiente e rispettoso dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo. Serviranno solo ad alimentare l’illusione degli stati membri di poter controllare la sua vita, e quella di chiunque cerchi rifugio in Europa.

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